L'arresto in flagranza per tentato furto aggravato supera il vaglio della Corte costituzionale
08 Marzo 2022
Massima
Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 380, comma 2, lett. e) c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 13 e 3 Cost., dal Tribunale ordinario di Firenze. Il caso
Il Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 380, comma 2, lett. e), c.p.p., nella parte in cui prevede l'arresto obbligatorio di chi è colto in flagranza del delitto di tentato furto, quando ricorre la circostanza aggravante prevista dall'art. 625, comma 1, n. 2, prima ipotesi, c.p., salvo che ricorra la circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 4, c.p., per contrasto con gli artt. 13 e 3 Cost. La questione
Può il delitto di tentato furto aggravato per violenza sulle cose, pur in assenza dell'attenuante ex art. 62, comma 1, n. 4 c.p., integrare un'ipotesi di tale eccezionale gravità da giustificare la previsione dell'arresto obbligatorio? Per il giudice a quo, tenuto conto dei principi espressi dall'art. 13 Cost., la risposta deve essere negativa. Nella categoria dei delitti di furto, tentati o consumati, aggravati dalla violenza sulle cose, potrebbero rientrare anche fatti connotati da una gravità limitata, incapaci di generare alcun pericolo per l'incolumità delle persone e perciò estranei al novero di quei casi eccezionali di necessità ed urgenza indicati dalla legge che, ai sensi dell'art. 13, comma 3, Cost., possono giustificare l'adozione di provvedimenti provvisori restrittivi della libertà personale adottati dall'autorità di pubblica sicurezza.
È rispettoso della riserva di giurisdizione di cui all'art. 13 Cost. prescrivere l'obbligatorietà della misura dell'arresto nei casi in cui non sia possibile la sua conversione nella custodia cautelare in carcere? Anche su questo puntoil giudice a quo solleva dubbi di legittimità costituzionale, tenuto conto che, per effetto del combinato disposto degli artt. 56, 624 e 625, comma 1, n. 2, c.p., la pena massima applicabile per il tentato furto aggravato dalla violenza sulle cose è di anni quattro di reclusione, e dunque, in forza dell'art. 280, comma 2, c.p.p., neppure può essere disposta con riferimento ad esso la custodia cautelare in carcere, e ciò a conferma dell'assenza di un correlato particolare allarme sociale provocato dal delitto in esame.
Se la profonda diversità della gravità delle ipotizzabili fattispecie di furto aggravato dalla violenza sulle cose può considerarsi, secondo il giudice a quo, come manifestamente irragionevole, con violazione quindi anche dell'art. 3 Cost., una ulteriore ragione di contrasto della norma censurata con l'art. 3 Cost. è ravvisata in relazione all'eventualità in cui sia configurabile, per il tentato furto, la causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., prescrivendosi l'arresto obbligatorio da parte della polizia giudiziaria pur quando le modalità della condotta e l'esiguità del danno delineino una offesa di particolare tenuità. Le soluzioni giuridiche
Dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale con riferimento ad entrambi i parametri invocati, la Corte costituzionale sviluppa una motivazione che si incentra, in primo luogo, sulla ricostruzione delle direttrici del sindacato di legittimità costituzionale sulle restrizioni provvisorie consentite a norma dell'art. 13, comma 3, Cost. A tal fine, valorizza gli approdi consolidati a partire da due precedenti arresti nei quali emerge l'esigenza di una correlazione teleologica tra la necessità e l'urgenza giustificatrici della misura precautelare e la futura applicabilità di una misura cautelare personale. A tal fine, in particolare, rileva la sentenza n. 305/1996, che - pronunciando sulla questione di legittimità costituzionale relativa all'art. 189, comma 6, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), ove si consente l'arresto dell'utente della strada il quale, in caso di incidente, non presta l'assistenza occorrente alle persone che abbiano subito danno - ha chiarito che tale «misura precautelare provvisoria facoltativa […] può essere adottata solo sulla ragionevole prognosi di una sua trasformazione ope iudicis in una misura cautelare più stabile».
L'assunto trova ulteriore puntualizzazione nella successiva sentenza n. 223/2004 con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 5-quinquies, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), con cui si prevedeva l'arresto obbligatorio dello straniero colto nella flagranza della contravvenzione di cui all'art. 14, comma 5-ter, d.lgs. 286/1998, per essersi trattenuto senza giustificato motivo nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine del questore di lasciare il territorio nazionale entro il termine di cinque giorni. Qui emerge come sia da escludere che la restrizione provvisoria meramente «fine a se stessa» possa godere di alcuna copertura costituzionale; l'arresto in questione, infatti, non potrà mai trasformarsi in custodia cautelare in carcere, o in qualsiasi altra misura coercitiva, essendo previsto in relazione ad un reato contravvenzionale, sanzionato con una pena detentiva (da sei mesi a un anno) di gran lunga inferiore a quella per cui il codice di rito ammette la possibilità di disporre le predette misure.
Individuato nella potenziale proiezione cautelare il parametro di compatibilità costituzionale della restrizione provvisoria, è gioco forza per il Giudice delle leggi escludere la fondatezza delle questioni sollevate dal giudice a quo; da un lato, infatti, il reato di tentato furto aggravato dall'uso di violenza sulle cose (artt. 56 e 625, comma 1, n. 2, c.p.) è punito con la pena della reclusione pari nel massimo a quattro anni, e ad esso, pertanto, sono applicabili tutte le misure coercitive (art. 280, comma 1, c.p.p.), compresa quella degli arresti domiciliari (art. 274, comma 1, lett. c), c.p.p.), con esclusione, quindi, della sola custodia cautelare in carcere; dall'altro, riconosciuta la natura servente della misura precautelare in questione rispetto all'intervento cautere e correlativamente esclusa la manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della scelta legislativa, si riafferma il valore della discrezionalità legislativa nella determinazione dei casi eccezionali di necessità e di urgenza di cui all'art. 13, comma 3 Cost. e, di conseguenza, l'esistenza di un limite al sindacato di legittimità.
Si esclude, infine, la prospettata irragionevolezza della disposizione censurata, a mente della possibile operatività della causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 131-bis c.p. per chi sia imputato del delitto di tentato furto aggravato dalla violenza sulle cose, ove non ricorra l'attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 4, c.p. L'applicazione dell'esimente della tenuità del fatto – sottolinea la Corte costituzionale - «postula una valutazione complessiva e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, comma 1, c.p., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo; valutazione, questa, riservata al giudice della cognizione all'esito del relativo giudizio ed estranea ai profili che vengono in rilievo in sede di convalida dell'arresto e di successiva, eventuale applicazione di una misura cautelare coercitiva». Osservazioni
La disciplina dell'art. 380 c.p.p. relativa alle ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza, trova la sua genesi nella direttiva n. 32 della legge delega con la quale si condiziona l'insorgenza dell'obbligo della polizia giudiziaria di procedere all'adozione del relativo provvedimento provvisorio alla sorpresa in flagranza di «delitti consumati o tentati punibili con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti» o «di altri delitti predeterminati, avuto riguardo a speciali esigenze di tutela della collettività».
Da queste indicazioni nasce la costruzione di una norma in cui le fattispecie che rendono indefettibile l'intervento restrittivo risultano individuate sulla scorta di un duplice meccanismo di selezione legato al quantum di pena nel comma 1 ed alla dimensione offensiva della fattispecie nel comma 2 dell'art. 380 c.p.p.
Sotto il primo profilo, la selezione è stata effettuata sulla base della presunzione iuris et de iure circa la necessità e l'adeguatezza della misura precautelare nei casi in cui la condotta sia inquadrabile in una fattispecie delittuosa per la quale sia prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti.
La quantificazione si accompagna a due ulteriori parametri volti a circoscrivere l'operatività dell'istituto; da un lato, infatti, vi è l'elemento psicologico del reato, perché la formulazione della norma è chiara quando dispone che l'arresto è obbligatorio solo rispetto ai delitti non colposi, siano essi consumati o tentati; dall'altro, la congiunzione che lega l'indicazione edittale vale ad escludere dal campo di applicazione della norma quelle fattispecie in cui i predetti limiti non siano comminati congiuntamente e, dunque, i delitti puniti con pene minime inferiori a cinque anni, anche se il massimo edittale è uguale o superiore ai venti anni ovvero i delitti puniti con la pena minima uguale o superiore ai cinque anni di reclusione ma per i quali il massimo edittale è inferiore ai venti anni di reclusione.
Al contrario di quanto possa dirsi per il criterio quantitativo, la cui configurazione si deve ad un percorso sostanzialmente obbligato dalle indicazioni prospettate nella direttiva n. 32, il legislatore delegante ha concesso ampi spazi di manovra nell'individuazione degli «altri delitti predeterminati, avuto riguardo a speciali esigenze di tutela della collettività». È noto come quest'ultimo riferimento – che ha rappresentato il parametro per l'esercizio di quella che è stata correttamente definita in termini di «discrezionalità guidata» - sia stato tradotto dal legislatore a partire dagli insegnamenti prospettati sul punto dalla Corte costituzionale. Il Giudice delle leggi, infatti, investito della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 l. 22 maggio 1975, n. 152 (recante disposizioni a tutela dell'ordine pubblico), ha ritenuto che l'espressione «esigenza di tutela della collettività» acquisti significato precipuo in relazione a reati che hanno quali caratteristiche l'uso di armi o di altri mezzi di violenza contro le persone, la riferibilità ad organizzazioni criminali comuni e politiche, la direzione lesiva verso le condizioni di base della sicurezza collettiva e dell'ordine costituzionale.
È all'interno di questa cornice che, dunque, ha preso vita l'elencazione dei reati contemplati dall'art. 380, comma 2, c.p.p., la cui ragionevolezza, tuttavia, è stata a più riprese messa in discussione dalla dottrina che non ha mancato di evidenziare come alcuni dei delitti contemplati nell'art. 380, comma 2, c.p.p. non sembrano inquadrabili all'interno delle prescrizioni indicate dalla Corte costituzionale nella sentenza da ultimo menzionata ovvero, e questo è detto rispetto alle fattispecie di cui alle lett. e) ed f) della disposizione, non sembrano riconducibili alle esigenze di sicurezza collettiva. Quest'ultima conclusione è stata condivisa dalla Corte costituzionale laddove, con sentenza n. 54/1993 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 380, comma 2, lett. e) c.p.p., per eccesso di delega, nella parte in cui prevede l'arresto obbligatorio in flagranza per il delitto di furto aggravato ai sensi dell'art. 625, comma 1, n. 2, prima ipotesi, c.p., nel caso in cui ricorra l'attenuante prevista dall'art. 64, comma 1, n. 4, c.p. Si tratta di un precedente non ignorato né dal legislatore – che ha tradotto questa indicazione nel dettato normativo grazie alla legge 26 marzo 2001, n. 128, la quale ha previsto, in presenza dell'attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, che l'arresto perda il carattere dell'obbligatorietà – né dalla sentenza in esame che, al contrario, fa leva proprio sulla circostanza che ad essere estranea al criterio delle “speciali” esigenze di tutela della collettività dettato dal legislatore delegante sia la fattispecie del furto (consumato o tentato) aggravato dalla violenza sulle cose nella sola ipotesi in cui esso sia tale da comportare un danno di speciale tenuità (art. 62, comma 1, n. 4, c.p., o comunque quando sia di speciale tenuità l'evento dannoso o pericoloso nei delitti determinati da motivi di lucro.
La valorizzazione della discrezionalità del legislatore chiude il cerchio argomentativo.
Restano sul tappeto, tuttavia, le perplessità legate ai moventi di una azione normativa che da tempo - e inarrestabilmente - esprime la tendenza alla massimizzazione dello strumento precautelare per finalità deterrenti e di accelerazione dei tempi della giustizia, soprattutto nella prospettiva di una estensione dell'area del giudizio direttissimo. Perplessità che correlativamente si amplificano anche alla luce del considerevole incremento delle occasioni di ricorso al procedimento di convalida (art. 391 c.p.p.) che, oltretutto si nutre di una silenziosa accondiscendenza legislativa verso la progressiva erosione del concetto di flagranza.
La propensione all'incremento delle ipotesi che legittimano l'uso del potere precautelare, tuttavia, incide e non poco sugli equilibri del sistema; il congegno approntato a garanzia della libertà personale (art. 391 c.p.p.), infatti, si rivela carente soprattutto per quanto attiene al procedimento di applicazione di una misura cautelare. Questo – pur dopo la pronuncia con cui le Sezioni Unite hanno riconosciuto la sussistenza di un diritto alla conoscenza diretta dell'integralità degli elementi e degli atti posti a sostegno delle richieste del pubblico ministero (Cass. pen., Sez. Un., 30 settembre 2010, Gemeanu, in C.e.d. Cass., n. 247939) – continua a soffrire di una non trascurabile dequotazione del livello di tutela rispetto a quello assicurato dal iter ordinario perché - considerando la disciplina concernente i tempi ed i modi con cui il dominus è tenuto a mettere le carte a disposizione del contraddittorio (cfr., soprattutto l'art. 122 disp. att. c.p.p., nonché l'art. 390, comma 3-bis, c.p.p.), e dunque il fatto che, rispetto al supporto della domanda cautelare, prima dell'apertura dell'udienza è ben possibile che non vi sia stata discovery o vi sia stata solo una discovery parziale – le premesse cognitive per affrontare l'interrogatorio possono ancora precostituirsi, o precostituirsi nella loro interezza, solo in limine al compimento dell'atto.
Quello che, dunque, meriterebbe una riflessione da parte del Giudice delle leggi è se sia costituzionalmente accettabile la continua espansione di un settore in cui – per ragioni che paiono troppo spesso connesse solo alla volontà di offrire un efficace sedativo alla sensazione di insicurezza sociale – finiscono per marginalizzarsi le più elementari esigenze connesse all'esercizio del diritto di difesa, quasi che l'evidenza probatoria richiesta per l'adozione di una misura precautelare sia un fattore capace di depotenziare il valore della presunzione di non colpevolezza.
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