La protezione del whistleblower all'esame della giurisprudenza di merito e delle linee guida ANAC: effettività della tutela o diabolica probatio?

Domenico Tambasco
21 Febbraio 2022

Il whistleblowing (letteralmente, “soffiare il fischietto”), ovverosia il fenomeno del dipendente pubblico o privato che segnala o denuncia illeciti o irregolarità...
Premessa

* Contributo redatto con la collaborazione del dott. GAETANO RAPACCIUOLO.

Il whistleblowing (letteralmente, “soffiare il fischietto”), ovverosia il fenomeno del dipendente pubblico o privato che segnala o denuncia illeciti o irregolarità di cui sia venuto a conoscenza nello svolgimento dell'attività lavorativa, viene in rilievo in questa sede soprattutto per due recentissime pronunce di merito che, per la prima volta, trattano un aspetto inedito nella giurisprudenza italiana: quello delle misure di protezione a favore del segnalante contro gli atti ritorsivi o discriminatori.

Stiamo parlando più precisamente dell'ordinanza emessa dal Tribunale di Milano, sezione lavoro, 3 febbraio 2022, est. Moglia e della sentenza del Tribunale di Bergamo, sezione lavoro, 7 gennaio 2022, n. 2, est. Lapenta, che hanno affrontato il tema della tutela del whistleblower rispettivamente nell'ambito del rapporto di lavoro pubblico ed in quello privato riguardo al più grave dei provvedimenti ritorsivi, ovverosia il licenziamento disciplinare.

È un argomento delicato e al contempo nodale, poiché consente di evidenziare il grado di effettività raggiunto dalla tutela normativa all'interno dell'ordinamento giuridico italiano. Procederemo pertanto, nei limiti della presente analisi, ad una breve digressione inerente gli strumenti di protezione previsti a livello normativo.

Panorama normativo

Le tutele del whistleblower pubblico e di quello privato, sebbene omologhe, hanno una disciplina differenziata nell'ordinamento italiano, dettata rispettivamente dagli articoli 1 e 2 della legge 30 novembre 2017, n. 179, “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito diun rapporto di lavoro pubblico o privato”.

In particolare:

- per l'impiego pubblico, l'art. 54-bis, primo comma, d.lgs. 165/2001 (così come novellato dall'art. 1 l. 179/2017) prevede che il pubblico dipendente il quale, nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione, segnali secondo i canali normativamente previsti le condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non possa essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad un'altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione. In tal caso, ai sensi dell'art. 54-bis, comma 7, d.lgs. 165/2001, è a carico della pubblica amministrazione o dell'ente di appartenenza dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive adottate nei confronti del segnalante sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa, essendo nulli – in difetto di tale prova - tutti gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall'amministrazione o dall'ente pubblico.

- per l'impiego privato, l'art. 6 comma 2-quater, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (modificato dall'art. 2 l. 179/2017) dispone – con formulazione parzialmente diversa rispetto a quella relativa all'impiego pubblico (1) – che il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante è nullo, così come sono nulli anche il mutamento di mansioni ai sensi dell'art. 2103 c.c., nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante. E' onere del datore di lavoro, in caso di controversie legate all'irrogazione di sanzioni disciplinari, o a demansionamenti, licenziamenti, trasferimenti, o sottoposizione del segnalante ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, successivi alla presentazione della segnalazione, dimostrare che tali misure sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa.

Le due disposizioni configurano, secondo unanime dottrina, il meccanismo processuale dell'inversione dell'onere della prova, in base al quale spetta all'amministrazione o all'impresa datrice di lavoro del segnalante dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive sono state applicate per ragioni estranee alla segnalazione essendo sufficiente invece, per il whistleblower, provare la mera consequenzialità temporale tra la segnalazione e il provvedimento datoriale pregiudizievole (2). Chi scrive ritiene tuttavia che, dal punto di vista sistematico, la misura in oggetto debba essere configurata quale presunzione di nullità di tutti gli atti datoriali cronologicamente successivi alla segnalazione aventi effetti negativi sulle condizioni di lavoro del whistleblower, salvo la piena prova contraria del datore di lavoro che dovrà dimostrare puntualmente che tali misure sono fondate esclusivamente su ragioni estranee alla segnalazione stessa (3).

In concreto, dunque, basterà al whistleblower provare in sede giudiziale di aver presentato una segnalazione o una denuncia secondo le modalità ed i canali specificamente prescritti dalla legge e di essere stato successivamente destinatario di un provvedimento datoriale che abbia inciso negativamente sulla propria posizione lavorativa, per potersi avvalere della suddetta presunzione di nullità, salvo l'eventuale – e rigorosa – prova contraria del datore di lavoro, che avrà l'onere di dimostrare l'esistenza in via esclusiva (4) di ragioni estranee alla “soffiata” del dipendente (5).

Sorge a questo punto un interrogativo legittimo: la disciplina italiana tutela il segnalante rispetto a tutte le possibili rappresaglie datoriali?

Facciamo un passo indietro.

Il legislatore italiano nel corpo delle norme citate fa riferimento, indifferentemente, agli atti ritorsivi o discriminatori, ingenerando nell'interprete più di un dubbio e rivelando uno scarso rigore terminologico, considerata la notevole differenza ontologica – e probatoria – sussistente tra gli atti di natura ritorsiva e quelli di natura discriminatoria (6). Tuttavia, l'analisi complessiva dell'ordito normativo porta a ritenere che si sia voluto predisporre a favore del whistleblower la più ampia protezione possibile, facendovi rientrare qualunque misura organizzativa datoriale (anche omissiva, come i mancati avanzamenti di carriera) che costituisca un trattamento deteriore nei confronti del segnalante (7). Più che la tecnica normativa utilizzata, dunque, è l'effetto della disciplina che si rivela degna di apprezzamento orientata com'è ad aprire un ampio “ombrello di protezione” a favore del whistleblower.

Il tema in esame ci porta direttamente ad analizzare la disciplina comunitaria contenuta nella direttiva 2019/1937/Ue, Protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell'Unione, che proprio in materia di protezione dei soggetti segnalanti adotta una tecnica differente, volta all'elencazione delle diverse forme di ritorsione datoriale, non esplicandone la nozione ma fornendo al contrario una lunga esemplificazione, peraltro non tassativa (8), e ricomprendendovi – a differenza della disciplina italiana- anche le minacce e i tentativi di ritorsione (9).

Quanto alla specifica misura civilistica di protezione contro le ritorsioni così come elencate nell'art. 19, la direttiva comunitaria premette nel considerando n. 93 che “È possibile che per giustificare la ritorsione siano addotti motivi diversi dalla segnalazione, nel qual caso può essere molto difficile per le persone segnalanti dimostrare il nesso tra la segnalazione e la ritorsione, mentre gli autori delle ritorsioni possono disporre di maggiori poteri e risorse per documentare le loro azioni e le loro ragioni. Pertanto, una volta che la persona segnalante abbia dimostrato, prima facie, di avere effettuato una segnalazione o divulgazione pubblica a norma della presente direttiva e di aver subito un danno, l'onere della prova dovrebbe spostarsi sulla persona che ha compiuto l'azione pregiudizievole, che dovrebbe quindi essere tenuta a dimostrare che l'azione intrapresa non era in alcun modo connessa alla segnalazione o alla divulgazione pubblica”.

Partendo dunque dalla concreta difficoltà per i soggetti segnalanti di provare il nesso tra segnalazione e rappresaglia datoriale, il legislatore comunitario espone la necessità di rendere effettiva la tutela, attraverso l'introduzione dell'inversione dell'onere probatorio, evidenziando come da un lato sarà sufficiente per il whistleblower provare di aver effettuato una segnalazione o una denuncia secondo le modalità previste dalla legge e di aver subito successivamente un pregiudizio (il testo utilizza in modo infelice il termine “danno”, volendo indicare l'effetto in luogo dell'atto ritorsivo datoriale), mentre dall'altro sarà necessaria la piena prova della totale estraneità – rispetto alla segnalazione – dell'azione pregiudizievole (ecco il riferimento all'atto che ha causato il “danno”) da parte di colui che l'abbia realizzata.

Il successivo art. 21 della direttiva 2019/1937/Ue, nell'attuare l'indicazione del citato considerando e nel dare seguito alle preoccupazioni manifestate dal Parlamento europeo (10), costruisce lo strumento normativo della presunzione di ritorsività (e dunque di nullità), statuendo che “Nei procedimenti dinanzi a un giudice o un'altra autorità relativi a un danno subito dalla persona segnalante, e a condizione che tale persona dimostri di aver effettuato una segnalazione oppure di aver effettuato una divulgazione pubblica e di aver subito un danno, si presume che il danno sia stato compiuto per ritorsione a seguito di tale segnalazione o divulgazione. In questi casi, spetta alla persona che ha adottato la misura lesiva dimostrare che tale misura è imputabile a motivi debitamente giustificati”.

Al di là dell'unitaria nozione fornita dal legislatore europeo –che non distingue tra impiego pubblico ed impiego privato come quello italiano-, il tenore della norma non differisce sostanzialmente dalla disciplina nazionale, essendo sufficiente per far scattare la presunzione di ritorsività (recte, di nullità) che il whistleblower dimostri la consequenzialità cronologica rappresentata dall'aver prima presentato una segnalazione o una denuncia secondo le forme prescritte dalla legge e di aver successivamente subito una misura che abbia avuto effetti pregiudizievoli sul lavoro, restando in capo all'autore della misura organizzativa l'onere di comprovare la sussistenza di differenti motivi “debitamente giustificati” (11).

Aggiungiamo soltanto, a chiusura di questa sommaria ricognizione normativa, che il sistema italiano così come è stato legislativamente codificato si presenta tra quelli in Europa più tutelanti per i whistleblowers, essendo classificato da un recente studio comparativo tra i paesi dotati di “strong protection” (12).

La prassi amministrativa: le linee guida ANAC

Un primo livello di verifica con riguardo all'effettività delle misure di protezione previste dall'ordinamento italiano a favore dei segnalanti, è rappresentato dalla prassi amministrativa dell'ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione), authority competente per l'impiego pubblico (13).

La legge 179 del 30 novembre 2017 ha infatti previsto la possibilità, per i dipendenti pubblici (o di enti equiparati) che abbiano segnalato irregolarità o illeciti attraverso i canali istituzionalmente riservati e che siano stati vittime di atti ritorsivi o discriminatori, di presentare denuncia presso l'ANAC. La denuncia – ove ammissibile- comporta l'apertura di un procedimento amministrativo che può condurre, da parte dell'ANAC, alla dichiarazione di nullità delle misure ritorsive ed alla condanna al pagamento di sanzioni pecuniarie nei confronti dei soggetti responsabili, da un minimo di 5.000,00 ad un massimo di 30.000,00 euro (14).

In via di principio, dunque, l'ordinamento riconosce all'ANAC un concreto ed incisivo potere di intervento nei casi di condotte vessatorie poste in essere, in modo ritorsivo, nei confronti del whistleblower nell'ambito del pubblico impiego; addirittura, il Consiglio dell'ANAC può con il provvedimento finale disporre “la declaratoria di nullità delle misure ritorsive e l'irrogazione della sanzione pecuniaria (15)”.

Venendo all'interpretazione fornita dall'autorità anticorruzione alla disciplina di diritto interno in materia di provvedimenti ritorsivi o discriminatori subiti dai whistleblowers, rileva in primo luogo l'ampia nozione riconosciuta nelle Linee Guida ANAC (16) alle misure organizzative aventi effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro del segnalante, formula di chiusura dell'art. 54-bis, comma 1 d.lgs. 165/2001. In particolare, la natura ritorsiva o discriminatoria del provvedimento datoriale “si configura non solo in atti e provvedimenti ma anche in comportamenti o omissioni posti in essere dall'amministrazione nei confronti del dipendente/segnalante, volti a limitare e/o comprimere l'esercizio delle funzioni proprie del lavoratore in guisa tale da disvelare un intento vessatorio o comunque da peggiorare la situazione lavorativa”, potendosi pertanto ricomprendere nell'ampio novero anche, ad esempio, l'ingiustificato mancato conferimento di incarichi al soggetto segnalante (17).

Quanto al meccanismo normativo di protezione del soggetto denunciante, nonostante l'ANAC riconosca -in conformità all'interpretazione come abbiamo visto invalsa in dottrina- la natura di inversione dell'onere della prova dell'art. 54-bis, comma 1 e 7 d.lgs. 165/2001, tuttavia in sede di specificazione interpretativa vengono aggiunti una serie di ulteriori elementi al requisito della consequenzialità tra segnalazione del whistleblower e pregiudizio subito, tali da appesantire la fattispecie stravolgendone l'originaria impostazione.

In particolare, nelle Linee Guida l'autorità anticorruzione afferma la necessità che “il segnalante dimostri di avere effettuato una segnalazione di illeciti di cui all'art 54-bis e di aver subito, a causa della segnalazione, una misura ritorsiva o discriminatoria”, aggiungendo ex novo il riferimento al nesso di causalità tra segnalazione e misura ritorsiva o discriminatoria, che non è presente né nella lettera dell'art. 54-bis, comma 1 e 7, né nell'art. 21 della direttiva 2019/1937. Nesso di causalità la cui asserita mancata prova è stata di recente uno dei motivi che ha portato l'Autorità anticorruzione ad archiviare un caso di denuncia di misure ritorsive subite da un whistleblower, dipendente di un ente gestore di un servizio pubblico essenziale (18).

Inoltre, nelle citate linee guida l'Autorità parla anche di “intento ritorsivo” che deve essere valutato “in collegamento alla segnalazione” (19), in questo modo conferendo all'istituto una non condivisibile torsione soggettiva, equiparabile all'intento persecutorio della fattispecie del mobbing che, come noto, è lo scoglio probatorio contro cui si arena la maggior parte delle richieste di tutela delle vittime di violenza e di molestie lavorative (20). Di più ed oltre, l'ANAC esclude l'applicazione della presunzione di nullità nel caso in cui risulti che le misure organizzative, ritenute ritorsive, siano state adottate non solo nei confronti del whistleblower ma anche di altri dipendenti che non hanno presentato segnalazioni di illeciti; inoltre, l'intento discriminatorio non sussiste nella circostanza in cui il presunto responsabile abbia tenuto il medesimo comportamento anche in epoca antecedente alla segnalazione (21).

Le linee guida testé esaminate, dunque, codificano l'invalso orientamento mantenuto da ANAC negli ultimi anni, che può essere la possibile spiegazione del fatto che il potere conferitole dalla legislazione nazionale pare attualmente privo di concreta effettività, considerato come nel corso dell'anno 2020 siano stati definiti 21 procedimenti relativi a segnalazioni di atti ritorsivi, con l'irrogazione di sole 3 sanzioni (peraltro nella misura minima di 5.000,00 euro) (22): ovverosia solo il 14,3% delle segnalazioni considerate ammissibili e trattate nel 2020 ha visto l'intervento sanzionatorio dell'Autorità anticorruzione.

La prassi giurisprudenziale: l'ordinanza del Tribunale di Milano, sezione lavoro, 3 febbraio 2022, est. Moglia

Nell'esaminare le due seguenti pronunce di merito, va premesso come esse costituiscano in materia dei veri e propri “casi pilota”, non essendo reperibili in giurisprudenza – almeno fino ad oggi – specifici precedenti in ordine alla tutela del whistleblower dalle rappresaglie lavorative.

Partiamo dunque dall'ordinanza emessa dal Tribunale di Milano, sezione lavoro, in data 3 febbraio 2022, all'esito della prima fase del “rito Fornero” con cui è stata impugnata la destituzione dal servizio irrogata ai sensi del r.d. 148/1931, disciplinante il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri.

Nel caso di specie, in particolare, il dipendente di un'azienda esercente un servizio pubblico essenziale veniva a conoscenza nello svolgimento delle proprie mansioni lavorative dell'esistenza di una ramificata truffa in corso da diversi anni, attraverso cui molteplici dipendenti provvedevano ad emettere biglietti e abbonamenti non contabilizzati, distraendo le relative somme. Il dipendente, dopo aver per anni invano segnalato verbalmente ai propri superiori la gravità e le dimensioni della truffa, procedeva successivamente a formalizzare la denuncia attraverso i canali ufficiali. Dopo pochi mesi dalla prima segnalazione ufficiale, il whistleblower lamentava di essere stato vittima di una serie di atti ritorsivi aziendali, che si sostanziavano – a detta del segnalante- in quattro procedimenti disciplinari in meno di un anno, in due procedimenti penali (entrambi conclusi con l'assoluzione “perché il fatto non sussiste”), nella sospensione dal servizio e dalla retribuzione e, infine, nella destituzione dal servizio che veniva impugnata dinanzi al citato Tribunale di Milano. Veniva dunque invocata dal dipendente proprio la presunzione di nullità del provvedimento datoriale ex art.. 54-bis, commi 1 e 7 d.lgs. 165/2001, in ragione del contesto ritorsivo derivante dalla natura di whistleblower della vittima, nonché la nullità di tutti i provvedimenti presupposti e consequenziali, unitamente alla tutela “forte” prevista ex lege (23).

All'esito di una lunga ed approfondita istruttoria, il giudice ambrosiano accoglieva parzialmente il ricorso del dipendente, accertando l'infondatezza nel merito del recesso e disponendone la reintegrazione in servizio, tuttavia soltanto ai sensi dell'art. 18, comma 4, l. 300/1970, non riconoscendo al segnalante la sussistenza dei requisiti per l'applicazione della tutela “reintegratoria piena” prevista dall'art. 54-bis, comma 8, d.lgs. 165/2001.

Più precisamente, pur non contestando il ruolo di whistleblower del dipendente, il giudice rilevava come i fatti oggetto del provvedimento di destituzione dal servizio (asserite minacce nei confronti di dirigenti aziendali) fossero ontologicamente diversi rispetto a quelli oggetto della precedente segnalazione (emissione di biglietti e abbonamenti non contabilizzati).

Partendo da questi presupposti, nella pronuncia si afferma il principio di diritto secondo cui il fatto che il segnalante abbia provato la propria natura di whistleblower ed abbia altresì evidenziato un collegamento temporale tra le denunce di cui si è reso autore, e il provvedimento disciplinare di cui è causa, non è elemento dirimente, essendo appunto “superato dalla totale diversità tra le condotte denunciate (emissione di biglietti e abbonamenti non contabilizzati) e gli addebiti (minacce)”.

Conclusivamente, secondo il Tribunale di Milano, “la sola presentazione di denunce, quali che esse siano, non assicura al dipendente una totale immunità e impunità rispetto a comportamenti estranei ai fatti denunciati”, tenuto conto soprattutto del fatto che al datore di lavoro “non è precluso il potere disciplinare né l'adozione di provvedimenti sanzionatori che riguardino condotte del dipendente diverse da quelle di cui si è fatto delatore, provvedimenti che, quindi, se adottati, non sono, presuntivamente nulli, ma necessitano dell'ordinario vaglio di legittimità, come ogni altro provvedimento di tal natura”.

Siamo di fronte, con ogni evidenza, ad un'interpretazione rigorista che inserisce nel meccanismo normativo previsto dall'art. 1 della l. 179/2017 un ulteriore elemento, ovverosia quello dell'identità (od omogeneità) tra i fatti oggetto della segnalazione e quelli alla base dei successivi provvedimenti datoriali: requisito non solo non previsto legislativamente ma che, di fatto, si sostanzia nel totale svuotamento della tutela apprestata dall'ordinamento a favore del soggetto segnalante.

Infatti, è di tutta evidenza come, nella quasi totalità dei casi concreti, la rappresaglia datoriale non faccia mai esplicito riferimento alla segnalazione effettuata dal whistleblower ma, al contrario, utilizzi in modo pretestuoso altre circostanze, con il preciso scopo di colpire strumentalmente la vittima. Né del resto, come abbiamo accennato, è dato reperire sia nel testo dell'art. 54-bis d.lgs. 165/2001 sia nella disposizione dell'art. 21 della direttiva 2019/1937 il riferimento all'identità dei fatti segnalati rispetto a quelli contestati nei successivi provvedimenti ritenuti ritorsivi o discriminatori.

L'infondatezza nel merito dei fatti addebitati al whistleblower con il provvedimento di destituzione dal servizio avrebbe dovuto portare peraltro, a mente delle stesse linee guida ANAC, a presumere la ritorsività del provvedimento stesso, considerato che “ulteriori elementi utili a valutare la non casualità della condotta dell'amministrazione rispetto all'ipotesiritorsiva sono l'assenza di giustificazione per l'adozione del provvedimento ritenuto ritorsivo” (24).

La prassi giurisprudenziale: la sentenza del Tribunale di Bergamo, sezione lavoro, 7 gennaio 2022, n. 2, est. Lapenta

Il secondo provvedimento che viene in considerazione è la sentenza del Tribunale di Bergamo, sezione lavoro, 7 gennaio 2022, n. 2, est. Lapenta, emessa all'esito dell'impugnativa giudiziale di ben due licenziamenti, questa volta nell'ambito dell'impiego privato.

Nel caso di specie, il dipendente di un'azienda operante all'interno di un aeroporto presentava una pluralità di segnalazioni di illeciti: una prima relativa all'asserita violazione della privacy nella conservazione delle cartelle cliniche da parte dell'azienda (non utilizzando tuttavia il canale predisposto ai sensi del d.lgs. 231/2001), ed altre due invece presentate ritualmente attraverso le modalità previste ex lege, inerenti rispettivamente l'abbandono di documenti riservati e di materiali sensibili nel magazzino dell'aeroporto (rivelatasi fondata) e l'asserita comunicazione da parte della società datrice di dati non veritieri ad Enac per ottenere l'autorizzazione a procedere a lavori di ampliamento dell'aerostazione.

Facevano seguito alle segnalazioni del dipendente una serie di provvedimenti disciplinari datoriali, rappresentati da una prima sospensione dal servizio e dalla retribuzione per 7 giorni, per l'asserito rifiuto del dipendente di apporre la cartellonistica segnaletica presso i bagni per le persone disabili e per non aver rimosso tempestivamente la copertura di alcuni cartelli posti nell'area arrivi del terminal passeggeri. Seguiva, a distanza di pochi mesi, un'altra contestazione disciplinare relativa all'asserita sottrazione da parte del segnalante di una cartella sanitaria dall'archivio del Medico Competente, che portava al primo licenziamento per giusta causa. “Chiudeva il cerchio” un secondo licenziamento per giusta causa “condizionato”, relativo alla asserita indebita sottrazione di documenti aziendali riservati, allegati poi dal dipendente alla segnalazione presentata ad Enac contro l'azienda.

A fronte della domanda di accertamento della ritorsività di entrambi i provvedimenti datoriali di recesso svolta dal lavoratore, anche in questo caso il giudice adito ha optato per la concessione della tutela ex art. 18 comma 4 stat. lav., limitandosi ad accertare l'insussistenza dei fatti addebitati dal datore di lavoro nei due licenziamenti per giusta causa.

L'esame del disposto motivazionale evidenzia come nel corpo della sentenza non si faccia riferimento alla speciale tutela prevista in materia dall'art. 6 comma 2-quater del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231: mancanza, questa, che ha inciso nell'economia della successiva decisione.

Lo scrutinio giudiziale del primo licenziamento, infatti, si fonda unicamente sui principi generali in materia di prova del licenziamento ritorsivo ex art. 1345 c.c. o discriminatorio, affermandosi che “la prova della discriminatorietà/ritorsività del licenziamento, è posta interamente a carico del ricorrente, come da granitica giurisprudenza in argomento (ex multis, Cass. n. 11705/2020), e non ravvisandosi nel caso concreto alcun intento discriminatorio o ritorsivo, ma solo l'insussistenza del fatto materiale addebitato.

Quanto al secondo licenziamento per giusta causa (quello “condizionato”), il ragionamento pare avvicinarsi a quello del giudice milanese, senza tuttavia trarne le relative conseguenze: considerato che il licenziamento fa espresso riferimento alla segnalazione effettuata dal dipendente per via della documentazione aziendale allegata, “va rimarcato che è espressamente stabilito che il segnalante ‘è tutelato in caso di adozione di misure discriminatorie, diretto o indirette, per motivi collegati alla segnalazione. Qualora il whistleblower sia un dipendente è esente da conseguenze pregiudizievoli aventi effetti sulle condizioni di lavoro, ovvero in ambito disciplinare' ”.

In questo caso dunque, utilizzando il parametro dell'identità/omogeneità tra fatti segnalati e fatti contestati esaminato nella precedente pronuncia, il giudice bergamasco avrebbe dovuto comunque dichiarare la ritorsività del licenziamento datoriale; al contrario, nel caso di specie il giudicante si è limitato ancora una volta a dichiarare l'insussistenza del fatto materiale, sul presupposto che l'allegazione di documentazione aziendale alla segnalazione non ha alcun rilievo disciplinare: conseguenza di questo percorso logico-argomentativo è stato quindi l'annullamento ex art. 18 comma 4 l. 300/1970, in luogo della dichiarazione di nullità ex art. 18 comma 1.

Conclusioni

È giunto il momento di “tirare le fila” della presente analisi.

Emerge manifesta, in particolare, la stridente discrasia tra l'elevato livello di tutela garantito dalla disciplina nazionale e comunitaria e la mancanza di effettività delle misure di protezione dei whistleblowers dalle ritorsioni e rappresaglie datoriali, alla prova della prassi amministrativa e giudiziale che, come abbiamo visto, in sede di prima interpretazione ha applicato in maniera oltremodo rigoristica lo strumento normativo di protezione.

Si tratta di una rilevante cesura dell'ordinamento che, se non suturata attraverso un'adeguata opera ermeneutica ispirata al fondamentale principio di effettività (art. 47, Carta dei diritti fondamentali Ue e artt. 21 e 22 direttiva 2019/1937 Ue), rischia davvero di porre nel nulla le garanzie apprestate dal legislatore, costituendo al contrario un potente disincentivo per chi volesse denunciare gli illeciti appresi nell'esercizio delle proprie funzioni.

Note

(1) CORSO, La direttiva UE 2019/1937 sul whistleblowing e le possibili ricadute nel diritto interno, in Il Lavoro nella Giurisprudenza, 6, 1 giugno 2020, p. 600 e ss., sostiene che tra le due norme non vi sia sostanziale differenza, essendo sufficiente in entrambi i casi che “il segnalante che si dichiara vittima di ritorsione possa limitarsi a provare la sua qualità di whistleblower e ad esprimere il convincimento di aver subito una ritorsione”.

(2) CANTONE, Il dipendente pubblico che segnala illeciti; un primo bilancio sulla riforma del 2017, in Aa.Vv., a cura di DELLA BELLA, ZORZETTO, Atti del I convegno annuale del dipartimento di scienze giuridiche Cesare Beccaria, Milano, 18-19 novembre 2019, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2020, p. 203; DELLA BELLA, Il whistleblowing nell'ordinamento italiano: quadro attuale e prospettive per il prossimo futuro, in Aa.V.v., cit., p. 170; PERUZZI, La prova del licenziamento ritorsivo nella legge 179/2017 sul whistleblowing, in Lavoro e Diritto, Fascicolo 1, 2020, p. 43 e ss.; RICCIO, La tutela del lavoratore che segnala illeciti dopo la l. 179 del 2017. Una prima lettura giuslavoristica, in Rivista Elettronica di diritto pubblico, di diritto dell'economia e di scienza dell'amministrazione, 26 marzo 2018, p. 6-7; PIZZUTI, Whistleblowing e rapporto di lavoro, Torino, Giappichelli, 2019, p. 109 e ss.; p. 150 e ss.; AGLIATA, Sull'esercizio “responsabile” del diritto di denuncia del lavoratore, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 5, 1 settembre 2021, p. 1018 e ss.;

(3) EGE, TAMBASCO, Il lavoro molesto, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2021, p. 54; TAMBASCO, Eliminare la violenza e le molestie nel mondo del lavoro. L'itinerario della giurisprudenza italiana, Ginevra, ILO, 2022, in corso di pubblicazione.

(4) PERUZZI, La prova del licenziamento ritorsivo nella legge 179/2017 sul whistleblowing, cit., p. 43-44.

(5) PIZZUTI, Whistleblowing e rapporto di lavoro, cit., p. 156: “questi [il whistleblower, ndr], infatti, dovrà semplicemente portare a conoscenza del giudice i fatti costituenti i presupposti oggettivi della sua condizione di lavoratore-whistleblower –ossia il contratto di lavoro e la segnalazione- e quelli integranti il pregiudizio subito, ossia la condotta datoriale con effetti negativi sulla sua posizione lavorativa che sia stata tenuta successivamente alla segnalazione. Non sarà richiesta al segnalante, dunque, alcuna valutazione, nemmeno di tipo statistico, circa il complessivo comportamento discriminatorio del datore di lavoro, essendo integralmente posto su quest'ultimo l'onere di dimostrare che la misura organizzativa si è basata in realtà su ragioni estranee alla segnalazione inoltrata dal lavoratore”; in senso conforme, CORSO, Il whistleblowing dopo la legge n. 179/2017, La tutela del prestatore d'opera che segnala illeciti endoaziendali, Piacenza, 2018, p. 203.

(6) Si veda, per la differenza tra licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo, la consolidata giurisprudenza di legittimità, ex plurimis Cass., sez. lav., 25 gennaio 2021, n. 1514; Cass. sez. lav., 7 novembre 2018, n. 28453; Cass. sez. lav., 5 aprile 2016, n. 6575.

(7) PIZZUTI, Whistleblowing e rapporto di lavoro, cit., p. 153, che in relazione al riferimento legislativo agli atti ritorsivi e discriminatori parla di “una sorta di endiadi, nella quale si integrano a vicenda e tendono ad individuare un'area di tutela più ampia della semplice ritorsione…”

(8) DELLA BELLA, La direttiva europea sul whistleblowing: come cambia la tutela per chi segnala illeciti nel contesto lavorativo, https://www.sistemapenale.it/it/scheda/direttiva-europea-whistleblowing-come-cambia-tutela-per-chi-segnala-illeciti-nel-contesto-lavorativo; per la rilevanza sul piano pratico dell'elenco operato dall'art. 19 della Direttiva 2019/1937/Ue, che rappresenta un vero e proprio “catalogo” di condotte che, frequentemente, sono espressive delle fattispecie di mobbing o di straining, EGE, TAMBASCO, Il lavoro molesto, cit., p. 54.

(9) FRASCHINI, Direttiva europea sul whistleblowing 1937/2019. Analisi e raccomandazioni di Transparency International Italia, p. 38.

(10) La Risoluzione del Parlamento Europeo, 24 ottobre 2017, Misure legittime per proteggere gli informatori che agiscono nell'interesse pubblico, al considerando 38 manifesta preoccupazione “per i rischi a cui sono esposti gli informatori sul loro luogo di lavoro, in particolare per i rischi di ritorsioni dirette o indirette da parte del datore di lavoro o di chi lavora o agisce per conto di quest'ultimo; sottolinea che tali ritorsioni si traducono spesso in un'esclusione, un rallentamento o un arresto dell'avanzamento di carriera, se non addirittura in un licenziamento, nonché in molestie psicologiche; evidenzia che tali ritorsioni costituiscono un freno all'azione degli informatori; reputa necessario introdurre misure di protezione contro le ritorsioni; ritiene che le ritorsioni andrebbero penalizzate e sanzionate in maniera efficace; sottolinea che, nel momento in cui una persona viene riconosciuta quale informatore, occorre prendere misure intese a proteggerla, a far cessare tutte le misure di ritorsione adottate nei suoi confronti e a concederle un risarcimento integrale per il pregiudizio arrecato o i danni subiti; ritiene che tali disposizioni debbano figurare nella proposta di direttiva orizzontale della Commissione relativa alla protezione degli informatori”.

(11) In senso analogo a quanto indicato nel testo, CORSO, La direttiva UE 2019/1937 sul whistleblowing e le possibili ricadute nel diritto interno, cit., p. 600 e ss, secondo cui “È, peraltro, da ritenere che non vi sia essenziale differenza tra i due testi e che il segnalante che si dichiara vittima di ritorsione possa limitarsi a provare la sua qualità di whistleblower e ad esprimere il convincimento di aver subito una ritorsione”; di inversione dell'onere della prova analogo alla legislazione italiana parla DELLA BELLA, La direttiva europea sul whistleblowing: come cambia la tutela per chi segnala illeciti nel contesto lavorativo, cit., p.7; nello stesso senso, PARISI, La funzione del whistleblowing nel diritto internazionale ed europeo, in Aa.Vv., a cura di DELLA BELLA, ZORZETTO, Atti del I convegno annuale del dipartimento di scienze giuridiche Cesare Beccaria, Milano, 18-19 novembre 2019, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2020, p. 33.

(12) TURKSEN, Whistle-blower protection in the Eu: critical analysis challenges and future prospects, in Aa.Vv., a cura di DELLA BELLA, ZORZETTO, Atti del I convegno annuale del dipartimento di scienze giuridiche Cesare Beccaria, Milano, 18-19 novembre 2019, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2020, pp. 42 e ss. Più precisamente, l'Italia si colloca al terzo posto tra i paesi aventi un elevato rating di protezione legale, dopo la Francia (1^) e l'Irlanda (2^), in un'analisi comparativa condotta su 17 paesi europei.

(13) Con riguardo invece ai provvedimenti ritorsivi e discriminatori adottati nei confronti dei whistleblowers nell'ambito dell'impiego privato, la competenza è prevista in capo all'Ispettorato Nazionale del Lavoro, ai sensi e per gli effetti dell'art. 6, comma 2 ter, d.lgs. 231/2001.

(14) Art. 54 bis comma 1 d.lgs. 165/2001, come novellato dall'art. 1 l. 179/2017; Delibera Anac 690 del 1 luglio 2020; Linee guida ANAC, p. 22-23.

(15) Art. 14 delibera Anac 690/2020; Linee guida ANAC, p. 23: “nel caso in cui l'Autorità accerti la natura ritorsiva di atti adottati dall'amministrazione o dall'ente, ne discende che questi sono nulli e ANAC ne dichiara la nullità come previsto dal co. 6, art. 54-bis del d.lgs.165/2001. In caso di licenziamento, al lavoratore spetta la reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (rubricato in “Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale”). L'ordine di “reintegro” resta di esclusiva competenza della magistratura”. Tuttavia, si evidenzia come la disposizione legislativa che ha previsto il potere sanzionatorio di ANAC in materia di atti ritorsivi o discriminatori (ovverosia l'art. 54 bis, comma 6 d.lgs. 165/2001, così come novellato dall'art. 1 l. 179/2017), non preveda in nessun punto l'attribuzione anche del potere di accertare e dichiarare la nullità dei medesimi provvedimenti ritorsivi o discriminatori; aspetto, questo, che evidenzia l'esistenza di una seria discrasia tra la disposizione di legge e la successiva attuazione regolamentare posta in essere da ANAC con la citata delibera 690/2020.

(16) Adottate con delibera n. 469 del 9 giugno 2021, il potere di emettere apposite linee guida da parte dell'ANAC è previsto dall'art. 54 bis, comma 5 d.lgs. 165/2001.

(17) Linee Guida Anac, p. 21.

(18) Delibera ANAC n. 673 del 21 settembre 2021, peraltro non definitiva in quanto –nel momento in cui si scrive- oggetto di impugnazione.

(19) Linee Guida ANAC, p. 22.

(20) Si rimanda a EGE, TAMBASCO, La tolleranza zero contro la violenza e le molestie lavorative: una rivoluzione in arrivo?, in Il Giuslavorista, 1 ottobre 2021, ilgiuslavorista.it/articoli/focus/la-tolleranza-zero-contro-violenza-e-molestie-lavorative-una-rivoluzione-arrivo

(21) Linee Guida ANAC, p. 22, in cui si aggiunge anche che “la sussistenza di un atteggiamento del presunto autore della ritorsione che sia benevolo e favorevole agli interessi del segnalante nonché, in caso di adozione di un provvedimento disciplinare, la fondatezza della sanzione, la sua esiguità e la sua applicazione in modo proporzionato e ragionevole possono costituire elementi idonei ad escludere la sussistenza dell'intento ritorsivo”.

(22) Dati estratti dalla Relazione Annuale ANAC 2020, 18 giugno 2021, pag. 92. Si consideri, tuttavia, che se il meccanismo dell'inversione dell'onere della prova previsto dall'art. 54-bis, comma 1 e 7 d.lgs. 165/2001 si applica sicuramente all'accertamento della nullità delle misure ritorsive, al contrario seri dubbi permangono in dottrina sull'estensibilità anche al procedimento sanzionatorio ai sensi della l. 689/1981, come correttamente rilevato da CANTONE, Il dipendente pubblico che segnala illeciti; un primo bilancio sulla riforma del 2017, cit., p. 205, nota 57.

Ai sensi dell'art. 54-bis, comma 8 d.lgs. 165/2001, il segnalante che sia stato licenziato a motivo della segnalazione è reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell'art. 2 d.lgs. 23/2015.

(24) Linee Guida ANAC, p. 22.

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