Conversione del contratto a termine dopo il 7 marzo 2015: non sempre si applica la tutela “degradata”

Teresa Zappia
25 Ottobre 2021

Secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, non può considerarsi nuovo assunto ai sensi dell'art. 1 co. 2 d.lgs. n. 23/2015, il lavoratore il cui contratto a termine, stipulato prima dell'entrate in vigore del decreto suddetto...
Massima

Secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, non può considerarsi nuovo assunto ai sensi dell'art. 1 co. 2 d.lgs. n. 23/2015, il lavoratore il cui contratto a termine, stipulato prima dell'entrate in vigore del decreto suddetto, sia stato trasformato in un contratto a tempo indeterminato senza effetti novativi, con conseguente applicazione dell'art. 18 st. lav., così come modificato in seguito alla l. n. 92/2012.

Il caso

La ricorrente, interessata da una procedura di licenziamento collettivo, sosteneva l'applicabilità dell'art. 18 st. lav. in ragione dell'asserita illegittimità costituzionale dell'art. 1, co. 2 d.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui dispone l'applicazione della nuova disciplina anche ai lavoratori subordinati già occupati con contratti di lavoro a tempo determinato, instaurati prima del 7 marzo 2015, ma convertiti in contratti a tempo indeterminato successivamente a tale data.

La ricorrente chiedeva, inoltre, la disapplicazione della disposizione suddetta in quanto ritenuta incompatibile con la direttiva n. 98/69/CE.

La questione

Può ritenersi conforme al diritto costituzionale ed europeo l'art. 1 co. 2 del d.lgs. n. 23/2015?

La soluzione del Tribunale

Il Tribunale di Milano ha ritenuto fondate le domande della ricorrente dirette alla declaratoria di illegittimità del licenziamento nell'ottica della reintegrazione attenuata.

Primo profilo affrontato è stato quello dell'applicabilità al caso specifico del d.lgs. n. 23/2015, sebbene la ricorrente, al momento del licenziamento, a seguito della trasformazione volontaria del rapporto a termine successivamente al 7 marzo 2015, fosse titolare di un contratto a tempo indeterminato con decorrenza iniziale a partire dal 2013.

L'art. 1 co.2 del suddetto decreto, infatti, estende la nuova disciplina anche ai casi di conversione, successiva al 7 marzo 2015, di un contratto a tempo determinato, o di apprendistato, in uno a tempo indeterminato.

Nel caso in esame, tenuto conto della data di stipulazione del contratto a termine successivamente convertito, alla ricorrente avrebbe dovuto essere applicato il regime di tutela previsto dall'art. 18 stat. lav. e non dell'art. 10 d.lgs. n. 23/2015, cui trattamento risulta essere meno favorevole rispetto a quello fissato dall'art. 5, co. 3 l. n. 223/1991, come novellato dalla l. n. 92/2012. Sul punto il Tribunale ha rilevato la coesistenza, in ragione delle diverse modifiche normative susseguitesi, di due diversi regimi di tutela in materia di licenziamento illegittimo, i quali potrebbero in astratto trovare contestuale applicazione in una medesima procedura di licenziamento collettivo, in base alla data di assunzione o conversione del contratto inizialmente stipulato, recte se precedente o successiva al 7 marzo 2015.

Circa i profili di contrasto denunciati in relazione alle fonti del diritto comunitario, a seguito di rinvio pregiudiziale del medesimo giudice milanese, la Corte di giustizia dell'UE, con la sentenza del 17 marzo 2021, ha dichiarato che una normativa nazionale che prevede l'applicazione concorrente, nell'ambito della medesima procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela per la violazione dei criteri destinati a determinare i lavoratori da sottoporre alla procedura, non rientra nell'ambito di applicazione della direttiva 98/59/CE. La Corte di Lussemburgo ha precisato anche che la clausola 4 dell'accordo quadro CES, UNICE e CEEP allegato alla direttiva 1999/70/CE, deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela, in caso di licenziamento collettivo illegittimo, ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, sia stato convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data. La Corte di Giustizia ha rilevato che la tutela accordata a un lavoratore in caso di licenziamento illegittimo rientra nella nozione di «condizioni di impiego» ai sensi della prefata clausola 4 (CGUE, sentenza del 25 luglio 2018, Vernaza Ayovi, C-96/17, EU:C:2018:603), ma ha evidenziato che spetta al giudice del rinvio valutare la comparabilità fra la situazione di un lavoratore a tempo determinato, come la ricorrente nel procedimento principale, e quella di un lavoratore a tempo indeterminato, verificando l'eventuale esistenza di una ragione oggettiva – fondata su elementi precisi e concreti- che giustifichi il diverso trattamento, tenuto conto anche dell'obiettivo perseguito e della necessità delle misure adottate.

Nel caso specifico il trattamento meno favorevole della ricorrente era stato giustificato dall'obiettivo di politica sociale perseguito dal d.lgs. n. 23/2015, consistente nell'incentivare i datori ad assumere lavoratori a tempo indeterminato. Il fine di rafforzare la stabilità dell'occupazione è stato considerato dal giudice europeo un obiettivo legittimo del diritto sociale, perseguito anche dall'accordo quadro suddetto. La Corte ha sottolineato che la regressione del livello di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato non era rilevante ex se ai fini del divieto di discriminazione, considerato che le eventuali differenze di trattamento tra determinate categorie di personale a tempo indeterminato non rientrano nell'ambito dei principi sanciti dall'accordo quadro (CGUE sentenza del 21 novembre 2018, Viejobueno Ibáñez e de la Vara González, C-245/17, EU:C:2018:934).

Il Tribunale milanese, tenuto conto dell'obbiettivo di crescita occupazionale del d.lgs. n. 23/2015 e dei risultati conseguiti da tale normativa sul piano concreto, ha ritenuto che il giudizio di ragionevolezza, circa la diversità di trattamento derivante, non poteva che essere negativo sotto il profilo della congruenza e adeguatezza causale delle misure adottate.

Ad avviso del giudice ghibellino il tipo contrattuale in origine utilizzato dalle parti doveva ritenersi potenziale fonte di discriminazione nel livello di tutela riconosciuto, con conseguente disapplicazione del secondo comma dell'art. 1 del d.lgs. n. 23/2015 che regolamenta in modo differente - sotto il profilo della tutela in ipotesi di violazione dei criteri di scelta nella procedura di riduzione del personale – la posizione di due lavoratori solo in ragione del fatto che uno di essi sia stato inizialmente assunto con un contratto a termine in seguito convertito.

Relativamente ai profili di incostituzionalità, invece, il Tribunale non ha ritenuto sussistenti i presupposti per una rimessione della questione alla Corte Costituzionale, essendo percorribile una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata. Nello specifico: i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato prima del 7 marzo 2015, cui rapporto di lavoro sia stato giudizialmente convertito dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina, non avrebbero potuto essere considerati “nuovi assunti”, considerato che la sentenza accertativa della nullità del contratto a termine ha natura dichiarativa e non costitutiva, con conseguente efficacia ex tunc degli effetti scaturenti. Il Tribunale ha evidenziato come una diversa interpretazione, secondo la quale la conversione in esame sarebbe soggetta al nuovo regime di tutela, comporterebbe un'irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori egualmente assunti a tempo determinato prima della sua introduzione, ma convertiti mediante una sentenza emessa, per mero accidente indipendente dalle rispettive volontà, prima del 7 marzo 2015.

Precisa il giudice milanese che tra i contratti a termine stipulati prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, ma convertiti solo successivamente, sono invece suscettibili di equiparazione: quelli oggetto di c.d. conversione volontaria, per effetto di una manifestazione di volontà delle parti con effetto novativo nonché di conversione giudiziale ove il vizio che colpisce i contratti si sia verificato dopo la data suddetta (es. superamento del limite massimo di durata del rapporto a termine, comprensivo di proroghe e rinnovi).

Secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, pertanto, non potrebbero essere considerati “nuovi assunti” i lavoratori che, come la ricorrente, avevano visto trasformato il proprio contratto a tempo determinato, stipulato prima del 7 marzo 2015, in un contratto a tempo indeterminato con un contenuto non novativo, essendo tale fattispecie analoga a quella di conversione giudiziale successiva all'entrata in vigore della nuova normativa.

Osservazioni

Questione centrale della sentenza in commento è stata la definizione del perimetro applicativo della normativa del c.d. contratto a tutele crescenti e, nello specifico, la possibilità di applicare “indistintamente” la nuova disciplina (peggiorativa rispetto a quella precedentemente vigente) anche a rapporti sorti prima del 7 marzo 2015, sub specie contratti di lavoro a termini convertiti in contratti a tempo indeterminato.

Alcuni dubbi erano stati sollevati in precedenza in ordine alla corretta interpretazione del termine “conversione”, ossia se esso dovesse intendersi o meno atecnincamente. Sul punto sono rinvenibili tre orientamenti: secondo una prima tesi il Legislatore avrebbe utilizzato la locuzione “conversione” in modo atecnico al fine di identificare le ipotesi in cui le parti del contratto a termine decidono di comune accordo la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato; secondo una diversa lettura, invece, il termine richiamerebbe il regime sanzionatorio previsto dalla Legge in presenza di determinati vizi, formali e sostanziali, nella stipulazione di contratti di lavoro a termine e di apprendistato, sicché resterebbero assoggettati alla disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo precedente al d.lgs. n. 23/2015 tutte le ipotesi di semplice trasformazione, di fatto o con manifestazione esplicita di volontà, del rapporto senza soluzione di continuità; infine, secondo una tesi “mediana”, il lemma usato includerebbe entrambe le possibili soluzioni, ergo sia la conversione negoziale che quella giudiziale.

Relativamente alla seconda tesi è palmare il vizio logico-giuridico di fondo: la conversione del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato, disposta in sede giudiziale, determina la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato con efficacia ex tunc: ove il rapporto di lavoro sia iniziato prima del 7 marzo 2015, pertanto, non potrebbe che trovare applicazione la normativa previgente.

Al primo orientamento, si evidenzia, ha aderito la Corte di cassazione con la sentenza n. 823/2020.

Ulteriori perplessità si rilevano circa la potenzialità discriminatoria della diversità di trattamento dei lavoratori, rilevata dal Tribunale milanese: nonostante i possibili risvolti “negativi” derivanti dalla conversione ove in seguito si proceda ad un licenziamento illegittimo, la medesima situazione potrebbe verificarsi anche a prescindere dalla trasformazione del contratto inizialmente a tempo determinato, laddove le parti, attendendo la scadenza fisiologica degli effetti del negozio, procedano alla stipulazione ex novo di un contratto di lavoro a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015. La trasformazione del rapporto a termine in un rapporto a tempo determinato, senza soluzione di continuità, offre tuttavia maggiori garanzie al lavoratore rispetto ad una nuova assunzione, consentendo ad esempio di conservare l'anzianità acquisita ovvero di evitare possibili mutamenti in pejus delle condizioni lavorative precedenti che il lavoratore, scaduto il precedente contratto, si troverebbe a dover necessariamente accettare o rifiutare, con le conseguenze connesse alle due opzioni.

La disposizione della direttiva europea che si assume violata non potrebbe essere applicata ai lavoratori destinatari della nuova tutela a seguito della stabilizzazione, non rientrando tale fattispecie nel perimetro applicativo della direttiva stessa. La clausola 4 più volte citata dalla sentenza, inoltre, fa salvi i casi in cui la differenziazione nel trattamento dei lavoratori a termine sia giustificata dalla sussistenza ragioni obiettive come, nel caso di specie, l'obbiettivo di favorire l'occupazione a tempo indeterminato. La discriminazione paventata, così come evidenziato dalla Corte di Lussemburgo, mal si concilia, dunque, con l'interpretazione della normativa sovranazionale in materia di tutela dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato: la conversione successiva all'entrata in vigore della nuova normativa, infatti, comporta un diversa tutela – a fronte di un licenziamento illegittimo – in seno alla medesima categoria di lavoratori, recte operanti in forza di un contratto a tempo indeterminato il che, piuttosto, potrebbe far sorgere qualche perplessità circa la compatibilità con l'art 3 Cost., rectius con il principio di eguaglianza. Tale dubbio, tra l'altro, è stato fugato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 194/2018) che ha escluso che il regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23/2015 possa rappresentare una violazione della predetta norma costituzionale, ritenendo legittima la delimitazione della sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo, non contrastando ex se con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato (anche meno favorevole) applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi, potendo il fluire del tempo costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche.

Ultimo punto da evidenziare è quello della distinzione tra trasformazione volontaria del contratto a termine novativa o non novativa. Solo alla prima ipotesi, infatti, troverebbe applicazione il nuovo regime di tutela. La novazione oggettiva, si rammenta, è caratterizzata da due elementi concorrenti e indefettibili: l'animus novandi e l'aliquid novi, inteso come mutamento sostanziale dell'oggetto della prestazione o del titolo del rapporto, con esclusione delle ipotesi meramente modificative (art. 1231 c.c.) tra le quali è inclusa l'apposizione o l'eliminazione di un termine (inteso sia come termine per l'adempimento che di efficacia del rapporto). Laddove la nuova obbligazione non sia incompatibile con quella originaria, piuttosto che di fenomeno novativo (estintivo-costitutivo) dovrebbe configurarsi una vicenda (meramente) modificativa del rapporto. D'altronde, il giudice di legittimità ha evidenziato che in presenza di un contratto di lavoro a termine illegittimo, la successiva stipulazione di un nuovo contratto a tempo determinato legittimo estingue il rapporto di lavoro a tempo indeterminato conseguente all'illegittima precedenza apposizione del termine al contratto, solo ove sussistano elementi che permettano di ritenere che le parti abbiano inteso costituire un nuovo rapporto. Nulla impedirebbe, dunque, di qualificare come novativa anche l'ipotesi inversa di conversione volontaria. Il problema, tuttavia, alla luce della sentenza qui in commento, si riscontrerebbe nella riconduzione alla trasformazione di effetti novativi. Nel caso di specie le parti avevano sostanzialmente eliminato solo il termine di efficacia del contratto, senza incidere sulla prestazione né recidendo ogni collegamento con il precedente rapporto (“Rimarranno invariate tutte le clausole previste nell'originario contratto di assunzione…”). Essenziale, dunque, al fine di poter applicare o meno la nuova disciplina di tutele è la possibilità di riscontrare gli elementi costitutivi della novazione-fattispecie (diversa dalla c.d. novazione effetto o risultato), il che non può che essere lasciato all'accertamento del giudice del merito, caso per caso, indagando la volontà delle parti e, segnatamente, la sussistenza di elementi distintivi del rapporto di lavoro “trasformato” rispetto a quello precedente. Alcuni hanno posto l'accento sul fatto che le parti procedono alla stipula di un nuovo contratto di lavoro nel periodo di vigenza di un altro, concluso in precedenza, la cui pendenza costituirebbe il presupposto per la stipula del nuovo negozio, avente il compito di modificare l'assetto di interessi precedentemente divisato. Tale ricostruzione potrebbe essere avallata dal fatto che le parti ben potrebbero concludere il nuovo contratto una volta scaduto il temine del primo ed unico interesse giustificante l'operazione sarebbe quella di disporre la novazione delle obbligazioni precedenti. Delle due l'una: o la mera eliminazione del termine del rapporto in pendenza del contratto a termine deve essere intesa ex se come espressione della volontà novativa delle parti (al di là di quanto disposto dall'art. 1231 c.c. e in applicazione dell'art. 1322 c.c.) oppure difficilmente sarà configurabile una novazione ove manchino ulteriori elementi integranti l'aliquid novi rispetto all'obbligazione precedente. Le conseguenze sono palmari: nel primo caso troverebbe sempre applicazione la nuova tutela prevista per il contratto a tutele crescenti per il solo fatto dell'eliminazione del termine di efficacia del contratto, a prescindere dalla (concreta) soluzione di continuità con il rapporto precedentemente instaurato.

Per quanto attiene alla tesi (terzo motivo) della conversione e non della "novazione" del rapporto di lavoro, sarà sufficiente il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha costantemente interpretato la norma inerente agli effetti della trasformazione nel senso che gli istituti collegati all'anzianità retroagiscono alla stipula del contratto di formazione e lavoro, ma per il resto il lavoratore deve considerarsi come neo-assunto.

Per approfondire

- R. Maraga, L'applicazione del contratto a tutele crescenti in caso di conversione del contratto a termine tra dubbi di legittimità costituzionale e diritto eurounitario, Dir.Rel. Ind.,2021, n. 3, pag. 930);

- V. Ferrante, Licenziamento collettivo e lavoro a termine “stabilizzato”: il Jobs Act viene rinviato alla Corte di giustizia europea, in Dir. Rel. Ind., 2019, n. 4, pp. 1209 ss.;

- F. Capponi, Il regime sanzionatorio per il licenziamento illegittimo in caso di trasformazione volontaria del rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato successiva al 7 marzo 2015, in Dir. Rel. Ind., 2019, n.1 pp. 295 ss.;

- A. Maresca, Assunzione e conversione in regime di tutele crescenti, in Guida al lavoro, 2015, n. 12, p. 13;

- F. Santoni, Il campo di applicazione della disciplina dei licenziamenti nel d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in G. Ferraro (a cura di), I licenziamenti nel contratto «a tutele crescenti», in Quaderno di ADL, 2015, n. 14, pp. 119 ss.;

- M. Tiraboschi, Conversione o semplice trasformazione dei contratti per l'applicazione delle cosiddette tutele crescenti?, in Dir. Rel. Ind., 2015, n. 2, pp. 520 ss.;

- S. Sciarra, Il lavoro a tempo determinato nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Un tassello nella “modernizzazione” del diritto del lavoro, Working Paper CSDLE “Massimo D'Antona”.INT, 2007, n. 52.

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