La legittimazione processuale alla domanda di fallimento e di liquidazione giudiziale della società insolvente

14 Febbraio 2022

Per la proposizione della domanda di fallimento la legge fallimentare ha previsto una legittimazione “plurale” (art. 6 l.fall.) e il Codice della Crisi ha ulteriormente enfatizzato questa caratteristica (art. 37 CCI). L'articolo approfondisce il tema della legittimazione processuale, in relazione alla legge fallimentare e al Codice della crisi, che ha assunto una grande rilevanza pratica proprio in conseguenza della eliminazione dell'iniziativa officiosa e della configurazione del processo per la dichiarazione di fallimento come processo ad istanza di parte, anche quando l'istante sia lo stesso debitore insolvente.
Premessa

Come noto, per la proposizione della domanda di fallimento la legge ha previsto una legittimazione “plurale”, tale cioè da tener conto della possibile varietà degli interessi coinvolti nella regolazione dell'insolvenza dell'imprenditore commerciale; venuto meno per effetto della riforma organica del 2006 il potere del Tribunale di dichiarare d'ufficio il fallimento, infatti, l'art. 6 l.fall. riconosce tale legittimazione ai creditori, al pubblico ministero ed allo stesso debitore.

Il codice della crisi e dell'insolvenza di cui al d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, ha ulteriormente enfatizzato tale caratteristica. L'art. 37, comma 2, CCI prevede infatti che la domanda di apertura della liquidazione giudiziale possa essere proposta, oltre che dal debitore, da uno o più creditori e dal pubblico ministero, anche dagli organi e dalle autorità amministrative “che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull'impresa”.

È opportuno osservare come il tema della legittimazione alla proposizione della domanda di apertura della procedura abbia assunto grande rilevanza pratica proprio in conseguenza della già ricordata eliminazione dell'iniziativa officiosa e della configurazione del processo per la dichiarazione di fallimento come processo ad istanza di parte, anche quando l'istante sia lo stesso debitore insolvente. In passato, infatti, il Tribunale avrebbe comunque potuto dichiarare il fallimento d'ufficio del debitore di cui fosse stata “segnalata” l'insolvenza e da ciò discendeva il carattere essenzialmente teorico del problema riguardante la legittimazione alla proposizione del ricorso per la dichiarazione di fallimento; nel contesto normativo della riformata legge fallimentare, come in quello del codice della crisi e dell'insolvenza, l'apertura della procedura di insolvenza può invece scaturire soltanto da una domanda in tal senso proposta da un soggetto a ciò legittimato, richiedendo pertanto la necessaria verifica della sussistenza di tale legittimazione.

Limitando l'attenzione alla domanda proposta dallo stesso debitore, è chiaro che il profilo della legittimazione alla domanda (o legitimatio ad causam) resta comunque puramente teorico, anche nel rinnovato assetto legislativo. Dubbi sulla legittimazione del debitore a chiedere il proprio fallimento o la propria liquidazione giudiziale potrebbero porsi soltanto ove fosse accertata l'inesistenza in capo all'istante di qualunque debito, sia esso “civile” o “commerciale”, nei confronti di chicchessia; soltanto in tal caso, infatti, il soggetto non potrebbe qualificarsi “debitore” agli effetti dell'art. 6 l.fall. e art. 37 CCI e non sarebbe legittimato a chiedere l'apertura della procedura.

Al contrario, l'esistenza di anche un solo debito di minimo ammontare comporterebbe il necessario riconoscimento della qualità di “debitore” agli effetti degli artt. 6 l.fall. e 37 CCI, ferma restando la necessità di valutare l'eventuale insolvenza dell'imprenditore, la cui insussistenza atterrebbe tuttavia al merito del giudizio e non già ai profili di legittimazione attiva.

Alcuni dubbi sorgono, invece, sul piano della verifica della legittimazione processuale (o legitimatio ad processum) ossia della titolarità del potere di proporre la domanda giudiziale. Il necessario accertamento di tale legittimazione pone infatti talune rilevanti questioni, principalmente nell'ipotesi in cui il debitore che chiede il proprio fallimento o la propria liquidazione giudiziale sia una società. Tali questioni meritano, dunque, di essere meglio esaminate.

La legittimazione di amministratori e liquidatori

Non v'è dubbio che la legitimatio ad processum per la domanda di fallimento e di liquidazione giudiziale da parte della medesima società debitrice spetti al soggetto munito della rappresentanza secondo le norme legali e statutarie volta per volta applicabili, in coerenza con quanto in generale prevedono gli artt. 2266 c.c. e 75 c.p.c..

Dubbi sussistono invece sul procedimento di formazione della volontà sociale e, in particolare, sulla necessità di una preventiva autorizzazione del legale rappresentante alla proposizione della domanda.

Detta necessità è affermata da taluno invocando l'applicazione analogica dell'art. 152, comma 2, l.fall. in tema di approvazione della proposta di concordato fallimentare e richiedendo quindi, per le società di persone, l'autorizzazione dei soci che rappresentano la maggioranza assoluta del capitale e, per le società personificate, la deliberazione dell'organo amministrativo, salva in entrambi i casi una diversa previsione statutaria (cfr. Caridi, p. 943-944; Righetti, 36; S. De Matteis, 155; Clemente, Arpea, 79-80; Adiutori, 1992-1993]; secondo altri osservatori, invece, la proposizione della domanda di autofallimento dovrebbe in ogni caso essere autorizzata dai soci (De Santis, p. 69; anteriormente alla riforma organica, Vigo, 774; Nigro, 1993, 258-259).

La tesi volta ad attribuire un qualche ruolo alla volontà dei soci nella proposizione della domanda per la dichiarazione di fallimento è però respinta con fermezza dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte ribadito che il ricorso per l'autofallimento (ma analogo principio potrà verosimilmente ritenersi valido anche per la domanda di apertura della liquidazione giudiziale) cui è legittimato il rappresentante legale della società, “non necessita di alcuna autorizzazione assembleare - o dei soci, nell'ipotesi di società di persone o anche di società a responsabilità limitata mediante manifestazioni di volontà separate (c.d. metodo per referendum: art. 2479 c.c., comma 3)”,, tantopiù considerato che si tratterebbe di un atto “la cui omissione è penalmente sanzionata e che non determina, di per sé, alcun effetto diretto sulla società e sui diritti dei soci, eventualmente ricollegabile solo alla successiva sentenza dichiarativa di fallimento” (così, Cass., sez. I, sent. 16 settembre 2009, n. 19983, richiamata da Cass., sez. I, sent. 3 febbraio 2017, n. 2957 nonché, più recentemente, da Cass., sez. I, ord. 15 aprile 2019, n. 10523).

Secondo la giurisprudenza, dunque, l'organo amministrativo della società “non può essere privato, ad opera dei soci, del potere-dovere di richiedere il fallimento della società che versi in stato di insolvenza”. La nettezza di tale conclusione induce ragionevolmente ad escludere che la competenza dell'organo amministrativo possa essere limitata dall'atto costitutivo o dallo statuto della società (di diverso avviso, però, Nigro, 2006, 790), considerato anche che quello qui in discussione è un “potere-dovere” posto a presidio di interessi non facenti capo esclusivamente ai soci.

Ciò posto, resta invece non definitivamente chiarito se l'esercizio di tale “potere-dovere” da parte del legale rappresentante della società sia soggetto (se non all'approvazione da parte dei soci, quanto meno) alle regole di formazione della volontà sociale in seno all'organo amministrativo.

Tale problema si pone, ovviamente, nella sola eventualità in cui l'amministrazione della società sia affidata a più persone, secondo il modello dell'organo collegiale, o dell'amministrazione in via congiuntiva o disgiuntiva.

Si è già visto che, secondo parte della dottrina, anche per la proposizione della domanda di fallimento dovrebbe trovare applicazione analogica quanto previsto dall'art. 152, comma 2, lett. b), l.fall. che, in ordine alla proposta di concordato fallimentare da parte di società di capitali e cooperative, richiede la previa deliberazione degli amministratori; da ciò deriverebbe che la legittimazione alla proposizione della domanda di apertura del fallimento o della liquidazione giudiziale sussisterebbe soltanto in presenza di una conforme deliberazione dell'organo collegiale oppure, è da ritenere, in presenza del consenso espresso di tutti gli amministratori con poteri di gestione congiunta o infine in assenza di opposizione degli altri amministratori con poteri di gestione disgiunta.

Tale conclusione non sembra però condivisibile, sia in virtù delle rilevanti differenze riscontrabili tra la domanda di concordato e quella di autofallimento, sia perché occorrerebbe poi giustificare l'applicazione analogica alla fattispecie in esame della sola regola sancita dall'art. 152 comma 2, lett. b), l.fall. con riferimento alle società di capitali e cooperative e non anche di quella dettata dalla precedente lett. a) con riguardo alle società di persone.

Al contrario, valorizzando la diffusa convinzione secondo cui la proposizione della domanda per la dichiarazione di fallimento (e per l'apertura della liquidazione giudiziale) costituisca per ciascun amministratore della società un vero e proprio obbligo (o, per utilizzare le parole della Suprema Corte, un “potere-dovere”) presidiato da sanzioni anche penali (ancorché la doverosità dell'istanza di fallimento della società amministrata sia in realtà assai dibattuta), sembra più corretto ritenere che tale domanda possa essere proposta da ciascun amministratore munito di rappresentanza, a prescindere dalla eventuale difforme volontà manifestata dall'organo amministrativo collegiale o dagli altri amministratori con poteri di gestione congiunta o disgiunta (Cavalli, 151; Costantino, 52; Fabiani, 2006-2007, 116 e 2017, 82).

Resta infine da chiarire che il “potere-dovere” di chiedere la dichiarazione di fallimento o l'apertura della liquidazione giudiziale a carico della società rappresentata compete non solo agli amministratori ed ai liquidatori ma anche, come affermato in dottrina, ai soggetti che esercitano in via straordinaria o temporanea poteri di gestione e rappresentanza della società (Dongiacomo, 411) e quindi, a titolo esemplificativo, all'amministratore giudiziario nominato in caso di gravi irregolarità amministrative ex art. 2409, comma 4, c.c. ed al collegio sindacale o al sindaco unico nell'ipotesi (contemplata dall'art. 2386, ultimo comma, c.c.) in cui siano venuti a mancare tutti gli amministratori.

La legittimazione dei soci non amministratori

Escluso che i soci possano limitare il potere degli amministratori di proporre la domanda per la dichiarazione di fallimento e per l'apertura della liquidazione giudiziale, occorre chiedersi se gli stessi soci possano invece sopperire all'eventuale inerzia degli amministratori assumendo direttamente l'iniziativa processuale (l'interrogativo riguarda evidentemente soltanto i soci che non siano contestualmente amministratori dotati di poteri di rappresentanza della società partecipata).

Una simile eventualità va certamente esclusa per le società personificate, atteso che lo schermo della personalità giuridica impedisce qualunque ipotesi di immedesimazione del socio nella posizione della società debitrice; il riferimento al debitore contenuto tanto nell'art. 6, comma 1, l.fall. quanto nell'art. 37, comma 2, CCI deve pertanto essere inteso come rivolto alla sola società, e non anche ai soci di quest'ultima. Quanto appena detto vale, peraltro, per l'iniziativa assunta dal socio in quanto tale.

Nulla invece impedisce che il socio possa chiedere l'apertura della procedura di insolvenza a carico della società cui partecipa agendo nella qualità di creditore della stessa, ad esempio facendo valere crediti derivanti da rapporti negoziali intercorsi con la società medesima (ivi compresi crediti derivanti da finanziamenti soggetti al regime di postergazione di cui all'art. 2467 c.c.).

Qualche dubbio si pone invece per i soci illimitatamente responsabili di società personali che non siano al contempo amministratori delle stesse, proprio in virtù della loro responsabilità illimitata per i debiti della società, oltre che del principio in base al quale il fallimento e la liquidazione giudiziale delle società personali determinano l'automatica apertura delle medesime procedure anche a carico dei soci in questione.

Un argomento in favore della legittimazione dei soci illimitatamente responsabili di società personali potrebbe trarsi dalla norma attualmente dettata dall'art. 222 l.fall. (e riprodotta sostanzialmente immutata nell'art. 328 CCI), secondo cui “nel fallimento delle società in nome collettivo e in accomandita semplice le disposizioni del presente capo si applicano ai fatti commessi dai soci illimitatamente responsabili”; se anche i soci illimitatamente responsabili di s.n.c. e di s.a.s. sono sanzionati penalmente nel caso in cui concorrano ad aggravare il dissesto della società cui partecipano omettendo di richiedere tempestivamente il fallimento della stessa, si può infatti dedurre che agli stessi sia consentito proporre tale domanda, non essendo ammissibile che siano puniti per l'omissione di un atto loro non consentito (in tal senso, Galgano-Bonsignori, p. 157).

Parte della dottrina esclude tale legittimazione, motivando l'assunto ora con il richiamo (invero tralatizio) alla natura sussidiaria della responsabilità del socio per le obbligazioni sociali (Montanaro, 182; De Santis, 69-70), ora rilevando che i soci illimitatamente responsabili che non sono al contempo amministratori non potrebbero essere penalmente sanzionati per non aver chiesto il fallimento della società da loro partecipata poiché, a differenza dei soci amministratori, non potrebbero in nessun caso concorrere ad aggravarne il dissesto.

In realtà, considerando che la condotta omissiva degli amministratori (ivi compresi i soci amministratori) rientra nel campo applicativo degli artt. 224 l.fall. e 330 cci, la norma di cui all'art. 222 l.fall. (e quella corrispondente di cui all'art. 328 CCI) riveste una propria utilità soltanto se riferita ai soci non amministratori. D'altro canto, non sembra nemmeno corretto ritenere che i soci non amministratori non potrebbero per definizione concorrere all'aggravamento del dissesto. Agli effetti dell'art. 217, comma 1, n. 4) l.fall. e dell'art. 323, comma 1, lett. d), CCI, infatti, rileva anche l'aggravamento del dissesto causato dalla mera astensione dal chiedere l'apertura della procedura concorsuale, oltre che da altre condotte connotate da grave colpa; anche la sola astensione dal chiedere il fallimento della società potrebbe dunque rilevare come causa di aggravamento del dissesto imputabile al socio illimitatamente responsabile che, pur non essendo amministratore, fosse comunque a conoscenza dello stato di insolvenza della società partecipata. Di conseguenza, poiché non si può certo immaginare che i soci non amministratori possano essere puniti per l'omissione di un atto che gli stessi non siano legittimati a compiere, sembra inevitabile riconoscere anche a tali soggetti la legittimazione a proporre la domanda di fallimento e di liquidazione giudiziale a carico della società cui partecipano.

V'è infine un altro indice normativo della legittimazione del socio non amministratore di società personale alla domanda di fallimento e di liquidazione giudiziale della società cui partecipa.

Tanto secondo la legge fallimentare quanto secondo il codice della crisi e dell'insolvenza, l'apertura della procedura di insolvenza a carico delle società con soci illimitatamente responsabili comporta l'automatica apertura della medesima procedura a carico di questi ultimi.

L'art. 147, commi 4 e 5, l.fall., e l'art. 256, commi 4 e 5, CCI, disciplinano le modalità applicative di tale principio nell'ipotesi in cui dopo la dichiarazione di fallimento o di liquidazione giudiziale della società sia scoperta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili (sia scoperta, in altri termini, l'esistenza di un socio occulto) e nell'ipotesi in cui dopo la dichiarazione di fallimento o di liquidazione giudiziale di un imprenditore individuale risulti in realtà che l'impresa è riferibile ad una società di cui l'imprenditore apparente è socio (risulti, cioè, l'esistenza di una società occulta). Ricorrendo tali presupposti, le richiamate disposizioni prevedono che il tribunale dichiari il fallimento o la liquidazione giudiziale del socio occulto o della società occulta, rispettivamente “su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito” (così l'art. 147, comma 4, l.fall.) e “su istanza del curatore, di un creditore, di un socio nei confronti del quale la procedura è già stata aperta o del pubblico ministero” (così l'art. 256, comma 4, CCI).

In sostanza, il socio già dichiarato fallito o in liquidazione giudiziale può senza dubbio chiedere il fallimento o la liquidazione giudiziale del proprio socio occulto o della società occulta cui egli partecipa, a prescindere dalla sua eventuale qualità di amministratore della stessa; con l'entrata in vigore del codice della crisi e dell'insolvenza, inoltre, un'analoga legittimazione verrà riconosciuta anche ai soci non ancora dichiarati in liquidazione giudiziale (cioè ai soci ancora rimasti occulti) ed ai loro creditori personali. Se tale legittimazione spetta dunque al socio illimitatamente responsabile di una società occulta, non si vedono ragioni per disconoscerla in capo al socio illimitatamente responsabile di società palese.

La legittimazione degli organi e delle autorità amministrative di controllo e vigilanza prevista nel Codice della crisi e dell'insolvenza

Come già accennato, il codice della crisi e dell'insolvenza contiene una rilevante novità rispetto alla legge fallimentare proprio con riguardo alla legittimazione rispetto alla proposizione della domanda di apertura della liquidazione giudiziale. L'art. 37, comma 2, CCI dispone infatti che il ricorso per l'apertura della procedura possa essere proposto anche dagli organi ed alle autorità amministrative “che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull'impresa”.

Ancorché il legislatore abbia fatto riferimento in maniera generica alle funzioni di controllo e vigilanza “sull'impresa”, occorre in primo luogo notare come la norma in questione sia destinata ad essere applicata in massima parte proprio con riguardo alle società, e particolarmente alle società di capitali ed alle cooperative: da un lato, infatti, il fenomeno organico riguarda ontologicamente le sole entità soggettive diverse dalle persone fisiche (invero, considerato che nella struttura delle società di persone non sono contemplati organi di vigilanza e controllo, la previsione relativa a questi ultimi è praticamente destinata ad operare soltanto con riferimento alle società di capitali o cooperative); dall'altro, le imprese soggette a vigilanza sono nella maggior parte dei casi esercitate da soggetti costituiti secondo i tipi societari dotati di personalità giuridica.

Si può inoltre osservare che la norma introduce una innovativa ipotesi di legitimatio ad causam alla proposizione della domanda di apertura della liquidazione giudiziale nella sola parte in cui consente l'iniziativa processuale anche alle autorità amministrative di vigilanza; nella parte riguardante gli organi di controllo, invece, la norma non individua un “soggetto” legittimato a proporre la domanda, ma si limita ad attribuire agli organi in questione il potere di rappresentanza processuale dell'ente nella cui organizzazione questi si collocano, ai limitati fini della proposizione della domanda di apertura della liquidazione giudiziale, intervenendo perciò soltanto sul piano della legitimatio ad processum.

In altri termini, ancorché la formulazione testuale della previsione possa ingenerare confusione, la domanda proposta “dall'organo di controllo” è pur sempre una domanda proposta dalla società insolvente, con la sola differenza che per la proposizione di tale domanda la società può agire in giudizio anche per mezzo dell'organo di controllo anziché del soggetto generalmente munito della rappresentanza dello stesso. Non sembra dubbio, peraltro, che la legittimazione processuale riconosciuta all'organo di controllo concorra, e non sostituisca, quella dell'organo amministrativo di cui si è trattato in precedenza.

Le autorità di vigilanza legittimate alla proposizione della domanda devono essere individuate avendo riguardo alla eventuale disciplina settoriale cui è soggetta l'attività d'impresa di cui si tratta; sempre avendo riguardo a tale disciplina ed alle norme organizzative che regolano il funzionamento dell'autorità competente dovranno poi essere determinate le concrete modalità di esercizio del potere attribuito dalla legge.

Il riferimento agli organi di controllo merita invece alcune precisazioni. Per le società a responsabilità limitata tale riferimento è da intendersi all'organo di controllo di cui all'art. 2477 c.c.. Per le società per azioni, le società in accomandita per azioni e le società cooperative, invece, l'organo legittimato è certamente il collegio sindacale o, in caso di adozione del sistema c.d. “dualistico” di cui agli artt. 2409 octies ss. c.c., il consiglio di sorveglianza; inoltre, ancorché il comitato per il controllo sulla gestione delle società che adottano il sistema c.d. “monistico” di cui agli artt. 2409 sexiesdecies ss. c.c. non possa tecnicamente essere qualificato alla stregua di un “organo” della società medesima, trattandosi piuttosto di una mera articolazione interna del consiglio di amministrazione, evidenti ragioni di ordine sistematico inducono a riconoscere anche in capo a tale comitato la legittimazione a proporre la domanda di apertura della liquidazione giudiziale ex art. 37, comma 2, CCI

Non possono invece essere ricompresi tra gli “organi” legittimati alla domanda di apertura della liquidazione giudiziale ex art. 37, comma 2, CCI i revisori e le società di revisione incaricati della revisione legale dei conti della società ai sensi degli artt. 2409 bis, comma 1, e 2477 c.c., che sono soggetti distinti dalle società sulle quali esercitano il controllo contabile, estranei alla struttura corporativa e non assimilabili ad organi delle stesse, né il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari previsto dall'art. 154-bis t.u.f. il quale, per la tesi che sembra preferibile, non istituisce un nuovo organo di controllo.

Infine, occorre rilevare come la prerogativa di cui all'art. 37, comma 2, CCI sia attribuita all'organo di controllo in quanto tale e non ai singoli componenti individualmente considerati. Laddove l'organo medesimo sia composto da più persone, dunque, la proposizione della domanda di apertura della liquidazione giudiziale deve necessariamente risolversi in un'iniziativa collegiale, non diversamente da quanto previsto per la proposizione della denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c.. Considerato che quello di chiedere la liquidazione giudiziale della società controllata è un potere “che si traduce in un dovere” (Rossi, 1381), quanto appena detto pone evidentemente un problema di corretta individuazione delle responsabilità laddove l'organo collegiale di controllo ometta di chiedere tempestivamente l'apertura della procedura di insolvenza.

I soggetti legittimati a contraddire alla domanda proposta contro la società

Individuati i soggetti dotati della legittimazione processuale a chiedere in nome della società insolvente l'apertura del fallimento e della liquidazione giudiziale a carico della medesima società, è opportuno concludere la disamina individuando i soggetti dotati della legittimazione processuale a contraddire rispetto ad una analoga domanda proposta da terzi contro la società.

L'art. 15, comma 2, l.fall. dispone che il Tribunale debba convocare, con decreto apposto in calce al ricorso per la dichiarazione di fallimento, il debitore e gli eventuali creditori che abbiano proposto l'istanza; dispone inoltre che nel procedimento intervenga il pubblico ministero che ha assunto l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento. Con una formula più sintetica, alla quale tuttavia non può che attribuirsi il medesimo significato, l'art. 41, primo comma, CCI prevede che “Il tribunale con decreto convoca le parti non oltre quarantacinque giorni dal deposito del ricorso”; anche nel vigore del codice della crisi e dell'insolvenza, dunque, alla proposizione della domanda di apertura della liquidazione giudiziale conseguirà la necessaria convocazione del debitore e dei soggetti che hanno proposto tale domanda.

Laddove il debitore nei cui confronti è chiesta la dichiarazione di fallimento o di liquidazione giudiziale sia una società, non v'è dubbio che i concreti destinatari della convocazione del tribunale e, quindi, legittimati a partecipare al procedimento, debbano essere individuati negli amministratori (o nei liquidatori) muniti dei poteri di rappresentanza della società (Giampaolino, 38; Cavalli, 185; Montagnani, 227; A. Nigro, 1993, 268); in assenza di un soggetto legittimamente investito della rappresentanza legale della società, occorrerà invece provvedere alla nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c. (in tal senso, Cass., sez. VI-1, ord. 1° agosto 2012, n. 13827).

Se l'istanza di fallimento o di liquidazione giudiziale riguarda una società in nome collettivo, in accomandita semplice ed in accomandita per azioni, poi, gli artt. 147, comma 3, l.fall. e 256, comma 3, CCI prevedono che il tribunale debba ordinare anche la convocazione dei soci illimitatamente responsabili; come noto, tale previsione si giustifica in ragione del fatto che la sentenza che dichiara il fallimento o l'apertura della liquidazione giudiziale di tali società produce l'automatica apertura delle medesime procedure di insolvenza anche a carico dei soci illimitatamente responsabili, i quali pertanto devono essere messi in condizione di contraddire rispetto alla domanda a ciò diretta.

È invece escluso che tra i soggetti da convocare vi siano anche i soci accomandanti delle società in accomandita semplice ed in accomandita per azioni ed i soci di società per azioni, a responsabilità limitata o cooperative, trattandosi di soggetti nei cui confronti la sentenza di apertura della procedura non produce alcun effetto diretto (Cass., sez. I, sent. 23 maggio 2016, n. 10632, nella quale si afferma che il socio limitatamente responsabile di società di capitali, “pur essendo titolare di posizioni giuridiche che potrebbero risultare pregiudicate dalla dichiarazione di fallimento, non è destinatario della relativa istanza né del decreto di convocazione emesso dal tribunale, dei quali non è prevista la notificazione anche nei suoi confronti”; Cass., sez. VI-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20913).

La possibilità che la domanda di apertura del fallimento o della liquidazione giudiziale delle società cancellate dal registro delle imprese apre infine l'interrogativo sulle modalità di integrazione del contraddittorio in tale particolare ipotesi.

Il problema riguarda soprattutto le società di capitali, considerato che per le società di persone già il regime ordinario impone la convocazione di tutti i soci illimitatamente responsabili (tra i quali vi saranno necessariamente anche i soci cui era affidata l'amministrazione della società). In astratto, si potrebbe ritenere che in detta ipotesi la trattazione della domanda richieda la convocazione e l'audizione di tutti gli ex soci della società cancellata, quali successori dell'ente ormai estinto; la Cassazione, tuttavia, non ha mai accolto tale soluzione, ritenendo al contrario che “la fictio iuris sottesa al disposto della L. Fall., art. 10 (che consente, al verificarsi delle - qui incontroverse - condizioni ivi previste, la declaratoria di fallimento della società entro l'anno dalla cancellazione) implica che la legittimazione al contraddittorio spetti a colui che rivestiva la carica di legale rappresentante al momento della estinzione della società” (tra le molte, Cass., sez. VI-1, ord. 29 marzo 2019, n. 8873; Cass., sez. VI-1, ord. 16 novembre 2016, n. 23393; Cass., sez. I, sent. 16 maggio 2014, n. 10777; Cass., sez. VI-1, ord. 31 maggio 2011, n. 12018; in dottrina, De Santis, 174).

Guida all'approfondimento

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