La Corte di cassazione e l'interpretazione del titolo esecutivo giudiziale

Mauro Di Marzio
08 Marzo 2022

Le Sezioni Unite hanno stabilito che è censurabile in cassazione per violazione di legge, in relazione all'art. 2909 c.c., l'interpretazione del titolo esecutivo giudiziale, inteso non più, come tradizionalmente avvenuto, come «fatto», bensì alla stregua di «valore giuridico».
Massima

È censurabile in cassazione per violazione di legge, in relazione all'art. 2909 c.c., l'interpretazione del titolo esecutivo data dal giudice in sede di opposizioni esecutive, ma il ricorrente è onerato della specifica indicazione sia del precetto sostanziale violato, sia della sede, nel giudicato, del precetto di cui si denuncia l'errata interpretazione e dell'eventuale elemento extratestuale, ritualmente acquisito nel giudizio di merito, che sia rilevante per l'interpretazione del giudicato.

Il caso

È di conforto, in un periodo difficile come quello che attraversiamo, poter dare una buona notizia agli avvocati che ci leggono: la buona notizia è che, grazie alle Sezioni Unite, contrariamente a quanto fino ad ora stabilmente ritenuto, potranno rivolgersi alla Corte di cassazione per ottenere da essa il sindacato sull'interpretazione dei titoli esecutivi già compiuta dal giudice dell'esecuzione o delle opposizioni esecutive; così le prospettive di lavoro aumentano un po', il che è senz'altro cosa buona, e poco male che la funzione della Corte di cassazione non ne venga propriamente esaltata; tanto, peggio di così…

La vicenda è questa. Un uomo si rivolge al giudice del lavoro perché sia dichiarato il suo diritto ad essere «iscritto nell'elenco nominativo dei lavoratori agricoli del Comune di Trinitapoli dell'anno 2007 per 156 giornate lavorative». Il giudice stabilisce che l'uomo ha diritto ad essere iscritto. Quest'ultimo intima allora all'Inps precetto finalizzato all'esecuzione della sentenza ottenuta. Scaduto il termine indicato in precetto, egli propone ricorso ai sensi dell'art. 612 c.p.c., che, in caso di esecuzione forzata di sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare, impone di chiedere, con ricorso al giudice dell'esecuzione, che siano determinate le modalità dell'esecuzione. L'Inps medio tempore provvede all'iscrizione. Il giudice dell'esecuzione dichiara quindi la cessazione della materia del contendere e l'estinzione della procedura e, quanto alle spese, ritenuto che la sentenza a monte recasse una pronuncia meramente dichiarativa, inidonea a fondare l'esecuzione ai sensi dell'art. 612 c.p.c., ne dispone la compensazione. Non pago, l'originario attore propone opposizione agli atti esecutivi, che il tribunale accoglie, reputando che il giudice dell'esecuzione avesse errato nel non sottoporre preventivamente alle parti la questione, rilevata d'ufficio, del carattere dichiarativo della sentenza a monte, sentenza che aveva invece natura di condanna: con il che l'Inps è condannato a pagare sia le spese dell'esecuzione, sia le spese dell'opposizione agli atti esecutivi. Ma l'Istituto non ci sta, e ricorre per cassazione, sostenendo che la sentenza posta in esecuzione aveva effettivamente natura dichiarativa, e che del tutto legittimamente il giudice dell'opposizione agli atti esecutivi ne aveva tenuto conto, ai soli fini, peraltro, dell'apprezzamento di motivi per la compensazione delle spese.

La questione

L'Inps, in ricorso, si dice consapevole dell'orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui l'interpretazione del titolo esecutivo non è cosa che si può chiedere alla Corte di cassazione: e coerentemente presenta il motivo come vizio motivazionale. La sezione cui il ricorso è assegnato lo rimette alle Sezioni Unite, ritenendo trattarsi di questione di massima di particolare importanza. E dunque viene chiesto alle Sezioni Unite: ma davvero non spetta alla Corte di cassazione interpretare il titolo esecutivo?

Le soluzioni giuridiche

Bastano tre parole innovatrici del legislatore, ed intere biblioteche divengono carta da macero, questo diceva, in tono amaramente ironico, un giurista del XIX secolo, a testimonianza del trionfo del giuspositivismo. Oggi che, inutile dire, il giuspositivismo è in pienissima crisi, non occorrono tre parole del legislatore, ne sono sufficienti due della Cassazione ― quantunque ripetute per diciotto volte, a mo' di sacro mantra, in ventisette pagine di sentenza ― per consegnare al secchio della spazzatura qualche decennio di costante giurisprudenza, e la pertinente letteratura. Le due parole sono: «valore giuridico». Il titolo esecutivo, per le Sezioni Unite, non è un «fatto». È un «valore giuridico».

Da sempre la Cassazione aveva ripetuto, viceversa, che, in sede di esecuzione, il provvedimento giudiziale passato in giudicato non rileva quale decisione della pregressa controversia, e non va inteso come momento terminale della funzione cognitiva del giudice, bensì come titolo esecutivo, e cioè come presupposto fattuale dell'esecuzione, ossia come condizione necessaria e sufficiente per procedere ad essa. Ergo, l'interpretazione del titolo esecutivo compiuta dal giudice dell'esecuzione o delle opposizioni esecutive, si risolve nell'apprezzamento di un fatto, come tale incensurabile in Cassazione se esente da vizi logici o giuridici (di recente, tra le innumerevoli, Cass. civ.,13 giugno 2018, n. 15538). Principio, questo, rimasto ben saldo pur dopo che la Corte di cassazione, nel 2001, aveva ammesso la rilevabilità officiosa del giudicato esterno.

Il perché di questo indirizzo, a volerne fare una ricostruzione «seria», richiederebbe forse anche più di ventisette pagine: e allora mi limiterò a dire, omettendo volontariamente di considerare i titoli stragiudiziali, che esso poggia sulla cesura che separa la giurisdizione dichiarativa da quella esecutiva: quando inizia l'esecuzione, che «non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile» (art. 474 c.p.c.), il film che ha condotto alla formazione del titolo esecutivo è finito, e sono già scorsi i credits, il diritto consacrato nel titolo non può essere rimesso in discussione. Il titolo cristallizza l'esito raggiunto dalla giurisdizione dichiarativa, e quell'esito così oggettivato è perciò stesso un «fatto».

Beh, oggi le Sezioni Unite ci dicono che no, il titolo esecutivo non è un fatto, è un «valore giuridico». Perché? In buona sostanza perché lo dico io. E dunque la Cassazione «ha il potere/dovere di interpretare il titolo esecutivo se il giudicato somministra il diritto sostanziale applicabile per l'accertamento del diritto della parte istante a procedere a esecuzione forzata o per l'accertamento della legittimità degli atti esecutivi». Con una coda che riguarda l'autosufficienza.

Osservazioni

In realtà, credo si possa dire che l'inizio della fine del titolo esecutivo come «fatto» risale a dieci anni fa, con Cass. civ., Sez. Un., 2 luglio 2012, nn. 11066 e 11067, quando fu affermato essere consentita l'interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato. Vuol dire questo. Il giudice della cognizione condanna ad esempio al pagamento di una somma che non si sa qual'è, e che non è neppure possibile ricostruire sulla base di un mero calcolo matematico. E allora che si fa? Le Sezioni Unite dicono che il giudice dell'esecuzione riprende in mano il fascicolo della fase di cognizione in modo da arrivare a capire che cosa voleva dire il provvedimento a monte, e qual è la somma che il soccombente deve pagare. Ecco: interpretazione extratestuale. Un indirizzo, questo, sicuramente criticabile per molte ragioni, ma soprattutto per una, ossia perché dice implicitamente ai giudici di merito: tirate via malamente, tanto poi si vedrà in sede esecutiva qual è la somma da corrispondere. E invece il giudice che tira via malamente non la dovrebbe passare liscia, bisognerebbe anzi affidarlo alle sapienti mani di Marsellus Wallace, quello di Pulp fiction: «I'ma call a coupla hard, pipe-hittin' niggers, who'll go to work on the homes here with a pair of pliers and a blow torch. You hear me talkin', hillbilly boy? I ain't through with you by a damn sight. I'ma get medieval on your ass».

Tuttavia quell'indirizzo aveva un pregio ed una specifica ragione pratica: l'inesorabile osservanza del principio di ragionevole durata del processo. Ma oggi? A che serve che al titolo esecutivo sia riconosciuta natura di «valore giuridico»? Serve a far funzionare meglio il processo? Piacerebbe, per rimanere a Pulp Fiction, a Mr. Wolf, «I solve problems»? Non vedo come.

Detto questo, aggiungo che dell'alternativa in sé stessa considerata, se il titolo esecutivo sia atto o «valore giuridico», alternativa che, per dirla con Mazzarella, si immerge fino al collo nella «teologia del titolo esecutivo», non mi interessa assolutamente nulla. La sentenza che commento mi sorprende per tutt'altro.

Per un verso vi è l'orgoglio a constatare quanta dottrina, dall'opera della nostra Corte di cassazione, come raggio di sol traluce in vetro. Il lettore non mancherà di analizzare con la massima attenzione le ventisette dotte pagine di questo monumento al sapere giuridico, ove tosto riconoscerà citazioni (implicite) da Salvatore Pugliatti, da Emilio Betti, da Hans Kelsen, da Enrico Tullio Liebman, dal Chiovenda, immancabile naturalmente, e finanche (questa esplicita) da Gottfried Wilhelm von Leibniz, una new entry per quanto ne so tra le citazioni contenute nelle nostre sentenze di legittimità, perfettamente lecita, per carità, posto che l'art. 118 disp. att. c.p.c. fa divieto di «ogni citazione di autori giuridici», mica di filosofi e matematici. Bene anche, nella sentenza in commento, l'assegnazione di voti in pagella: bocciato il Liebman (pare che Carnelutti, che gli si era opposto nella nota querelle se il titolo esecutivo fosse atto o documento, si sia dato alla pazza gioia nel paradiso dei giuristi); bocciato sonoramente il povero Kelsen, ma si sa che i normativisti se la passano malissimo in Cassazione; voti mai entusiastici ad alcuno.

I soliti critici distruttivi tireranno fuori la personale opinione di un tal Rordorf sul narcisismo del consigliere (Rordorf, Riflessioni sulla Relazione illustrativa del programma di gestione della Corte di Cassazione per l'anno 2021). Ma sarebbero critiche ingenerose. Il punto è un altro. Ce n'era proprio bisogno? E cioè, non potevamo più vivere senza dire che il titolo esecutivo è un «valore giuridico»? Segnalo che il ricorrente per cassazione, l'Inps, non aveva proprio posto il problema, ed anzi aveva formulato il motivo come vizio motivazionale. Ed aggiungo che la stessa sentenza, dopo aver ritenuto in apertura di «riqualificare» il motivo così proposto, osserva, a conclusione, che al risultato raggiunto ― in breve: aveva ragione il giudice dell'esecuzione e torto quello dell'opposizione agli atti, sicché all'attore non spettavano le spese del precetto ― ci si sarebbe potuti arrivare anche per la via tradizionale. Ma… allora?

Il carico di lavoro della Corte aumenta, questo è poco ma è sicuro, ed aumenta in controversie che arrivano per saltum, senza passare per l'appello, nelle quali non sembra che l'intervento della Cassazione, il cui compito è assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione del diritto oggettivo nazionale, abbia granché senso. Forse è questo che ha spinto le Sezioni Unite, nell'epilogo, a richiamare le strettoie dell'art. 366, in particolare n. 6, e cioè il vituperato principio di autosufficienza. Ma è richiamato a proposito il principio di autosufficienza, quando si discorre di violazione di legge? E può l'autosufficienza porre in secondo piano un cotale «valore giuridico»?

Si ha talvolta la sensazione che il nemico più pericoloso del funzionamento della giustizia civile, e della stessa Cassazione, sia la Cassazione. Ecco perché nel titolo c'è Nanni Moretti. Continuiamo così, facciamoci del male.

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