Tenuità anche per la bancarotta semplice, con un occhio al danno patrimoniale

01 Marzo 2022

Nel valutare l'eventuale tenuità del fatto di una condotta di bancarotta semplice documentale, il primo elemento che il giudice deve considerare è l'esistenza ed il quantum del danno patrimoniale conseguente al fatto, determinato nella quota di attivo oggetto di riparto tra i creditori, danno da ricostruire in relazione all'impossibilità di ricostruire totalmente o parzialmente la situazione contabile dell'impresa fallita o di esercitare le azioni revocatorie o altre azioni a tutela dei creditori, sia in relazione alla diminuzione che all'omessa tenuta dei libri contabili. Tuttavia, questa valutazione circa il danno patrimoniale derivante dal fatto di bancarotta, non risolve ex se la questione dell'applicazione della causa di non punibilità, che invece postula, necessariamente, ai sensi dell'art. 133, comma 1, c.p., un apprezzamento complessivo, anche se ciò non impone al giudice di procedere alla disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti dagli artt. 131 bis e 133 c.p.¬, ben potendo limitarsi ad indicare quelli reputati rilevanti per la sua decisione, purché dia conto, con adeguata motivazione, delle ragioni ritenute preponderanti nel giudizio sulla tenuità dell'offesa.
Massima

Nel valutare l'eventuale tenuità del fatto di una condotta di bancarotta semplice documentale, il primo elemento che il giudice deve considerare è l'esistenza ed il quantum del danno patrimoniale conseguente al fatto, determinato nella quota di attivo oggetto di riparto tra i creditori, danno da ricostruire in relazione all'impossibilità di ricostruire totalmente o parzialmente la situazione contabile dell'impresa fallita o di esercitare le azioni revocatorie o altre azioni a tutela dei creditori, sia in relazione alla diminuzione che all'omessa tenuta dei libri contabili.

Tuttavia, questa valutazione circa il danno patrimoniale derivante dal fatto di bancarotta, non risolve ex se la questione dell'applicazione della causa di non punibilità, che invece postula, necessariamente, ai sensi dell'art. 133, comma 1, c.p., un apprezzamento complessivo, anche se ciò non impone al giudice di procedere alla disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti dagli artt. 131 bis e 133 c.p., ben potendo limitarsi ad indicare quelli reputati rilevanti per la sua decisione, purché dia conto, con adeguata motivazione, delle ragioni ritenute preponderanti nel giudizio sulla tenuità dell'offesa.

Il caso

Un imprenditore veniva condannato per il reato di cui all'art. 217, comma 2, l.fall., così qualificato il fatto originariamente al medesimo ascritto ex art. 216, comma 1, n. 2, l.fall. in riferimento alla tenuta della contabilità di una società dichiarata fallita il 20 marzo 2014 e della quale il medesimo era stato amministratore dal 10 maggio 2010. Parte della contabilità dell'impresa (registro cespiti ammortizzabili, registro dei corrispettivi e libro unico) non era stata consegnata al curatore, mentre le restanti scritture (libro inventari e libro giornale) erano risultate tenute in maniera inattendibile, tanto da impedire la ricostruzione del patrimonio della fallita.

All'imputato era stato, altresì, contestato di non aver assunto iniziative finalizzate a ripianare le perdite, né di aver posto in liquidazione o richiesto il fallimento della società, pur a fronte dell'erosione del capitale sociale sin dal 2010, in tal guisa aggravandone il dissesto. Con riferimento ad entrambe le imputazioni era stata esclusa l'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p.

Proprio in relazione a tale profilo si appuntano le censure difensive avanzate in sede di ricorso per cassazione. A prescindere da alcune considerazioni – giudicate infondate dalla Cassazione – intese ad escludere la responsabilità dell'imputato per i due illeciti contestatigli, la difesa riteneva non corretto il diniego dell'applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, per avere la Corte territoriale reputato «l'impossibilità di valutare l'entità dell'offesa arrecata a causa dell'omessa regolare tenuta delle scritture contabili» con motivazione illogica, in quanto l'entità del danno è costituita dal passivo fallimentare e non è necessariamente ricavabile dalle scritture contabili, sottovalutando le modalità della condotta, il contributo causale marginale prestato dal ricorrente e la non attribuibilità a questi della consistenza del passivo.

La questione

Il delitto di bancarotta è punito dagli artt. 217, comma 2, e 224, comma 1, l.fall. ,con riferimento alle condotte tenute, rispettivamente, dall'imprenditore individuale o da amministratori, sindaci, liquidatori e direttori generali di società.

In entrambi i casi è punita l'omessa o irregolare o incompleta tenuta della contabilità (imposta dagli artt. 2214 ss. c.c.) senza richiedere prova che la condotta abbia cagionato un pregiudizio effettivo, trattandosi di un reato di mero pericolo, volendosi evitare che vi siano ostacoli all'attività di ricostruzione del patrimonio e dei movimenti di affari della società da parte degli organi fallimentari, con possibile pregiudizio degli interessi dei creditori (Cass., sez. V, 18 maggio 2016, n. 20695): la finalità ultima della norma è, quindi, quella di consentire ai creditori l'esatta conoscenza della consistenza del patrimonio del fallito sul quale potersi soddisfare (Cass., sez. V, 9 febbraio 2016, n. 5246, secondo cui con riferimento al libro inventari, si ritiene che commetta il reato di bancarotta semplice documentale l'imprenditore che tenga in modo sintetico il libro degli inventari, in modo tale da non esprimere in maniera analitica i singoli elementi patrimoniali, rendendo necessario, ai fini della loro ricostruzione, il ricorso al libro giornale ed al mastro dei conti, e ciò in quanto il reato di bancarotta documentale semplice è reato di pericolo presunto che si consuma in presenza di un mero inadempimento di un precetto formale, non essendo necessario che si verifichi in concreto un danno per i creditori né che le irregolarità rendano incomprensibile la contabilità).

Non occorre che la ricostruzione sia impossibile, per cui il reato è ravvisabile anche allorquando si può ovviare alle lacune annotative mediante altre tracce contabili tenute dall'imprenditore (ad es. il corredo fiscale, non trattandosi di reato di evento, ma di violazione formale della disposizione sulla contabilità).

La condotta deve collocarsi entro il triennio antecedente al fallimento: nel caso di cessione dell'azienda, responsabile deve ritenersi l'autore del fatto, ove sia dichiarato di poi fallito, con la precisazione che la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili non deve protrarsi per l'intero triennio precedente alla dichiarazione di fallimento, sussistendo il reato anche se tale condotta venga tenuta, durante il periodo di tempo indicato, per un arco temporale inferiore ai tre anni (Cass., sez. V, 4 maggio 2018, n. 19352).

La cessazione dell'attività comunque non esclude l'obbligo della tenuta della regolare contabilità, anche se manchino passività insolute, se non formalizzata con la cancellazione dal registro delle imprese: soltanto con questo adempimento si può dire esaurito l'obbligo di tenere le scritture contabili.

Oggetto materiale del reato sono soltanto le scritture prescritte dalla legge (Cass., sez. V, 3 aprile 2020, n. 11315), ossia (a differenza che per l'art. 216, n. 2, l. fall.) ogni scrittura obbligatoria ex art. 2214 c.c., corredo che non può essere sostituito da eventuali scritture facoltative (come quelle con finalità fiscale, contributiva, ecc.).

Non sono, quindi, oggetto del reato (secondo giurisprudenza prevalente) le scritture obbligatorie per la normativa fiscale, per le quali provvede l'apposita normativa.

La condotta può essere sorretta da dolo (generico) o da colpa (Cass., sez. V, 14 ottobre 2021, n. 37453), salvo che sia provata una specifica intenzionalità finalizzata ad impedire la ricostruzione del movimento degli affari, caso in cui ricorre la fattispecie dell'art. 216, n. 2, l. fall. (Cass., sez. V, 20 dicembre 2005, n. 9572); anzi si deve precisare che l'omessa tenuta della contabilità interna integra gli estremi del reato di bancarotta documentale fraudolenta - e non quello di bancarotta semplice - qualora si accerti che scopo dell'omissione sia quello di recare pregiudizio ai creditori.

Considerato il fondamento anche colposo del reato, la delega a terzi (professionisti, contabili) della tenuta delle scritture non fa venire meno la responsabilità dell'imprenditore: il suo contenuto, tuttavia, muta e la colpa risiede nella inidoneità della scelta della persona deputata alla tenuta e nella mancata vigilanza sul suo operato.

Quanto alla rilevanza dell'errore sugli obblighi contabili dettati dalla normativa civilistica, la dottrina maggioritaria qualifica lo stesso come errore su legge extrapenale integrativa del precetto penale, ai sensi dell'art. 5 c.p., con conseguente irrilevanza dello stesso ai fini dell'esclusione del fatto punibile. Tuttavia, in dottrina alcuni autori fanno riferimento anche all'errore sul fatto ai sensi dell'art. 47 c.p., nel senso che, essendo l'individuazione delle scritture relativamente obbligatorie connessa alla natura ed alla dimensione dell'impresa, potrebbe ammettersi un errore di valutazione in ordine a tali parametri ed alla conseguente necessità della tenuta delle scritture.

Nessuna rilevanza ha invece, ai fini dell'insussistenza del reato, la circostanza che la società tenga la contabilità in forma semplificata.

Infatti, il regime tributario di contabilità semplificata, previsto per le cosiddette imprese minori, non comporta l'esonero dall'obbligo di tenuta dei libri e delle scritture contabili previsto dall'art. 2214 c.c., con la conseguenza che il suo inadempimento può integrare - ove preordinato a rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio dell'imprenditore - la fattispecie incriminatrice del reato di bancarotta documentale (Cass., sez. V, 19 settembre 2017, n. 42759). Parimenti, la riconosciuta punibilità del reato di bancarotta semplice anche a titolo di colpa rende irrilevante la circostanza che il fallito si sia in ipotesi mantenuto estraneo alla gestione della contabilità aziendale.

È ius receptum nella giurisprudenza di legittimità, infatti, che sull'imprenditore individuale o sull'amministratore di società incombe personalmente, a norma degli artt. 2214 e 2241 c.c., l'obbligo di curare la regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili, essendo egli il custode e il garante della loro integrità e genuinità ovvero quello di controllarne la gestione ancorché tale incombenza sia affidata ad un tecnico specializzato (Cass., sez. V, 21 luglio 2020, n. 21796).

Si tratta, in effetti, di un dovere funzionale alla salvaguardia dell'interesse alla precisa ed agevole ricostruzione del patrimonio e del movimento di affari dell'impresa, che, pertanto, sottintende la necessità che il titolare di tale obbligo conosca le norme che regolano la tenuta dei detti libri e scritture. Da tali condivisibili principi deriva, quindi, che all'imprenditore individuale o collettivo non giova ad evitare la affermazione di responsabilità per il delitto di bancarotta documentale l'addurre di avere affidato l'incarico di tenuta delle scritture contabili ad un professionista e di non avere le competenze per controllarne l'operato, poiché, sul tema, si è ricorrentemente statuito che la colpa dell'imprenditore è ravvisabile anche quando egli abbia affidato a soggetti estranei all'amministrazione dell'azienda la tenuta delle scritture e dei libri contabili, perché su di lui grava, oltre all'onere di un'oculata scelta del professionista incaricato - cui è connessa l'eventuale culpa in eligendo -, anche quello di controllarne l'operato, cui consegue in caso di inottemperanza, il rimprovero per culpa in vigilando.

Quanto alla differenza rispetto alla bancarotta documentale, secondo la giurisprudenza nella bancarotta documentale semplice rileva l'aspetto meramente formale dell'omessa o irregolare o incompleta tenuta delle scritture contabili obbligatorie per legge, mentre nella bancarotta fraudolenta rileva un profilo sostanziale, atteso che, da un lato, l'illiceità della condotta non è circoscritta alle sole scritture obbligatorie per legge, riguardando tutti i libri e scritture contabili genericamente intesi (Cass., sez. V, 7 gennaio 2021, n. 323), e, dall'altro, è richiesto il requisito dell'impedimento della ricostruzione del volume d'affari o del patrimonio del fallito, per cui è estraneo al fatto tipico descritto dell'art. 217 l. fall., comma 2, l'impedimento della ricostruzione del volume d'affari o del patrimonio del fallito, evento che invece caratterizza una delle fattispecie alternativamente integranti il diverso delitto di bancarotta fraudolenta documentale.

La decisione della Cassazione

Il ricorso è stato giudicato fondato, come accennato, con riferimento alla (o meglio in relazione alle ragioni per giustificare la) mancata applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto.

Dopo aver ricordato che in tema di bancarotta documentale, anche semplice, sussiste la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell'amministrazione dell'impresa fallita (cosiddetto "testa di legno"), atteso il diretto e personale obbligo dell'amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture (Cass., sez. V, 26 settembre 2018, n. 54490), obbligo, nel caso di specie, ritenuto - in luogo dell'originaria contestazione - solo colposamente inosservato proprio alla luce dei rapporti correnti con l'amministratore di fatto che, tuttavia, non esonerano l'amministratore formale dagli obblighi previsti a suo carico dal codice civile, né escludono ex se la generica rappresentazione delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell'amministratore di fatto (Cass., Sez. V, 24 settembre 2020, n. 32413), la Cassazione ritiene non adeguatamente motivato il diniego della causa di non punibilità.

In primo luogo, la Cassazione ricorda come, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131 bis c.p., il giudizio sulla tenuità richieda una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, comma 1, c.p. , delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo (Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 13681). In tal senso, si è rimarcata l'esigenza di una ponderata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie, in quanto è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore; «qualunque reato, anche l'omicidio, può essere tenue, come quando la condotta illecita conduce ad abbreviare la vita solo di poco» (Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2016, n. 13681).

Siffatta valutazione deve esprimersi attraverso adeguata motivazione.

Il giudice è, invero, tenuto a motivare sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l'entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, essendo insufficiente il richiamo a mere clausole di stile (Cass., sez. VI, 20 dicembre 2018, n. 18180) è invece necessario lo scrutinio delle specifiche circostanze emerse nel procedimento. Né - al di fuori dei limiti edittali previsti dall'art. 131-bis cod. pen. - sono ammissibili preclusioni legate al tipo di reato, come si evince anche dalla trama argomentativa delle decisioni della Corte costituzionale (sentenza n. 207 del 2017, sentenza n. 156 del 2000, sentenza n. 30 del 2021), che hanno ribadito, in aderenza al diritto vivente, la necessità di una valutazione complessiva di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, a norma dell'art. 133, comma 1, c.p., incluse quindi le modalità della condotta e il grado della colpevolezza, e non solo dell'entità dell'aggressione del bene giuridico protetto.

In altri termini, la Cassazione ribadisce che preclusioni legate, in astratto, alla struttura del reato non trovano ragionevole giustificazione nell'ambito di una valutazione tutta incentrata sull'offensività, in concreto, al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice e sull'effettiva manifestazione del reato, nelle sue componenti oggettiva e soggettiva, delle quali l'esiguità del danno o del pericolo costituisce solo uno dei parametri del complessivo apprezzamento di tenuità.

La parte finale della decisione è poi dedicata all'esame di un profilo specifico del delitto di bancarotta documentale semplice, la cui valutazione può incidere in termini assolutamente significativi sulla decisione della concessione del beneficio della particolare tenuità.

I delitti di bancarotta, infatti, al di là dell'individuazione del bene giuridico alla cui tutela sono diretti, hanno una innegabile proiezione economica, essendo in ultima istanza diretti alla tutela degli interessi patrimoniali dei creditori dell'impresa fallita; di conseguenza, l'accertamento relativamente al danno patrimoniale che sia conseguito (o meglio causato) dalla cattiva tenuta della contabilità è elemento fondamentale nel giudizio di cui all'art. 131-bis c.p.p..

Anche su questo punto, secondo la Cassazione, i giudici di merito hanno assunto determinazioni errate, non adeguandosi alla elaborazione giurisprudenziale in tema di danno nell'ambito del reato di bancarotta documentale.

La Corte di legittimità, infatti, anche di recente ha affermato con riferimento alla bancarotta semplice documentale che il danno di speciale tenuità di cui alla circostanza attenuante prevista dall'art. 219, comma 3, l. fall., è quello cagionato dal fatto di reato globalmente considerato e non quello derivante dal passivo fallimentare, talché detto danno deve valutarsi sia in relazione all'impossibilità di ricostruire totalmente o parzialmente la situazione contabile dell'impresa fallita o di esercitare le azioni revocatorie o altre azioni a tutela dei creditori, sia in relazione alla diminuzione che l'omessa tenuta dei libri contabili abbia determinato nella quota di attivo oggetto di riparto tra i creditori (Cass., sez. V, 10 dicembre 2019, n. 11725).

Pertanto, il danno cagionato dai fatti di bancarotta semplice documentale può consistere nella impossibilità di ricostruire, totalmente o parzialmente, la situazione contabile dell'impresa fallita o di esercitare le azioni revocatorie o altre azioni a tutela dei creditori, ovvero dalla diminuzione che l'omessa tenuta dei libri contabili ha determinato nella quota di attivo da ripartirsi fra i creditori; se il danno causato dall'omissione è di speciale tenuità o, addirittura, non sussiste, il giudice deve concedere l'attenuante di cui all'art. 219 – con affermazione, peraltro, che vale con riferimento ad ogni tipo di reato di bancarotta, patrimoniale o documentale, fraudolenta o semplice.

La valutazione dell'esistenza e dell'entità del danno risulta, dunque, anche nelle fattispecie fallimentari documentali necessariamente ancorata alla specifica valutazione di dati obiettivi, evincibili dall'istruttoria dibattimentale e dalle allegazioni delle parti.

Una diversa interpretazione, astrattamente correlata al tipo, finirebbe, del tutto irragionevolmente, per escludere l'applicabilità dell'attenuante in parola e, più in generale, delle circostanze correlate alla dimensione del danno cagionato dal reato.

Siffatti principi, secondo la Cassazione, devono orientare l'interprete anche per la valutazione del danno previsto, quale indicatore che concorre alla definizione di speciale tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., ed anzi si appalesano del tutto in linea con la necessaria verifica, globale e di contesto, che l'applicazione della speciale causa di non punibilità involge.

Anche ai predetti fini, in tema di bancarotta documentale la nozione di danno è limitata al pregiudizio cagionato dal fatto di reato globalmente considerato, da valutarsi sia in relazione all'impossibilità di ricostruire, totalmente o parzialmente, la situazione contabile dell'impresa fallita o di esercitare le azioni revocatorie o altre azioni a tutela dei creditori, sia in relazione alla diminuzione che l'omessa tenuta dei libri contabili abbia determinato nella quota di attivo oggetto di riparto tra i creditori.

Nel caso di specie, nell'escludere la particolare tenuità del fatto, la Corte territoriale ha, sostanzialmente, abdicato alla verifica del danno, specificando che «...l'impossibilità di accertare il volume di affari della società, conseguente alla mancata ed irregolare tenuta della contabilità, impediscono di giudicare l'offesa arrecata ai creditori ed al fisco in termini di particolare tenuità, non essendo accertabile l'entità del danno cagionato per fatto addebitabile all'imputato».

In tal modo, il diniego della speciale causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto si rivela fondata su una valutazione del tutto astrattizzante, priva di alcun riferimento all'esito della prova quale, ad esempio, le insinuazioni al passivo risultanti dalla relazione del curatore, e, dunque, incentrata solo sul tipo di illecito penale. Né risulta da alcun punto della sentenza impugnata perché la ritenuta impossibilità di quantificazione del danno sia stata considerata assorbente rispetto agli ulteriori parametri declinati dall'art. 133 c.p. e, in particolare, alle modalità della condotta ed al grado della colpevolezza, pur in presenza di specifiche allegazioni difensive riguardo al ruolo svolto dall'imputato, già valorizzate al fine della qualificazione della fattispecie in forma colposa.

A quest'ultimo proposito, infatti, opportunamente, comunque, la Cassazione precisa che la valutazione circa il danno patrimoniale derivante dal fatto di bancarotta – operata secondo le modalità anzidette - non risolve ex se la questione dell'applicazione della causa di non punibilità, che invece postula, necessariamente, ai sensi dell'art. 133, comma 1, c.p., un apprezzamento complessivo.

Anche se il giudice non deve necessariamente procedere alla disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti dagli artt. 131-bis e 133 c.p., ben potendo limitarsi ad indicare quelli reputati rilevanti per la sua decisione (Cass., sez. VI, 8 novembre 2018, n. 55107), purché dia conto, con adeguata motivazione, delle ragioni ritenute preponderanti nel giudizio sulla tenuità dell'offesa.

Nel caso di specie, invece, la Corte è incorsa nel vizio di carenza della motivazione, avendo rappresentato un percorso giustificativo inadeguato a rappresentare il fondamento razionale, in concreto, della causa ritenuta ostativa e la sua reputata prevalenza rispetto agli ulteriori indicatori di cui all'art. 133 c.p. e non risulta esplicitato in che termini l'impossibilità di ricostruzione del volume degli affari, valorizzata per escludere la tenuità dell'offesa, sarebbe diversa, distinta ed ulteriore rispetto alla condotta tipica necessaria per integrare la fattispecie di reato.

Considerazioni conclusive

La sentenza della Cassazione presenta profili di conferma, rispetto alla ricostruzione della nozione di danno patrimoniale in caso di bancarotta.

E' infatti consolidato il principio che il danno in parola - considerato in sede di disciplina delle circostanze in materia fallimentare di cui ai commi 1 e 3 dell'art. 219 l.fall. - deve intendersi come "danno da reato" e, quindi, discendente dai fatti di bancarotta, non quale conseguenza del fallimento, salvo che per il contesto dell'art. 223, comma 2, n. 2, l. fall. in cui è censurato l'aver causato (con dolo o per effetto di operazioni dolose) il fallimento: per questi casi è il pregiudizio derivante, non già ad un singolo creditore, ma alla massa, dall'avvio della procedura concorsuale a commisurare il requisito delle circostanze in esame, cioè, per la bancarotta patrimoniale si allinea sul valore complessivo dei beni che sono stati sottratti all'esecuzione concorsuale (Cass., sez. V, 23 maggio 2016, n. 36816, anche con riguardo alla ricorrenza dell'attenuante dell'art. 219, ult. comma, citato).

Coerentemente a tale impostazione si è riconosciuto che la circostanza aggravante possa essere integrata anche in presenza di un danno derivante dal fatto di bancarotta che, pur essendo, in sé considerato, di rilevante gravità, rappresenti una frazione "non rilevante" del passivo globalmente considerato. La medesima affermazione, tuttavia, non può essere intesa nel senso che la circostanza aggravante sia configurabile in presenza di un fatto di bancarotta pur, in sé, di rilevante gravità quanto al valore dei beni sottratti all'esecuzione concorsuale, senza, tuttavia, che il pregiudizio in capo ai creditori, complessivamente considerato sia esso stesso di rilevante gravità: un'interpretazione del genere, invero, priverebbe la circostanza di cui all'art. 219, primo comma, I. fall. della sua connotazione di fattispecie di danno e non di pericolo (Cass., sez. V, 19 luglio 2018, n. 33880).

Stesse riflessioni, come peraltro evidenziato nella decisione, sono formulate con riguardo alla particolare tenuità del fatto di cui all'art. 219, comma 3, l. fall., relativamente alla quale la giurisprudenza richiama la diminuzione non percentuale, ma globale che il comportamento del fallito ha provocato alla massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto, ove non si fossero verificati gli illeciti, poiché la distrazione di beni di rilevante entità è idonea di per sé ad incidere, in misura consistente, sul riparto (Cass., sez. V, 4 marzo 2021, n. 8902), dovendosi considerare anche le dimensioni dell'impresa, il movimento degli affari e l'ammontare dell'attivo e del passivo. Con specifico riferimento alla bancarotta documentale semplice, ai fini della applicazione della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, non rileva l'ammontare del passivo, ma la differenza che la mancanza dei libri o delle scritture contabili ha determinato nella quota complessiva dell'attivo da ripartire tra i creditori, avendo riguardo al momento della consumazione del reato (Cass., sez. V, 11 agosto 2021, n. 31513)

Di contro, la decisione si pone in contrasto con due precedenti decisioni della stessa Cassazione, la quale ha negato che al reato di bancarotta semplice documentale possa applicarsi la causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., non potendosi negare la gravità di una condotta dell'imprenditore che non permette la ricostruzione della situazione patrimoniale e del movimento degli affari della società, anche in ragione del fatto che la carenza documentale può costituire un mezzo per celare la possibile destinazione extrasocietaria del patrimonio aziendale (Cass., sez. V, 4 maggio 2018, n. 19352. Più di recente, nello stesso senso, Cass., sez. V, 4 marzo 2021, n. 8902, secondo cui l'occultamento delle scritture contabili, rendendo impossibile la ricostruzione dei fatti di gestione dell'impresa fallita, impedisce la stessa dimostrazione del danno, onde la mancanza delle scritture non può essere utilizzata per presumere circostanze favorevoli all'imputato, salvo che le contenute dimensioni dell'impresa non rendano plausibile la determinazione di un danno particolarmente ridotto).

Va detto tuttavia che l'ultima massima sopra menzionata contrasta con altra decisione secondo cui la particolare tenuità del fatto di cui all'art. 219, comma 3, l.fall., deve essere valutata in relazione al danno causato alla massa creditoria in seguito all'incidenza che le condotte integranti il reato hanno avuto sulla possibilità di esercitare le azioni revocatorie e le altre azioni poste a tutela degli interessi creditori, per cui laddove manchi una prova di un danno causalmente collegato alla condotta tenuta, si è ritenuto che dovrebbe applicarsi sempre l'attenuante, salva la possibilità di valutare il peso del mancato esercizio delle azioni revocatorie, con la conseguenza che qualora tale danno non sussista o non sia dimostrato l'attenuante in questione deve essere applicata.

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