Obbligo vaccinale e conseguenze sul rapporto di lavoro in caso di rifiuto del lavoratore pre e post d.l. 44/2021
14 Giugno 2021
Masima
In ambito sanitario o sociosanitario e per lavoratori adibiti ad attività con tale contenuto, un ingiustificato rifiuto a sottoporsi alla vaccinazione contro il virus Sars Cov-2 rende la prestazione (ove non sia possibile la ricollocazione altrimenti del lavoratore) inutile ed irricevibile da parte del datore di lavoro, senza necessità di accertamenti ulteriori.
Ciò, anche prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 44/2021 in quanto tale normativa costituisce un elemento esegetico utile ai fini della valutazione anche di fattispecie precedenti la sua entrata in vigore.
Legittimamente, pertanto, in assenza di mansioni diverse da quelle contrattuali, il datore di lavoro può disporre la sospensione del rapporto di lavoro sino ad avvenuta vaccinazione.
La libertà di autodeterminazione individuale del lavoratore nelle scelte inerenti le cure sanitarie, infatti, non può ricadere sul datore di lavoro e sui terzi, in quanto nell'attuale stato pandemico prevalgono l'esigenza di tutelare la salute collettiva e le esigenze organizzative datoriali” Il caso
Due dipendenti di una società cooperativa addette a mansioni fisioterapiche presso una Casa di Residenza per Anziani sono state sospese dal rapporto di lavoro e dalla relativa retribuzione, in seguito a rifiuto a sottoporsi al vaccino anti Covid in epoca precedente l'entrata in vigore dell'art. 4 d.l. n. 44/2021.
Le due lavoratrici hanno impugnato, per il tramite di procedura d'urgenza, il provvedimento datoriale lamentandone l'illegittimità sotto vari profili e la Cooperativa datoriale si è costituita in giudizio sostenendo la legittimità del provvedimento adottato in ragione della irricevibilità della prestazione da parte di due dipendenti adibite ad attività sanitarie (e di contatto con soggetti fragili) che hanno rifiutato la vaccinazione, in quanto tale comportamento esponeva gli altri colleghi ed i terzi, tra cui l'utenza della Residenza per Anziani, a gravi rischi per la salute anche in ragione dell'età dei degenti che li rende maggiormente esposti alla contrazione del virus ed alle sue negative.
Un tale comportamento ha dedotto, inoltre, la Società Cooperativa rendeva la prestazione delle due lavoratrici incompatibile con le esigenze organizzative aziendali, non potendo essere adibite, in ragione del loro rifiuto, alle mansioni proprie dell'assunzione e non essendo disponibili posizioni lavorative cui potessero essere utilmente destinate.
Il giudice ha respinto il ricorso riconoscendo la legittimità della sospensione del rapporto di lavoro. La questione
La questione in esame è se sia legittima la sospensione dal rapporto di lavoro disposta nei confronti di personale adibito ad attività sanitarie e sociosanitarie (nello specifico, fisioterapiche presso una Residenza per Anziani) e di contatto con soggetti cd. fragili, che si siano rifiutate di sottoporsi al vaccino anti Sars Cov-2 anche se in epoca precedente l'entrata in vigore dell'art. 4 d.l. n. 44/2021. Le soluzioni giuridiche
Il Tribunale di Modena con il provvedimento in commento ha affrontato la questione del rifiuto alla vaccinazione contro il virus Sars Cov-2 del lavoratore adibito a mansioni sanitarie o sociosanitarie.
Per giungere alla conclusione che le lavoratrici ricorrenti erano obbligate a sottoporsi alla vaccinazione e lo erano anche in epoca precedente l'approvazione dell'art. 4 d.l. n. 44/2021, il Giudice del lavoro di Modena ha invocato, nell'incipit della motivazione, il principio solidaristico che impone a ciascuna parte del contratto di lavoro di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, per cui il lavoratore, oltre all'obbligo principale di offrire e rendere la prestazione lavorativa, è gravato di ulteriori obblighi, sempre con lo scopo di rendere detta prestazione utile per il datore di lavoro ed effettivo il sinallagma contrattuale.
Tra questi obblighi, ha ricordato il Tribunale, vi è quello di collaborazione sancito dall'art. 20 d.lgs. n. 81/2008, in base al quale il lavoratore è tenuto ad osservare, nello svolgimento della prestazione lavorativa, doveri di cura e sicurezza per la tutela dell'integrità psico-fisica propria e di tutti i soggetti terzi con cui entra in contatto. Ad avviso del Tribunale, si tratta di una norma di natura precettiva, posto che l'esclusione di un obbligo di collaborazione del lavoratore in materia di sicurezza sul lavoro, determinerebbe un indebolimento del connesso obbligo di sicurezza che grava sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c., posto che datore di lavoro e lavoratore sono entrambi tenuti a collaborare per la realizzazione di un ambiente di lavoro salubre e sicuro.
Su tali chiari presupposti, di cogente e reciproca collaborazione tra lavoratore e datore di lavoro in materia di sicurezza, con il provvedimento in commento il Tribunale ha ritenuto che, in caso di rifiuto alla collaborazione o non completa collaborazione da parte del lavoratore, il datore di lavoro possa reagire adottando provvedimenti di natura organizzativa fino alla sospensione del rapporto.
Partendo da tali assunti, il Tribunale, nell'affrontare il nodo dell'obbligo (o meno) alla vaccinazione contro il virus Sars Cov-2 nei settori sanitario e sociosanitario, ha ritenuto che in capo al lavoratore, adibito a mansioni sanitarie e di contatto con persone cd. fragili, insorga l'obbligo alla vaccinazione anche in epoca antecedente l'entrata in vigore dell'art. 4 d.l. n. 44/2021, sul presupposto che tale ultima previsione, pur essendo successiva ai fatti oggetto di giudizio, “costituisca un elemento esegetico utile ai fini della definizione della controversia (v. in proposito anche Cass., sez. un., 28 gennaio 2021, n. 2061, punto 4.3 della motivazione)”.
Pertanto, il lavoratore che rifiuti di sottoporsi al vaccino contro il virus Sars Cov 2, senza che ricorra una delle deroghe sancite dal comma 2 dell'art. 4 (per cui tale rifiuto è da ritenersi legittimo), può essere adibito dal datore di lavoro a mansioni diverse (non di contatto) ed in luoghi in cui non si verifichi il rischio di contagio; oppure, se non sussiste alcuna possibilità di ricollocarlo utilmente, può essere sospeso temporaneamente dal rapporto di lavoro e dalla retribuzione, in quanto il suo comportamento è da ritenersi tale da incidere significativamente sul sinallagma contrattuale. La prestazione del lavoratore che rifiuti la vaccinazione (ove non ricollocabile altrove) diventa, infatti, inutile e irricevibile da parte del datore di lavoro, con buon diritto di quest'ultimo di disporre una sospensione temporanea del rapporto.
Il Tribunale di Modena ha, dunque, ritenuto che le due lavoratrici ricorrenti, adibite allo svolgimento di mansioni fisioterapiche in una Residenza per Anziani (che ospita persone anziane e non autosufficienti), fossero gravate dall'obbligo di sottoporsi al trattamento sanitario della vaccinazione contro il virus Sars Cov-2. Stante il loro immotivato rifiuto (non sussistendo una delle deroghe poi dettate dal comma 2 dell'art. 4 d.l. n. 44/2021) e non potendo le medesime essere adibite ad attività differenti da quelle fisioterapiche, legittimamente la RSA ne ha disposto la sospensione dal rapporto e dalla retribuzione sino ad avvenuta vaccinazione.
A nulla rileva, precisa ancora il Tribunale, la mancanza di un obbligo vaccinale all'epoca dei fatti di causa, posto che seppure il comportamento delle lavoratrici non integra un inadempimento agli obblighi contrattuali, espone l'utenza e gli altri lavoratori al rischio di contagio (ed il datore di lavoro alle conseguenti responsabilità) così determinando, su un piano oggettivo, l'irricevibilità temporanea della prestazione lavorativa, considerato che la libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti le cure sanitarie, deve nel caso del rapporto di lavoro ed in un contesto pandemico quale quello attuale, non può prevalere sulle esigenze di tutela della salute collettiva e su quelle organizzative del datore di lavoro che deve poter ricevere una prestazione lavorativa utile.
Non rileva nemmeno la lamentata, presunta, violazione del principio del consenso informato da parte del datore di lavoro, in quanto la somministrazione del vaccino non avviene per opera del datore di lavoro, ma è di esclusiva competenza del S.S.N. e del Servizio Sanitario Regionale, unici soggetti tenuti a fornire le informazioni necessarie ad acquisire un consenso “informato”; così come alcun ruolo può essere attribuito al medico competente, in quanto nulla sul punto è previsto dall'art. 4 d.l. n. 44/2021, ritenuto in generale applicabile anche ai fatti oggetto di causa, precedenti la sua entrata in vigore. Osservazioni
Con l'ordinanza in commento, la giurisprudenza torna a pronunciarsi sull'argomento dell'obbligo vaccinale nel rapporto di lavoro, di particolare attualità ed interesse.
Con un'ampia motivazione il Tribunale affronta il tema in oggetto, giungendo però a conclusioni non pienamente coerenti con gli assunti iniziali.
Invero, dalla una lettura della prima parte del provvedimento, il Tribunale sembra aderire a quell'orientamento formatosi all'indomani dell'approvazione con l'art. 1 l. n. 178/2020 del piano strategico nazionale dei vaccini per cui un generale e diffuso obbligo vaccinale negli ambienti di lavoro sarebbe desumibile dalle norme in vigore in materia di salute e sicurezza nell'ambiente di lavoro: il generale obbligo di sicurezza che grava sul datore di lavoro ex art. 2087 c.c., per cui il medesimo è tenuto a garantire la tutela della salute dei lavoratori adottando tutte le “misure che in concreto siano richieste dalla specificità del rischio, atteso che la sicurezza del lavoratore costituisce un bene di rilevanza costituzionale che impone - a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione - di anteporre al proprio legittimo profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua” (Cass., 30 agosto 2004, n. 17314); ed il cd. obbligo di collaborazione che in materia grava sul lavoratore e che è espressamente previsto dall'art. 20 d.lgs. n. 81/2008.
Il Tribunale, dunque, nella prima parte del provvedimento sembra ipotizzare che un rifiuto immotivato alla vaccinazione da parte di personale adibito ad attività sanitarie o sociosanitarie, possa integrare un inadempimento contrattuale del lavoratore per violazione dell'obbligo di collaborazione in materia di sicurezza che impone doveri di cura e sicurezza per la tutela dell'integrità psico-fisica propria e dei terzi. Da cui - anche se il Tribunale sul punto non pronuncia espressamente- potrebbe insorgere una responsabilità del lavoratore con facoltà del datore di lavoro di esercitare il potere disciplinare, si legge nel provvedimento, “anche in termini di inibizione nella prosecuzione del rapporto”.
Più avanti, tuttavia, giunge ad affermare che l'obbligo vaccinale, nei settori di interesse, insorge in virtù della previsione contenuta nell'art. 4 d.l. n. 44/2021 applicabile anche a fatti antecedenti la sua approvazione. Dall'applicazione di tale normativa il Giudice fa derivare conseguenze di natura “oggettiva” sul rapporto di lavoro, stante la irricevibilità della prestazione in quanto inutile, e non di natura “disciplinare”, così abbandonando quella che sembrava essere l'iniziale impostazione (appunto di una responsabilità disciplinare in capo al lavoratore che opponga il rifiuto al vaccino, per violazione dell'obbligo di collaborazione in materia di sicurezza sancito dall'art. 20 d.lgs. n. 81/2008).
Tale conclusione, che estende la disciplina contenuta nell'art. 4 d.l. n. 44/2021 a fatti antecedenti la sua entrata in vigore, non tiene conto, tuttavia, della riserva di legge assoluta sancita dall'art. 32, secondo comma, Cost. che: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Difficilmente, del resto, si può ritenere che la riserva di legge di cui alla norma costituzionale richiamata sia integrata dalle previsioni di legge generali in materia di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro invocati nell'ordinanza in commento, tra cui l'art. 2087 c.c. e gli artt. 20 o 279 del T.U. n. 81/2008. L'intervento legislativo invocato dalla norma costituzionale deve necessariamente essere riferito allo specifico trattamento sanitario di cui è sancito l'obbligo, come confermato dall'approvazione della disciplina dettata dall'art. 4 d.l. n. 44/2021 che introduce l'obbligo alla vaccinazione contro il virus Sars Cov-2 per determinate categorie di lavoratori (e non per la generalità di essi, dunque), ne stabilisce le deroghe e le conseguenze in capo ai lavoratori che non ottemperino.
Il provvedimento in commento non affronta, e pertanto non risolve, il nodo del limite costituzionale più sopra rappresentato di estensione della previsione normativa contenuta nell'art. 4 del d.l. n. 44/2021 a fatti antecedenti la sua entrata in vigore. Peraltro, diversamente da quanto si legge nell'ordinanza in commento, la soluzione adottata dal Tribunale trova precedenti difformi, sempre con riguardo al settore sanitario, in epoca precedente l'approvazione della normativa richiamata, in quei noti provvedimenti che hanno ritenuto legittima la scelta del datore di lavoro di collocare forzatamente in ferie il lavoratore renitente.
Ancora il provvedimento in commento non risulta del tutto chiaro nella parte in cui, con un passaggio veloce, afferma l'incollocabilità altrimenti delle due lavoratrici. Invero, considerato che anche a fronte della disciplina introdotta dall'art. 4 d.l. n. 44/2021 la sospensione dei lavoratori che rifiutino la vaccinazione deve ritenersi la soluzione estrema, il datore di lavoro deve certamente tentare (ed allegare di avere effettivamente tentato, in caso di impugnazione giudiziale del provvedimento di sospensione) la ricollocazione in altre e differenti attività: ma della verifica del tentativo di ricollocazione nel caso in commento, la sentenza non dà conto in modo chiaro ed approfondito.
Un'ultima annotazione merita il richiamo, seppur incidentale, al Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19.
Il Tribunale ritiene che l'esistenza dell'obbligo del personale adibito ad attività sanitarie di sottoporsi alla vaccinazione, fa sì che la libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti le cure sanitarie, debba cedere il passo alle esigenzedi tutela della salute collettiva ed a quelle organizzative del datore di lavoro di ricevere una prestazione lavorativa utile. Le scelte di autodeterminazione del singolo lavoratore non possono ricadere sul datore di lavoro anche in termini di eventuale responsabilità nei confronti del prestatore di lavoro stesso e di soggetti terzi, considerato che, chiarisce ilprovvedimento in commento, la “responsabilità datoriale che non può essere esclusa de plano per il rispetto del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19, considerato che lo stesso è stato adottato in un momento storico (aprile 2020) in cui non era ancora disponibile il vaccino”.
Ebbene questo ultimo riferimento al fatto che la responsabilità datoriale non possa essere esclusa tout court per il solo rispetto e la corretta applicazione dei Protocolli menzionati è assai forte anche per l'impatto che essa può avere in settori non coperti dall'obbligo vaccinale di cui all'art. 4 d.l. n. 44/2021; una tale conclusione, infatti, trascura di considerare che nei Protocolli, anche in seguito all'aggiornamento del 6 aprile 2021, non è previsto alcun obbligo alla vaccinazione per il personale non adibito ad attività sanitarie e sociosanitarie, né alcun onere in capo al datore di lavoro di richiederlo a garanzia della sicurezza dell'ambiente di lavoro e della collettività dei lavoratori e dei terzi, pena la responsabilità del medesimo datore di lavoro in caso di contagio. Sia i Protocolli menzionati (del 6 aprile 2021), sia il piano strategico nazionale di vaccinazione di cui all'art. 1 l. 178/2020, del resto, sanciscono la facoltatività di tale trattamento sanitario e l'art. 29-bis d.l. n. 23/2020 (conv. in l. 5 giugno 2020, n. 40), tuttora in vigore, prevede che il datore di lavoro adempia all'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nei Protocolli sopra richiamati, con esclusione in tali casi, dunque, di responsabilità verso i propri dipendenti e verso i terzi.
Per tali considerazioni, dunque, l'affermazione di un obbligo vaccinale in capo a lavoratori adibiti a settori sanitari anche in epoca precedente l'entrata in vigore dell'art. 4 d.l. n. 44/2021, così come in settori differenti, non può considerarsi del tutto pacifico. |