Collaborazioni etero-organizzate ex art. 2 d.lgs. n. 81/2015 e discriminazione per motivi sindacali

Luigi Santini
28 Giugno 2021

È discriminatorio il recesso ante tempus da parte del committente, motivato sulla base della mancata accettazione, da parte del collaboratore ex art.2 D.Lgs. n. 81/2015, dell'applicazione di un contratto collettivo stipulato da una organizzazione sindacale diversa da quella di appartenenza del collaboratore e da quest'ultimo ritenuto peggiorativo.
Massima

È discriminatorio il recesso ante tempus da parte del committente, motivato sulla base della mancata accettazione, da parte del collaboratore ex art. 2 D.Lgs. n. 81/2015, dell'applicazione di un contratto collettivo stipulato da una organizzazione sindacale diversa da quella di appartenenza del collaboratore e da quest'ultimo ritenuto peggiorativo.

Il caso

La controversia ha ad oggetto una domanda di accertamento di una condotta discriminatoria attuata in danno di un ciclofattorino, in ragione della sua affiliazione e militanza sindacale, da una società operante nel settore delle consegne del cibo a domicilio (c.d. food delivery) che si avvale per lo svolgimento delle proprie attività di un modello organizzativo basato su una rete di riders, e consistita, da un lato, nella mancata assegnazione di sessioni di lavoro già prenotate tramite la piattaforma digitale, e, dall'altro, nella risoluzione anticipata del rapporto, per non avere il collaboratore accettato di sottoscrivere un nuovo contratto con cui veniva recepito un accordo collettivo sottoscritto medio tempore da un'associazione sindacale diversa da quella di appartenenza e ritenuto peggiorativo.

La questione

Il Tribunale di Palermo, dopo aver ritenuto non discriminatoria la prima condotta denunciata (mancata assegnazione di sessioni di lavoro già prenotate nella piattaforma digitale), ha invece ritenuto che “la mancata prosecuzione del rapporto con il ricorrente concreti una palese discriminazione per motivi sindacali, dovendosi ritenere del tutto legittimo il rifiuto del lavoratore – che ha esplicitato il proprio dissenso alla nuova regolamentazione – di sottoscrivere un contratto regolamentato da una disciplina concordata con una associazione sindacale diversa da quella di appartenenza”.

A tale conclusione, il Tribunale di Palermo è addivenuto sulla base dei seguenti passaggi motivazionali:

- non era in contestazione che la società committente aveva risolto ante tempus il contratto di lavoro in esecuzione al fine di fare poi sottoscrivere al collaboratore un nuovo contratto, recante una regolamentazione armonizzata alle clausole contenute nel contratto collettivo nazionale sottoscritto medio tempore da Assodelivery – per quanto concerne parte datoriale – e da UGL – per quanto concerne i lavoratori;

- era altresì pacifico che il lavoratore non aveva inteso sottoscrivere il nuovo contratto, adducendo che la sua appartenenza sindacale non gli consentiva di accettare un accordo collettivo nel quale non si identificava;

- in forza di quanto previsto dall'art. 2, primo comma, del D.Lgs. n. 81/2015, applicandosi la disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni etero-organizzate, il rapporto non poteva ritenersi soggetto ad un regime di libera recedibilità, a nulla rilevando la difforme previsione contenuta nel contratto individuale di lavoro, essendo comunque necessario, per la risoluzione del rapporto ante tempus, che questa sia quanto meno conforme ai principi di correttezza e buona fede;

- l'ordinamento riconosce e tutela la volontà individuale del lavoratore di dissentire dall'applicazione di una disciplina contrattuale collettiva ritenuta peggiorativa rispetto ad altra disciplina potenzialmente applicabile in azienda (cfr. in termini anche Cass., sez. lav., 14 luglio 2014, n. 16089);

- conseguentemente, la risoluzione anticipata del rapporto ha concretato una discriminazione per motivi sindacali, dovendosi ritenere del tutto legittimo il rifiuto del lavoratore – che ha esplicitato il proprio dissenso alla nuova regolamentazione – di sottoscrivere un contratto regolamentato da una disciplina concordata con una associazione sindacale diversa da quella di appartenenza e ritenuta peggiorativa.

Per tali ragioni, il Tribunale di Palermo ha concluso che nella fattispecie il recesso ante tempus della committente dovesse essere dichiarato nullo in ragione della sua natura discriminatoria, con le correlate statuizioni reintegratorie e risarcitorie.

Le soluzioni giuridiche

Come ben evidenziato nella sentenza in commento, per la nozione di discriminazione, sia diretta che indiretta, occorre fa riferimento all'art. 2 del D.Lgs. n. 216/2003, che definisce la prima come riferita alle ipotesi in cui "per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga" e la seconda con riferimento ai casi in cui "una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di
particolare svantaggio rispetto ad altre persone".

Il Tribunale di Palermo ha puntualmente sottolineato che, mentre la discriminazione diretta si ha quando è la condotta, il comportamento tenuto, che determina la disparità di trattamento, nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata costituisce l'effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi o di un comportamento apparentemente neutri, ma che determinano di fatto una posizione di svantaggio in capo a soggetti con particolari caratteristiche, che costituiscono il fattore di rischio della discriminazione (v. Cass. 25 luglio 2019, n. 20204). A fronte di una nozione così ampia di discriminazione indiretta – cui peraltro è del tutto estraneo l'atteggiamento psichico in cui versi l'agente (essendo sufficiente il fatto oggettivo della discriminazione, a prescindere da qualsiasi intento soggettivo discriminatorio dell'autore dei comportamenti lesivi - cfr. Cass. 5 aprile 2016, n. 6575) – non vi può essere dubbio circa la riconducibilità alla suddetta nozione di tutte quelle situazioni che non siano di per sé foriere di effetto pregiudizievole e che, sebbene neutre, possano causare indirettamente una situazione di ingiustificato svantaggio.

Come è noto, la Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000 ha stabilito un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, prevedendo, all'art. 1, che essa “mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio di parità di trattamento”. È quindi idonea ad integrare discriminazione anche una condotta che, solo sul piano astratto, impedisce o rende maggiormente difficoltoso l'accesso all'occupazione (causa C-81/12 Associatia Accept, nonché causa C-54/07). La Corte EDU ha altresì aggiunto che «una differenza di trattamento può consistere nell'effetto sproporzionatamente pregiudizievole di una politica o di una misura generale che, se pur formulata in termini neutri, produce una discriminazione nei confronti di un determinato gruppo» (CEDU, sentenza 13 novembre 2007, D.H. e a. c. Repubblica ceca [GC] (n. 57325/00), punto 184; Cedu, sentenza 9 giugno 2009, Opuz c. Turchia (n. 33401/02), punto 183. CEDU, sentenza 20 giugno 2006, Zarb Adami c. Malta (n. 17209/02), punto 80).

In punto di distribuzione dell'onere della prova, va tenuto conto che, ai sensi dell'art. 28, co. 4, del D.Lgs. n. 150 del 2011, nelle controversie in materia di discriminazione, fra cui quelle di cui all'articolo 4 del D.Lgs

.

9 luglio 2003, n. 216, “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione". Ne consegue che, nell'ambito del giudizio antidiscriminatorio, l'attore ha soltanto l'onere di fornire elementi di fatto, anche di carattere statistico, idonei a far presumere l'esistenza di una discriminazione: qualora il dato statistico fornito dal ricorrente indichi una condizione di svantaggio per un gruppo di lavoratori, è onere del datore di lavoro dimostrare che le scelte sono state invece effettuate secondo criteri oggettivi e non discriminatori. Quanto all'agevolazione probatoria in favore del soggetto che lamenti la discriminazione, è stato evidenziato (cfr. Cass. 27 settembre 2018, n. 23338, Cass. 12 ottobre 2018, n. 25543) che le direttive in materia (n. 2000/78, così come le nn. 2006/54 e 2000/43), come interpretate della Corte di Giustizia, ed i decreti legislativi di recepimento, impongono l'introduzione di un meccanismo di agevolazione probatoria o alleggerimento del carico probatorio gravante sull'attore "prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l'onere per il datore di lavoro di dimostrare l'insussistenza della discriminazione" (cfr. Cass. n. 14206 del 2013, in materia di discriminazione di genere).

Osservazioni

Fissate tali coordinate ermeneutiche, la discriminazione che viene qui in rilievo si inserisce nell'ambito dell'annosa questione della qualificazione giuridica del lavoro dei c.d. riders e, in linea generale, del lavoro etero-organizzato tramite piattaforme digitali.

Come è noto, con sentenza del 7 maggio 2018 il Tribunale di Torino aveva respinto la domanda di alcuni lavoratori addetti alle consegne di pasti a domicilio organizzate tramite piattaforma digitale, tesa ad accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro, ed aveva affermato la legittimità del contratto di collaborazione coordinata e continuativa sottoscritto con una nota società di food delivery, escludendo l'applicabilità alla fattispecie anche dell'art. 2, comma 1, D.lgs. n. 81/2015.

Con sentenza dell'11 gennaio 2019 la Corte d'Appello di Torino, nel confermare l'inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente tra le parti, aveva tuttavia accolto la domanda subordinata dei lavoratori, ritenendo applicabile la disciplina prevista dall'art.2, comma 1, D.lgs. n. 81/2015 e, quindi, la disciplina del lavoro subordinato.

La Corte di cassazione, con la nota sentenza sez. lav., 24 gennaio 2020, n. 1663, ha confermato, sia pur con un differente percorso argomentativo, la sentenza della Corte di Appello di Torino, ponendo il principio secondo cui “Il rapporto di lavoro dei cosiddetti "riders'' addetti al food delivery è inquadrabile nell'ambito delle collaborazioni etero-organizzate di cui all'art. 2 D.lgs. n. 81/2015 che non costituiscono un "tertium genus" intermedio tra la subordinazione e il lavoro autonomo, ma una fattispecie alla quale, al verificarsi delle caratteristiche individuate dallo stesso art. 2 citato, la legge, in un'ottica rimediale, ricollega imperativamente l'applicazione integrale della disciplina della subordinazione, al fine di tutelare prestatori ritenuti in condizione di debolezza economica e, quindi, meritevoli della stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato”.

Si noti che la possibilità di qualificare il rapporto dei riders come subordinato, riconosciuta dalla sentenza n. 1663/2020, sopra citata, è stata poi ribadita nella Circolare n. 17 in data 19 novembre 2020 del Ministero del Lavoro.

In un simile contesto, è intervenuta la sottoscrizione del primo C.C.N.L. per gli operatori del food delivery, avvenuta in data 15 settembre 2020 da parte di Assodelivery – per quanto concerne parte datoriale – ed UGL – per quanto concerne i lavoratori. Tale contratto, ignorando completamente l'evoluzione giurisprudenziale sopra descritta, ha provveduto a qualificare, sia nell'intestazione, che nel corpo del testo (art. 3), il carattere genuinamente autonomo dei rapporti contrattuali che legano i riders alle piattaforme digitali. Inoltre, pur prevedendo un compenso minimo orario (art. 10, primo cpv), ha stabilito che il compenso debba essere parametrato alle sole consegne effettuate (artt. 10 e 11), in linea con quanto auspicato dalle piattaforme e da molte di esse unilateralmente già applicato. Tale contratto, infine, è stato sottoscritto nel mentre era in corso la negoziazione tra AssoDelivery, da un lato, e le confederazioni CGIL CISL e UIL, dall'altro, senza alcun confronto con queste ultime, che nemmeno ne sono state previamente informate e con l'evidente obiettivo di neutralizzare la più favorevole regolamentazione contenuta nella legge n. 128 del 2019, che ha inserito nel D.Lgs. n. 81/2015 l'art. 47-bis, il quale ha stabilito che “I contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale possono definire criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell'organizzazione del committente” (primo comma) e che “In difetto della stipula dei contratti di cui al comma 1, i lavoratori di cui all'articolo 47-bis non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate e ai medesimi lavoratori deve essere garantito un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale” (secondo comma).

Il contratto UGL-Assodelivery, come è prevedibile, ha suscitato dure reazioni nel mondo sindacale, in particolare da parte delle confederazioni CGIL CISL e UIL, le quali non hanno esitato a parlare di “contratto pirata”, sia perché il C.C.N.L. si addentra in una attività qualificatoria dei rapporti inusuale e del tutto disancorata dai più recenti approdi giurisprudenziali, sia perché l'accordo è stato sottoscritto da un'organizzazione sindacale priva del requisito di rappresentatività necessario per poter derogare ai livelli minimi di tutela (anche retributiva) previsti dall'art. 47-bis, secondo comma, del D.Lgs. n. 81/2015.

E' quindi evidente che, nel caso disaminato nella sentenza in commento, il rifiuto del lavoratore di sottoscrivere il nuovo contratto individuale di lavoro (che recepiva i dettami del C.C.N.L. UGL-Assodelivery) non era affatto pretestuoso, essendo espressione di una legittima manifestazione di dissenso verso l'applicazione di una disciplina contrattuale collettiva ritenuta peggiorativa e, comunque, sottoscritta da una organizzazione sindacale diversa da quella di appartenenza. Con l'ulteriore corollario che l'aver risolto ante tempus il contratto già in essere in ragione della mancata accettazione delle nuove (peggiorative) condizioni contrattuali imposte, ha integrato una condotta datoriale non solo violativa dei principi generali di buona fede e correttezza, ma anche motivata da un evidente intento discriminatorio per motivi sindacali.

Come puntualmente riportato nella decisione in commento, nessun dubbio sussiste sull'applicabilità della normativa antidiscriminatoria anche al rapporto di lavoro dei riders addetti al food delivery.

Nella sentenza, in realtà, si fa riferimento esclusivamente al principio di applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato, che Cass. n. 1663/2020 riconnette alla norma di cui all'art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015, quando era sufficiente evidenziare che, ai sensi dell'art. 47-quinquies D.Lgs. n. 81/2015, introdotto dal D.L. 3 settembre 2019, n.101 convertito con modificazioni dalla L. 2 novembre 2019, n. 128, “Ai lavoratori di cui all'articolo 47-bis” (ossia ai “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore di cui all'articolo 47, comma 2, lettera a, del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, attraverso piattaforme anche digitali”) “si applicano la disciplina antidiscriminatoria e quella a tutela della libertà e dignità del lavoratore previste per i lavoratori subordinati, ivi compreso l'accesso alla piattaforma”.

Ad ogni buon conto, ancor prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015, il D.lgs. n. 216/03, recante le disposizioni relative all'attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età e dall'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, aveva espressamente previsto che la disciplina antidiscriminatoria si applicasse “a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall'articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree: a) accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonome che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione”.

Da ultimo, la sentenza in disamina è pienamente condivisibile anche nella parte in cui ha incluso nella tutela di legge le discriminazioni attuate per motivi sindacali, tenuto conto del fatto che, come chiarito dalla Suprema Corte, “l'espressione «convinzioni personali» di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 216/2003 comprende anche le motivazioni e l'affiliazione sindacale che — al pari di quella religiosa — ben può ritenersi un'ideologia connotata da specifici motivi di appartenenza a un ente qualificato a rappresentare opinioni, idee e convinzioni, rilevanti ai fini della tutela poiché oggetto di possibili atti discriminatori vietati” (v. Cass., sez. lav., 2 gennaio 2020, n.1).