I presupposti della tutela in via d'urgenza nella materia del lavoro alla prova della sospensione del lavoratore non vaccinato contro il Covid-19

Enrico Zani
28 Febbraio 2022

Il presupposto principale per poter dar corso a tutela cautelare anticipatoria d'urgenza, ai sensi dell'art. 700 c.p.c., è costituito dalla prova rigorosa ...
Massima

Il

presupposto principale per poter dar corso a tutela cautelare anticipatoria d'urgenza, ai sensi dell'

art. 700 c.p.c.

, è costituito dalla prova rigorosa che, nel tempo occorrente per ottenere la decisione di merito, il diritto sia minacciato concretamente ed attualmente da un pregiudizio imminente ed irreparabile.

La mera perdita della retribuzione non concretizza di per sé il pregiudizio imminente ed irreparabile, trattandosi sempre di danno risarcibile ex post, con la conseguenza che il lavoratore che agisce in via d'urgenza deve allegare e provare le circostanze di fatto in relazione alle quali il provvedimento di sospensione della retribuzione produce, in concreto, effetti lesivi di carattere irreparabile che non possono ritenersi insiti nella mera perdita della retribuzione.

Il caso

Una dipendente di una cooperativa sociale, assunta a tempo indeterminato con mansioni di infermiera ed adibita a prestare servizio presso una residenza sanitaria per anziani ricorreva al Giudice del lavoro ai sensi dell'art. 414 c.p.c. e, al contempo, svolgendo istanza ex art. 700 c.p.c. La ricorrente lamentava di essere stata posta forzosamente in ferie e, poi, di essere stata sospesa cautelativamente dal servizio, con privazione della retribuzione, sostenendo l'illegittimità dei predetti provvedimenti datoriali. La cooperativa resistente protestava la correttezza del proprio operato, ritenuto conforme alle indicazioni dell'art. 4 del D.L. n. 44 del 2021 alla luce del rifiuto di sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19 manifestato dalla prestatrice di lavoro.

Nel decidere in sede d'urgenza, il Tribunale respingeva la domanda relativa al collocamento in ferie, rilevando che, nella specie, il potere datoriale di indicare il periodo di riposo fosse stato esercitato secondo buona fede ed avesse garantito alla dipendente un trattamento migliorativo, consentendo il mantenimento del diritto alla retribuzione.

Il Giudice del lavoro giungeva a differenti conclusioni quanto al collocamento in aspettativa non retribuita. Il provvedimento veniva interpretato quale espressione della conformazione datoriale ai doveri imposti in via generale dall'art. 2087 c.c., norma che appunto prescrive l'adozione di ogni protezione atta a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori. Nondimeno, secondo il Tribunale, tale misura era stata decisa ed attuata in violazione della scansione procedimentale prevista dal D.L. n. 44: la parte datoriale, infatti, non aveva atteso le determinazioni dell'ASL territoriale prima di sospendere la dipendente, né aveva verificato la possibilità di adibire la medesima ad altra mansione, non implicante il rischio di una diffusione del contagio di Covid-19. Il Tribunale perciò pronunziava l'illegittimità del provvedimento, condannando il datore al pagamento della retribuzione dal momento della sospensione; non veniva invece comandata la riammissione in servizio per lo svolgimento delle mansioni infermieristiche, a ciò ostando l'esplicita preclusione contenuta nello stesso art. 4 del D.L. sopra menzionato.

La questione

La cooperativa datrice di lavoro proponeva reclamo avverso l'ordinanza, contestando la carenza tanto del periculum in mora quanto del fumus boni iuris.

Sotto il primo profilo, veniva rilevato come l'ordinanza impugnata avesse omesso di prendere in considerazione tale tema, pure evidentemente necessario onde giustificare l'assunzione di provvedimenti giudiziali urgenti. Era anche dedotta l'insufficiente documentazione, da parte della ricorrente, del suddetto profilo. In primo luogo, si notava, la lavoratrice aveva deciso di agire in via d'urgenza quando erano trascorsi circa sei mesi dall'adozione della misura datoriale. Inoltre, non erano stati prodotti documenti tali da permettere di ricostruire la situazione reddituale e patrimoniale della dipendente, in ipotesi incisa negativamente dalla sospensione dal lavoro. Ancora, veniva evidenziata la sovrapponibilità del contenuto della domanda cautelare alle conclusioni rassegnate in sede di ricorso ex art. 414 c.p.c.

In merito al profilo del fumus boni iuris, il reclamante, ripercorso l'avvicendamento dei numerosi interventi legislativi che, nel corso dell'anno 2021, hanno interessato la materia dell'obbligo vaccinale anti Covid-19 gravante sul personale sanitario, sosteneva che il quadro normativo da applicarsi nella fattispecie giustificava, da un lato, l'estromissione dal servizio del prestatore di lavoro non immunizzato ed impediva, dall'altro lato, la riammissione del medesimo.

La cooperativa si concentrava pertanto sulla ritenuta contraddittorietà dell'impugnata ordinanza che, pure escludendo il rientro al lavoro della ricorrente, condannava la parte datoriale al pagamento delle retribuzioni. Si sosteneva che la procedura dettata dall'art. 4 del più volte richiamato D.L. n. 44 del 2021 non era stata violata. Nella prospettazione del reclamante, la norma testé evocata regola semplicemente un procedimento di verifica dello stato vaccinale dei lavoratori al fine di tutelare il diritto alla riservatezza degli stessi, senza però che tale iter costituisca metodo esclusivo e previsto a pena di nullità (delle successive determinazioni datoriali) per compiere il controllo in parola. Nella specie, si argomentava, la circostanza della mancata sottoposizione alla vaccinazione era pervenuta nella sfera di conoscenza del datore di lavoro in modo legittimo, attraverso l'attività di sorveglianza sanitaria, sì che ulteriori, successive comunicazioni dell'ASL competente sarebbero state superflue perché destinate a confermare un fatto già noto. La cooperativa protestava dunque la correttezza della decisione di porre la lavoratrice in aspettativa, anche in quanto espressione di una scelta rivolta all'azzeramento dei rischi di infezione. Trovandosi la lavoratrice impossibilitata a realizzare la prestazione tipica, se ne doveva discendere l'esonero, per la controparte, dall'obbligo di versare la corrispondente retribuzione.

Ad ogni modo, la cooperativa rappresentava di avere trasmesso all'ASL territoriale l'elenco dei propri dipendenti aventi qualifica di operatori sanitari, come prescritto dal D.L. n. 44 del 2021, e di avere dovuto constatare l'inazione del citato organismo, che ometteva di provvedere agli accertamenti elencati dal citato art. 4.

Da ultimo, il reclamante metteva in luce l'impossibilità pratica di adibire la lavoratrice sospesa dal servizio ad altre mansioni, proprio allo scopo di evitarne l'estromissione dall'organizzazione produttiva, allegando l'insussistenza di posizioni lavorative diverse da quelle prettamente sanitarie (per cui dunque operava la preclusione dettata dal Decreto Legge) ricopribili dalla dipendente, anche tenuto conto del bagaglio professionale di quest'ultima.

Nel richiedere la conferma dell'ordinanza impugnata, la lavoratrice ribadiva la necessità che ogni accertamento in merito all'osservanza, o meno, dell'obbligo vaccinale fosse svolto dall'organo a ciò deputato dalla normativa speciale (e cioè dall'ASL competente); si derivava da ciò che ogni inosservanza rilevabile in proposito dovesse tradursi in illegittimità dei conseguenti provvedimenti datoriali. Su altro piano, si sottolineava l'ineludibilità dell'obbligo datoriale di verificare l'esistenza di posizioni aziendali alternative, onde ricollocare il dipendente, per costituire la collocazione in aspettativa l'extrema ratio a disposizione del datore medesimo.

La lavoratrice protestava poi di avere richiesto la tutela di urgenza anche allo scopo di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, oltre che di percepire le retribuzioni non versate durante il periodo di sospensione, e di avere allo scopo dimostrato la sussistenza di un periculum in mora. A quest'ultimo proposito si deduceva la circostanza per cui la ricorrente traeva dal lavoro la propria unica fonte di reddito e doveva provvedere al mantenimento di famigliari a carico. Si qualificava come irrilevante il lasso di tempo trascorso dall'estromissione dal lavoro alla presentazione del ricorso, contenente altresì la richiesta di provvedimenti d'urgenza, non essendo previsto alcun termine di decadenza che si applichi alla fattispecie.

Tornando al procedimento di accertamento dell'inosservanza dell'obbligo vaccinale regolato dal D.L. n. 44 del 2021, la parte ricorrente ne ribadiva il carattere esclusivo, a tutela di diritti di rango primario del prestatore di lavoro. Per conseguenza, va escluso che il datore di lavoro goda di alcuno spazio di discrezionalità nella valutazione del requisito vaccinale oppure nell'irrogazione del provvedimento di sospensione dall'attività, ciò che potrebbe oltretutto riverberarsi nella surrettizia imposizione di trattamenti sanitari alla persona del dipendente.

Da ultimo, la lavoratrice contestava le avversarie asserzioni sull'impossibilità di procedere al proprio repechage, tenuto conto del fatto che il datore di lavoro non aveva dimostrato l'assenza di posizioni aziendali diverse da quelle tipicamente sanitarie, alle quali la dipendente avrebbe potuto essere riassegnata, né le motivazioni attinenti alla persona della prestatrice di lavoro che avrebbero impedito una simile collocazione. Si sosteneva anche l'irrilevanza dell'introduzione, nelle more del procedimento, del nuovo art. 4-bis nel corpo del D.L. n. 44 del 2021, trattandosi di norma rivolta alla regolazione della posizione dei dipendenti delle strutture residenziali od assistenziali diversi dai professionisti sanitari.

Le soluzioni giuridiche

L'ordinanza in commento, con la quale il Tribunale collegiale di Alessandria decideva sul reclamo interposto dalla cooperativa datrice di lavoro, si concentra innanzitutto sul tema del periculum in mora.

In proposito, la pronunzia evidenzia come la prova di tale elemento deve essere fornita con estremo rigore dalla parte che domandi la tutela cautelare. L'oggetto della prova – specifica ancora l'ordinanza – consiste nella dimostrazione della ricorrenza di un danno imminente ed irreparabile in grado di minacciare in maniera attuale e concreta il diritto fatto valere nelle more del giudizio di merito. Nella specie, pertanto, si trattava di dimostrare la sussistenza di un pericolo minacciante il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e alla corresponsione delle retribuzioni maturate e maturande.

In tale ottica, il Collegio ritiene eloquente la circostanza per cui la lavoratrice abbia atteso circa sei mesi dalla collocazione in aspettativa per azionare il diritto invocato, in quanto stridente con l'affermazione – peraltro non provata – secondo cui la retribuzione sospesa costituiva l'unica fonte reddituale della ricorrente. In altre parole, viene ravvisata una contraddizione tra le asserzioni contenute in sede di ricorso, stando alle quali la sospensione aveva posto la prestatrice di lavoro e la famiglia di questa in una condizione di indigenza, e l'inerzia mantenuta dal medesimo soggetto per un periodo di tempo non breve, senza che peraltro venissero illustrate le ragioni alla base di un simile comportamento. Allo stesso modo, non era stata offerta prova neppure in merito alla protestata mancanza di redditi in capo all'ex coniuge della ricorrente.

Il Tribunale si riporta dunque alla consolidata giurisprudenza secondo cui la semplice perdita della retribuzione non concretizza, di per sé, un pregiudizio imminente ed irreparabile, trattandosi di danno risarcibile ex post, con la conseguenza per cui grava sul lavoratore che richieda la tutela in via d'urgenza l'onere di provare le circostanze per cui, nel singolo caso concreto, la perdita della retribuzione assurga a fonte produttiva di effetti lesivi cui non è possibile porre rimedio.

La carenza del periculum in mora finisce dunque per assorbile ogni ulteriore considerazione, portando il Tribunale di Alessandria ad accogliere il reclamo e, quindi, a rigettare la domanda cautelare della lavoratrice.

Osservazioni

La decisione in commento interviene su una tematica di scottante attualità: quella delle conseguenze previste in capo ai lavoratori che abbiano deciso di non aderire alla campagna di vaccinazione anti Covid-19, in contrasto con le disposizioni legislative che hanno sancito l'obbligatorietà di detta adesione. Tuttavia, la rilevata mancanza di prova riguardante il profilo del periculum in mora ha finito per limitare la disamina della fattispecie al piano più tipicamente processuale, impedendo – almeno nella fase cautelare – di affrontare il controverso aspetto della verosimiglianza della sussistenza del diritto azionato.

L'approccio al tema appena indicato fatto proprio dall'ordinanza del Tribunale di Alessandria è estremamente rigoroso, come del resto si legge nel § 4 della motivazione. Il requisito del periculum in mora viene infatti interpretato alla stregua della dimostrazione del rischio (ad opera del ricorrente) della definitiva compromissione del diritto fatto valere nelle more del processo, con la conseguenza di escludere la ricorrenza di una simile circostanza con riferimento a tutte le posizioni giuridiche suscettibili di essere ristorate ex post, con risarcimento per equivalente.

Non si tratta di un'esegesi isolata, come suggerisce l'esplicito richiamo dell'ordinanza del Tribunale di Modena 23 luglio 2021, n. 2467, intervenuta peraltro a decidere la fase del reclamo in un caso molto simile a quello in commento (si trattava della sospensione dal lavoro di un operatore sanitario decisa prima della promulgazione del D.L. n. 44 del 2021). La richiamata ordinanza si collocava su una posizione ancora più tranchant, affermando che il requisito in parola “non può ricorrere con riferimento ai diritti derivanti dai rapporti obbligatori, essendo questi per loro natura suscettibili in ogni caso di riparazione economica”, specificando conseguentemente che la perdita della retribuzione può concretizzare un'ipotesi di periculum in mora solo allorché essa si riverberi su diritti essenziali del lavoratore, “quali il diritto ad un'esistenza libera e dignitosa, il diritto alla salute ovvero altri diritti insuscettibili di risarcimento per equivalente”. Nella pratica, tale posizione interpretativa implica un aggravamento degli oneri probatori ricadenti sul lavoratore che richieda tutela in via d'urgenza. Il ricorrente non potrà limitarsi a dedurre l'avvenuta perdita della fonte di reddito rappresentata dalla retribuzione, dovendo invece allegare le ricadute che la detta perdita ha provocato su diritti di rilievo primario. Per esemplificare, tale compito potrà considerarsi eseguito qualora sia data evidenza al Giudice della situazione patrimoniale e reddituale del nucleo familiare del prestatore di lavoro: in questo modo sarà possibile dimostrare come la mancanza dell'introito retributivo abbia influito negativamente sulla citata situazione, ponendo la famiglia nell'impossibilità di fare fronte alle necessità della vita quotidiana.

Sotto altro profilo, non si nega che la sospensione dal lavoro possa cagionare danni di natura anche non patrimoniale. Ma, ancora una volta, tale danno non può ritenersi implicito nell'interruzione stessa dell'attività lavorativa, dovendo invece essere dimostrata, come illustra ancora la decisione modenese, “una compromissione irreversibile di posizioni soggettive di carattere assoluto, con ripercussioni negative nella sfera personale e psico-fisica del lavoratore”, tali potendo essere la mancata progressione di carriera o la dequalificazione professionale.

In dottrina alcune voci hanno posto in luce la connotazione estremamente rigorosa dell'esegesi appena considerata, anche in considerazione della centralità della retribuzione come diritto fondamentale del lavoratore. Vi è da dire che sul medesimo tracciato interpretativo appare collocarsi l'ordinanza del Tribunale di Roma, 20 agosto 2021, n. 79834, ove si legge che il requisito del periculum in mora “deve essere accertato nella sua effettiva consistenza, non potendo il giudice concedere un provvedimento d'urgenza solo sulla base di valutazioni soggettive della parte ricorrente”. Nello stesso senso si è espresso anche il Tribunale di Milano (ordinanza 30 ottobre 2021, n. 26276) , secondo il quale occorre rilevare l'impossibilità di verificare se il provvedimento datoriale crei una situazione di indigenza economica nei casi in cui il lavoratore ricorrente ometta di produrre attestazioni ISEE o dichiarazioni dei redditi o, ancora, documentazione equipollente “comprovante il reddito complessivo del nucleo famigliare o la disponibilità di risorse economiche idonee a garantire una vita dignitosa”.

Altre pronunzie, intervenute a decidere in giudizi analoghi a quello in esame, ove cioè il dipendente sospeso dal servizio a ragione della mancata sottoposizione alla vaccinazione anti Covid-19 richiedeva tutela ex art. 700 c.p.c., giustificano la “severità” dell'interpretazione sin qui considerata anche sulla base delle caratteristiche proprie della materia laburistica. Appare interessante, in particolare, l'ordinanza del Tribunale di Catanzaro, 17 dicembre 2021. Detto arresto puntualizza come lo scopo del ricorso d'urgenza non sia quello di permettere alla parte ricorrente di accorciare i tempi della giustizia, quanto piuttosto quello di porre rimedio a situazioni più puntuali e circoscritte, ove cioè emerga la necessità di approntare una tutela accelerata a favore della parte che abbia ragione di temere di vedere pregiudicata la propria posizione giuridica durante l'attesa di una pronunzia giudiziale ordinaria. Il periculum in mora è dunque aspetto da valutare criticamente e ciò è tanto più vero – prosegue l'ordinanza da ultimo evocata – nella materia del lavoro, ove i litiganti possono accedere ad un rito processuale già snellito rispetto a quello ordinario e dove si può affacciare la “tentazione” di ritenere il citato presupposto in re ipsa, “attesa la inevitabile ripercussione che ogni lesione alla sfera del lavoratore ha direttamente o indirettamente sui diritti fondamentali di costui in quanto persona”. Discende da qui l'ineludibilità di specifiche e dettagliate allegazioni sul punto, allo scopo di scongiurare il rischio di una trasformazione della tutela d'urgenza in una forma ordinaria di impugnativa.

La decisione del Tribunale di Alessandria si colloca dunque in un filone interpretativo piuttosto nutrito e venutosi a creare in riferimento a fattispecie del tutto sovrapponibili. La scelta così operata sembra del resto da porre – comprensibilmente – in correlazione con l'indubbia peculiarità del caso concreto, contraddistinto dal passaggio di un lasso di tempo non breve tra la sospensione lavorativa e l'incardinamento dell'azione giudiziaria: un aspetto difficilmente compatibile con la lamentata rovina economica che il provvedimento datoriale avrebbe cagionato.

Purtroppo, il carattere assorbente rivestito dalla mancata ricorrenza di un effettivo periculum in mora ha impedito al Giudice del lavoro di esprimersi sull'ancora più spinoso tema del fumus boni iuris. In particolare, sarebbe stato interessante apprezzare il punto di vista del Tribunale in merito alla rilevanza del procedimento di verifica dello stato vaccinale dei lavoratori dell'area sanitaria dettato dall'art. 4 del D.L. n. 44 del 2021. Su tale campo, infatti, si fronteggiavano le diverse argomentazioni delle parti; nel caso portato all'attenzione del Tribunale di Alessandria, in altre parole, non era messa in discussione la legittimità costituzionale dell'obbligo vaccinale, come peraltro si è tentato di fare in molte altre controversie instauratesi a seguito dell'entrata in vigore del D.L. testé richiamato.

Vero è che i due piani, astrattamente separati tra loro, appaiono suscettibili di confondersi nella prassi applicativa.

La già citata ordinanza del Tribunale di Roma osserva in proposito come l'art. 4 del D.L. n. 44 del 2021 qualifica in maniera duplice la vaccinazione in parola, quale cioè obbligo al fine di tutelare la salute pubblica e, al contempo, requisito essenziale per lo svolgimento di determinate attività, ritenute bisognose di essere svolte in un ambiente caratterizzato da standard di sicurezza ulteriormente elevati. Di qui ne discende la sussunzione della vaccinazione nel novero delle misure che l'imprenditore è tenuto ad adottare per l'adempimento degli obblighi di cui all'art. 2087 c.c. A fronte di questo pressante invito all'azione (e cioè, fuor di metafora, ad estromettere dall'organizzazione produttiva il lavoratore di cui sia noto lo status di non vaccinato), il farraginoso procedimento regolato dalla medesima norma mette la parte datoriale in una posizione assai scomoda. Infatti, ove si intenda prescegliere l'esegesi per cui l'osservanza della procedura in parola è prevista a pena di illegittimità dei successivi atti datoriali (come, in giurisprudenza, sostiene la sentenza del Tribunale di Milano, 15 settembre 2021, n. 2135), si dovrebbe anche ammettere che la correttezza delle decisioni datoriali possa essere condizionata alla tempestività dell'operato di un terzo soggetto: l'ASL territoriale cui sono demandate le verifiche in merito all'adempimento dell'obbligo vaccinale. Per dirla altrimenti, proprio sul datore di lavoro finiscono per scaricarsi gli effetti del delicatissimo bilanciamento di interessi di pari valore costituzionale che il succitato Decreto Legge ha tentato di impostare.

Non sembra però inutile ricordare come l'approccio impiegato dal Legislatore nella stesura del citato testo normativo sia stato improntato a grande misura, escludendo il rilievo disciplinare del rifiuto della vaccinazione e garantendo, in tal modo, la conservazione del posto di lavoro. Il che conduce ad apprezzare – ed a proporre come chiosa – il passaggio di una recentissima pronunzia del Consiglio di Stato (la n. 583, del 4 febbraio 2022, della Sez. III), a mente del quale “il diritto all'autodeterminazione di quanti abbiano deciso di non vaccinarsi è da ritenersi recessivo rispetto alla tutela di beni supremi, quale è la salute pubblica, specie in considerazione del fatto che il provvedimento di sospensione, ove adottato, non ha funzione sanzionatoria e non pregiudica in alcun modo il rapporto di lavoro”.

Guida all'approfondimento

Giurisprudenza:

Tribunale Catanzaro, sez. lav., ord. 17 dicembre 2021, in dejure.it

Tribunale Milano, sez. lav., ord. 30 ottobre 2021, n. 26276, in dejure.it

Tribunale Milano, sez. lav., sent. 15 settembre 2021, n. 2135, in dejure.it

Tribunale Roma, sez. lav., ord. 20 agosto 2021, n. 79834, in dejure.it

Tribunale Modena, sez. lav., ord. 23 luglio 2021, n. 2467, in dejure.it

Dottrina:

BIASI, MARCO, Ancora sul personale socio-sanitario renitente al vaccino anti-Covid: la legittimità della sospensione senza retribuzione disposta anteriormente al d.l. n. 44/2021, in Dir. Rel. Indust., 2021, pp. 1149 ss.

LOVO, MARCO, Rifiuto del vaccino anti-Covid 19: quali conseguenze sul rapporto di lavoro?, in Riv. It. Dir. Lav., 2021, pp. 591 ss.

NANNETTI, CAMILLA, Obbligo vaccinale e conseguenze sul rapporto di lavoro in caso di rifiuto del lavoratore pre e post d.l. 44/2021, ilGiuslavorista

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