Liquidazione del compenso dell'avvocato: mutamento del rito e trattazione

09 Marzo 2022

Il focus affronta alcune peculiari questioni sul procedimento di liquidazione del compenso agli avvocati ex art. 14 del d.lgs. 150/2011.
Inquadramento

L'art. 3 d.lgs. 150/2011 (in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione)detta le disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito sommario di cognizione, prevedendo, al comma 1, che ad esse non si applicano i commi 2 e 3 dell'art. 702-ter c.p.c. In particolare, il comma 3 dell'art. 702-ter c.p.c. prevede la facoltà del giudice di procedere al mutamento del rito sommario in rito ordinario di cognizione, se le difese svolte dalle parti richiedono un'istruzione non sommaria.

Pertanto, quel controllo di concreta compatibilità della singola lite con le forme semplificate del rito, che nel procedimento sommario di cognizione facoltativo di cui agli artt. 702-bis ss. è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice, è sostituito, nel procedimento sommario obbligatorio disciplinato dall'art. 3 d.lgs. 150/2011, da una verifica, astratta ed irrevocabile, compiuta a monte dal legislatore sulla base delle caratteristiche riscontrate in alcune specie di controversie che hanno ad oggetto determinate specifiche materie.

Il mutamento del rito

Da quanto appena rilevato si evince, quindi, che nelle controversie di cui all'art. 14 d.lgs. 150/2011 (in materia di liquidazione del compenso di avvocato), soggette al rito sommario speciale, non è possibile disporre il passaggio al rito ordinario di cognizione, dovendo ritenersi obbligatoria la trattazione della causa con il predetto rito sommario speciale.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 65/2014, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 14, comma 2, d.lgs. 150/2011, nella parte in cui tali norme, in una controversia in materia di liquidazione di onorari di avvocato di cui all'art. 28 l. 794/1942, assoggettata dal predetto d.lgs. alla cognizione del giudice collegiale nelle forme del rito sommario di cognizione, non consentono, anche in ipotesi di contestazione dei fatti costitutivi del credito dedotto in giudizio e di conseguente ampliamento del thema decidendum, la conversione del rito sommario in rito ordinario, con conseguente declaratoria di inammissibilità del giudizio sommario ed onere per il creditore di reintrodurre il giudizio nelle forme ordinarie. Prescindendo dall'avvenuto superamento, ad opera di Cass. civ., sez. un., n. 4485/18, della distinzione tra controversie inerenti al solo quantum e cause estese anche all'an debeatur, resta il fatto che la Consulta ha ritenuto che non fossero stati violati i criteri della legge-delega, atteso che proprio quest'ultima prevedeva il principio della non convertibilità nel rito ordinario dei procedimenti da assoggettare al rito sommario, sicchè non poteva predisporsi una diversa regolamentazione per la sola ipotesi del procedimento di cui all'art. 14, a pena di creare una irragionevole eccezione alla tendenziale uniformità perseguita dal legislatore nell'opera di riduzione e semplificazione dei riti speciali.

La possibilità di procedere al mutamento del rito è, invece, prevista dall'art. 4, comma 1, d.lgs. n. 150/2011, secondo cui «quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza». Trattasi di una soluzione che presenta evidenti vantaggi di economia processuale e risulta conforme al principio di conservazione degli atti processuali, evitando declaratorie di inammissibilità (oltretutto, preludio di una successiva causa ordinaria di cognizione) o di separazione di cause.

Deve però rilevarsi che il comma 2 del medesimo art. 4 consente il mutamento del rito non oltre la prima udienza di comparizione delle parti, trascorsa la quale, analogamente a quanto avviene ai sensi dell'art. 38 c.p.c. in tema di rilevo dell'incompetenza del giudice adito, la causa va trattata e decisa con il rito originariamente prescelto, anche se errato, restando definitivamente radicato tale rito, anche in ordine, di conseguenza, alla composizione, eventualmente monocratica (anziché collegiale), dell'organo giudicante (Cass. civ., n. 9847/2020, n. 186/2020). Dalla circostanza della virtuale consolidabilità del rito erroneamente seguito dalle parti, sullo sfondo di differenze puramente di disciplina procedurale e non più di tecniche delle tutele, e dall'esigenza di circoscrivere al minimo l'incertezza interpretativa scaturisce, inoltre, la regola posta dal comma 5 dell'art. 4, che sancisce che gli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale si producano secondo le norme del rito applicato prima del mutamento, al fine di escludere in modo univoco l'efficacia retroattiva del provvedimento che dispone il mutamento medesimo.

La disciplina del mutamento del rito, operante per le controversie in materia di liquidazione del compenso di avvocato ex art. 14, si discosta, quindi, in modo significativo dalle analoghe norme contenute nel codice di procedura civile, le quali, per quanto attiene al mutamento del rito disciplinato dal rito del lavoro (artt. 426 e 427 c.p.c.), stabiliscono la possibilità di adottare anche in grado di appello il provvedimento di mutamento del rito (art. 439 c.p.c.), in ossequio ad un particolare favor per il rito del lavoro, utilizzato come strumento per la tutela di una parte processuale debole (il lavoratore), anche in considerazione della connessione, nel rapporto di lavoro, dei diritti del lavoratore con i diritti della personalità. A fronte di ciò, la fattispecie del mutamento del rito, da sommario di cognizione a ordinario, è, a sua volta, regolamentata dall'art. 702-ter c.p.c. in modo differente, prevedendosi la pronunzia di mutamento delle forme processuali in uno specifico momento del procedimento, ossia la prima udienza di comparizione delle parti, e non permettendola, sia pure implicitamente, in grado d'appello. Infatti, in quella differente fattispecie, in caso di mancato raccordo con le forme ordinarie in prime cure, vi sarà semplicemente un appello più aperto a nuove richieste istruttorie (art. 702-quater c.p.c.), ma non un mutamento del rito in senso proprio, come prescritto, tipicamente, nell'art. 439 c.p.c.

In caso di mutamento del rito, restano comunque ferme le preclusioni già verificatesi secondo le norme del rito prescelto e, pertanto, ad es., l'incompetenza per materia, per valore o per territorio inderogabile non può essere rilevata d'ufficio nella prima udienza successiva a detto mutamento, posto che tale meccanismo non comporta una regressione del processo ad una fase anteriore a quella già svoltasi, ma serve esclusivamente a consentire alle parti di adeguare le difese alle regole del rito da seguire (cfr., in tal senso, Cass. n. 13472/19, la quale ha escluso che, a fronte del mutamento di rito ex art. 4 cit., disposto in ordine ad un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo in materia di onorari di avvocato introdotto con citazione, sia possibile sollevare d'ufficio, nella prima udienza successiva a detto mutamento, la questione dell'incompetenza territoriale inderogabile - nella specie, in relazione al foro del consumatore - dovendosi ritenere la «prima udienza», rilevante ai fini dell'art. 38, comma 3, c.p.c., esaurita con il provvedimento di mutamento del rito).

In difetto di mutamento del rito, qualora il ricorrente abbia introdotto il giudizio con le forme del rito sommario ordinario, ex art. 702-bis c.p.c., piuttosto che con quelle del rito speciale, di cui all'art. 14 d.lgs. 150/2011, il provvedimento di primo grado deve essere impugnato con l'appello ai sensi dell'art. 702-quater c.p.c., non potendo essere proposto ricorso per cassazione per saltum se non nel caso di accordo delle parti, e ciò in ragione del consolidato principio di ultrattività del rito che - quale specificazione del più generale principio per cui l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell'apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione, anche implicita, dell'azione e del provvedimento compiuta dal giudice - trova fondamento nel fatto che il mutamento del rito con cui il processo è erroneamente iniziato compete esclusivamente al giudice (Cass. civ., n. 210/2019).

Inoltre, si è osservato che l'art. 4 cit. disciplina in via diretta soltanto l'ipotesi dell'instaurazione, mediante forme errate, di una controversia che dovrebbe essere trattata secondo uno dei riti semplificati previsti dal d.lgs. 150/2011; in altri termini, la disposizione non regola espressamente il caso (contrario) in cui venga instaurata, mediante uno dei riti semplificati, una controversia che non rientra nell'ambito di applicazione dello stesso d.lgs., qual è, ad esempio, la controversia avente ad oggetto la liquidazione del compenso dell'avvocato per prestazioni giudiziali penali.

In ordine a tale ultima ipotesi (ovvero a quelle ad essa equiparabili, come nel caso di prestazioni difensive rese in un processo amministrativo, anch'esse sottratte all'art. 14: cfr. Cass. S.U. n. 4485/18), una parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto che, non essendo possibile il mutamento del rito sommario di cognizione cd. speciale (ossia quello previsto dal d.lgs. n. 150/11), erroneamente instaurato, in quello ordinario di cognizione – posto che l'art. 3, comma 1, d.lgs. 150/2011 esclude l'applicabilità del comma 3 dell'art. 702-ter c.p.c., che disciplina per l'appunto il mutamento del rito sommario in rito ordinario di cognizione – la conseguenza sarebbe una declaratoria di inammissibilità della domanda giudiziale. Tale conclusione, nel caso in cui si tratti di opposizione a decreto ingiuntivo erroneamente instaurata con il rito sommario di cognizione cd. speciale, porterebbe a conseguenze irrimediabili per l'opponente, in quanto l'opposizione verrebbe dichiarata inammissibile ed il decreto ingiuntivo diverrebbe irrimediabilmente esecutivo.

In realtà, appare preferibile altra soluzione.

Deve, infatti, in primo luogo rilevarsi che il divieto di mutamento del rito, desumibile dal combinato disposto dell'art. 3, comma 1, d.lgs. 150/2011 e dell'art. 702-ter, comma 3, c.p.c., si riferisce testualmente alle «controversie disciplinate dal Capo III», ossia alle controversie assoggettate al rito sommario di cognizione speciale previsto per i procedimenti di cui agli artt. 14-30 d.lgs. 150/2011. Qualora, invece, l'avvocato, in relazione alla domanda di pagamento del proprio compenso per le prestazioni professionali rese in un processo penale, proponga, erroneamente, ricorso ex art. 14 d.lgs. 150/2011, non si tratterebbe di una delle «controversie disciplinate dal Capo III» (atteso che il rito speciale ex art. 14 cit. si riferisce alle sole prestazioni giudiziali civili ed a quelle stragiudiziali connesse alle prime), ragion per cui non opererebbe il divieto di mutamento del rito di cui alle predette norme. Tale divieto opera solo in relazione alle controversie disciplinate dal capo III del d.lgs. 150/2011 (tra cui quelle dell'art. 14) e che siano state correttamente instaurate con il rito sommario di cognizione cd. speciale, nel senso che tali controversie, introdotte con il rito speciale, devono essere trattate e decise con tale rito, senza possibilità del passaggio al rito ordinario, diversamente da quanto previsto dall'art. 702-ter, comma 3, c.p.c. per le cause trattabili con il rito sommario di cognizione cd. ordinario (ossia monocratico).

Ma, a parte tale prima considerazione, occorre considerare che l'inammissibilità della domanda giudiziale, perché erroneamente introdotta con il rito di cui all'art. 14 d.lgs. n. 150/11, non è prevista da alcuna norma e non risulta conforme ai principi generali processuali, posto che il nostro ordinamento - in ossequio alle esigenze di economia processuale e conservazione degli atti processuali, a loro volta espressione dei principi costituzionali del «giusto processo» e della «ragionevole durata del processo» ex art. 111 Cost. - tende a salvaguardare l'attività processuale già svolta e ad evitare pronunce in rito che favorirebbero la proliferazione dei giudizi (in ragione della riproposizione, ove possibile, delle domande giudiziali dichiarate inammissibili) ed allontanerebbero le parti dal raggiungimento di una statuizione di merito sull'insorta controversia.

E non si dubita in giurisprudenza che il mutamento del rito abbia proprio la finalità di consentire la conservazione degli atti già compiuti, salvaguardando il diritto delle parti di difendersi e l'esigenza che il processo giunga ad una decisione sul merito (in tal senso, Cass. civ., n. 16202/2013, secondo cui, peraltro, il mutamento del rito presuppone l'esistenza di due procedimenti a cognizione piena, tra i quali soltanto è possibile un fenomeno di conversione dell'uno nell'altro).

Il rito, però, non è requisito di validità della domanda giudiziale, sicchè l'errore in ordine allo stesso non può determinare la conclusione del processo con un provvedimento di rigetto per motivi di mera forma, ma dovrebbe comportare solo l'adozione, d'ufficio, di un provvedimento ordinatorio di mutamento del rito, che consenta al processo di pervenire ad una decisione di merito secondo il rito prescritto dalla legge. Pertanto, nel caso di incompatibilità del rito sommario di cognizione collegiale ex art. 14 cit. con la controversia instaurata (ad es., perché trattasi di prestazioni giudiziali penali), non dovrebbe dichiararsi l'inammissibilità della domanda, bensì procedersi al mutamento del rito, in quanto ad essere inammissibile, in sé per sé, non è la domanda, ma il rito con il quale la stessa è veicolata nel processo. E che il mutamento del rito sia principio generale dell'ordinamento è desumibile dal fatto che tale principio, previsto dall'art. 426 c.p.c. nelle controversie laburistiche e richiamato dall'art. 447-bis c.p.c. per quelle locatizie, viene applicato dalla giurisprudenza, al di fuori di esplicite previsioni normative, anche in altre fattispecie, come, ad es., nel caso in cui, avverso la cartella esattoriale, sia stato erroneamente proposto il giudizio di opposizione con le modalità del procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione anziché con il rito dell'opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. (in tale ipotesi, l'errore nella scelta del rito non costituisce di per sé motivo di inammissibilità della domanda, né di invalidità assoluta del giudizio, essendo il giudice tenuto, anche d'ufficio, a disporre la conversione del rito e a fissare un termine per l'eventuale integrazione dell'atto introduttivo: cfr. Cass. civ., n. 1089/2014, n. 10746/2012, n. 16471/2011), nonchè proprio nel caso di opposizione all'ingiunzione di pagamento degli onorari di avvocato, nel regime normativo anteriore al d.lgs. n. 150/11 (cfr. Cass. n. 3637/04, secondo cui, in mancanza dei presupposti per il ricorso al procedimento speciale di cui agli artt. 28 e 29 l. 794/1942, non può dichiararsi l'inammissibilità del ricorso in opposizione, ma il procedimento prosegue trasformandosi in un ordinario giudizio di cognizione; cfr. anche Cass. civ., n. 17053/2011, che, pur ritenendo non applicabile il mutamento del rito in tema di opposizione a decreto ingiuntivo per onorari di avvocato, afferma il principio generale per cui il mutamento del rito può avvenire solo tra due procedimenti a cognizione piena: ebbene, tale ipotesi si attaglia al caso in esame, posto che il procedimento sommario di cognizione ex art. 14 d.lgs. 150/2011 costituisce comunque giudizio a cognizione piena – cfr. Cass. civ., n. 1023/2019 - sicchè nulla osterebbe alla sua conversione in altro procedimento – ordinario o sommario di cognizione monocratico - anch'esso a cognizione piena). Anche più recentemente, la giurisprudenza di legittimità ha condivisibilmente sostenuto che sulle domande introdotte con il rito sommario di cognizione, ritenute dal giudice inammissibili in ragione di una rilevata «incompatibilità strutturale del rito sommario con l'oggetto della domanda», va disposto il mutamento del rito ai sensi dell'art. 702-ter, comma 3, c.p.c. e non dichiarata l'inammissibilità della domanda ai sensi dell'art. 702-ter, comma 2, c.p.c. (Cass. civ., n. 18331/2019).

Seguendo, allora, tale ultima impostazione, nell'esempio inizialmente formulato (domanda ex art. 14 d.lgs. 150/2011 per prestazioni giudiziali penali), la declaratoria non sarebbe d'inammissibilità, ma di mutamento del rito (non ex art. 4 d.lgs. 150/2011, che si riferisce all'ipotesi inversa, bensì in applicazione di un principio generale dell'ordinamento processuale ovvero in applicazione analogica dell'art. 427 c.p.c.), con fissazione dell'udienza ex art. 183 c.p.c. (in proposito, risulta interessante la recente Cass. civ., n. 13879/20, secondo cui le preclusioni maturate nel corso del procedimento sommario non si applicano al giudizio ordinario a cognizione piena che si instaura all'esito della conversione del rito, poiché l'art. 702-bis c.p.c. non dispone nulla al riguardo, mentre l'art. 702-ter c.p.c. prevede espressamente che il giudice, in seguito alla detta conversione, fissi l'udienza di cui all'art. 183 c.p.c., con conseguente necessità di osservare i termini ex artt. 163-bis, comma 1, e 166 c.p.c. a tutela del diritto di difesa del convenuto).

D'altra parte, anche nelle recenti pronunce della Consulta si è assistito ad una rilettura di alcune norme processuali nel senso di favorirne un'interpretazione che consentisse l'ampliamento dei limiti del meccanismo del mutamento del rito. In particolare, la Corte costituzionale, con sentenza n. 253/2020, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 702-ter, comma 2, ultimo periodo, c.p.c. nella parte in cui non prevede che, qualora con la domanda riconvenzionale sia proposta una causa pregiudiziale a quella oggetto del ricorso principale e la stessa rientri tra quelle in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, il giudice adito possa disporre il mutamento del rito fissando l'udienza di cui all'art. 183 c.p.c.

In definitiva, appare senz'altro preferibile l'opzione per il mutamento del rito anche in relazione alle controversie erroneamente introdotte con il rito speciale ex art. 14 cit., trattandosi di soluzione che consentirebbe, nelle cause di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dall'avvocato, di superare il rischio del passaggio in giudicato del provvedimento monitorio, divenuto esecutivo in conseguenza della declaratoria di inammissibilità dell'opposizione.

La negoziazione assistita

Il professionista che intenda recuperare il proprio credito deve osservare gli adempimenti relativi alla negoziazione assistita da uno o più avvocati, istituto introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento dal d.l. 132/2014, convertito nella l. 162/2014.

Tra le ipotesi per le quali l'art. 3, comma 1, d.l. 132/2014, prevede che una parte ha l'obbligo, a pena di improcedibilità della domanda giudiziale (non anche quindi della domanda introduttiva di un arbitrato), di invitare, tramite il proprio avvocato, l'altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita, vi è quella di chi intenda proporre in giudizio una domanda di pagamento, a qualsiasi titolo, di somme non eccedenti 50 mila euro, salvo che essa non trovi fondamento in uno dei rapporti per i quali è prevista la mediazione obbligatoria, o le procedure conciliative elencate dall'art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010. La norma riguarda anche le controversie proponibili dai professionisti, che di solito sono di importo pari od inferiore alla suddetta somma.

Occorre peraltro tener presente che lo stesso d.l. 132/2014 sottrae espressamente alcune tipologie di giudizi alla osservanza della condizione di procedibilità. In particolare, l'ultimo periodo dell'art. 3, comma 1, d.l. 132/2014 esclude l'applicazione della disciplina di cui ai periodi precedenti alle controversie concernenti obbligazioni contrattuali derivanti da contratti conclusi tra professionisti e consumatori. La ratio di questa previsione è stata indicata dallo stesso legislatore nella esigenza di osservare la direttiva Ue n. 11 del 21 maggio 2013 sulle ADR dei consumatori, recepita in Italia con il d.lgs. 130/2015.

Al fine di stabilire quando la controparte del professionista debba qualificarsi come consumatore occorre tener presente il consolidato orientamento della Cassazionesecondo il quale merita tale qualifica, e beneficia della disciplina di cui agli artt. 33 ss. d.lgs. 206/2005 e successive modifiche, la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività. Deve invece essere considerato «professionista» tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che invece utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale e professionale, ricomprendendosi in tale nozione anche gli atti posti in essere per uno scopo connesso all'esercizio dell'impresa (Cass. n. 12685/11; Cass. S.U. n. 7444/08; Cass. n. 4208/07). Tale interpretazione è conforme a quella della Corte di Giustizia, ribadita di recente con riguardo all'applicabilità della direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, ai contratti standard di servizi di assistenza legale (sentenza 15 gennaio 2015, n. C-537/13).

Il comma 7 dell'art. 3 cit. sottrae alla negoziazione assistita anche le cause in cui la parte può stare in giudizio personalmente. La ragione di tale esclusioneè facilmente individuabile nella volontà di estendere la facoltà riconosciuta alla parte nell'ambito del giudizio anche alla fase stragiudiziale, evitando una disparità di trattamento difficilmente giustificabile. Peraltro, la scelta è in palese contrastocon quella compiuta rispetto alla mediazione obbligatoria, atteso che il d.lgs. 28/2010 non contiene un'analoga disposizione. Per quanto attiene all'individuazione della tipologia delle controversie alle quali ha inteso far riferimento il legislatore, per quel che rileva in questa sede, si tratta di quelle, di competenza del giudice di pace, il cui valore non eccede i millecento euro (art. 82, comma 1, c.p.c.) e di quelle in materia di liquidazione di compensi di avvocato, previste dall'art. 14 d.lgs. 150/2011 (in questi termini si vedano: Trib. Verona 18 giugno 2015; Trib. Verona 2 ottobre 2015; Trib. Milano 14 ottobre 2015, tutte in www.ilcaso.it). Non vi rientrano invece le cause di cui all'art. 86 c.p.c., sia perché in esse l'avvocato è contemporaneamente parte e difensore, a differenza della parte che sta in giudizio personalmente (così Trib. Verona 18 giugno 2015 e Trib. Verona 2 ottobre 2015, cit.), sia perché, diversamente opinando, si verrebbe a riconoscere alla parte-avvocato un trattamento diverso e più favorevole di quello riservato alle parti che non abbiano la medesima qualità.

Sul punto occorre poi tener presente che la negoziazione assistita va comunque esperita dall'avvocato che, per recuperare il proprio credito nei confronti di un cliente o ex cliente che non sia consumatore, intenda utilizzare, in alternativa al procedimento sopra indicato, il giudizio sommario ordinario o il giudizio di cognizione, al di fuori cioè dell'ambito applicativo di cui all'art. 14 d.lgs. 150/2011, poiché in queste due tipologie di giudizi il debitore che intendesse difendersi dovrebbe necessariamente avvalersi dell'assistenza tecnica.

La giurisprudenza (Trib. Verona 30 ottobre 2015) ha anche esaminato il caso in cui il professionista (nella specie, un avvocato) faccia valere, nelle forme del giudizio ordinario (ove ammissibile), una pluralità di crediti, di importi che, anche se cumulati, siano inferiori a cinquantamila euro, nei confronti dell'ex cliente, per solo alcuni dei quali il secondo rivesta la qualità di consumatore. In tale ipotesi, si è ritenuto che la negoziazione assistita costituisca condizione di procedibilità della domanda di condanna, oggettivamente cumulata, rispetto alla quale il convenuto non può considerarsi consumatore. Ovviamente, sarà cura di chi ha l'obbligo di attivare la negoziazione estenderla anche alle altre sue pretese, che non vi sono soggette, al fine di perseguire un risultato conciliativo globale.

Infine, l'art. 3, comma 3, d.l. 132/2014 ripropone solo la prima parte del testo dell'art. 5, comma 4, lett. a, d.lgs. 28/2010, da ciò dovendosi desumere che la negoziazione assistita non costituisce condizione di procedibilità della domanda né nel procedimento monitorio né in quello di opposizione, e ciò nemmeno dopo la pronuncia dei provvedimenti interinali sulla concessione o sulla sospensione della provvisoria esecuzione.

Facoltà delle parti di stare in giudizio personalmente

Con riguardo alla possibilità delle parti di stare in giudizio personalmentenel giudizio di merito ex art. 14 d.lgs. 150/2011, si deve richiamare la giurisprudenza di legittimità formatasi con riferimento alla normativa previgente di cui alla l. 794/1942, secondo cui la disposizione dell'art. 29, comma 3, l. 794/1942 (ai sensi della quale, nelle cause aventi ad oggetto il pagamento del corrispettivo di prestazioni giudiziali civili a favore dell'avvocato da parte del proprio cliente, non è obbligatorio il ministero di difensore), riguardava tutte le attività successive all'introduzione del giudizio, mentre, in relazione all'atto introduttivo del giudizio medesimo, doveva ritenersi operante la disciplina ordinaria del patrocinio di cui all'art. 82 c.p.c.

In sintesi, secondo la normativa preesistente, così come interpretata dalla Suprema Corte, la possibilità di stare in giudizio in proprio non permetteva anche la redazione degli atti introduttivi, ossia:

1) il ricorso ex art. 28 l. 794/1942 (che comunque rientrava nelle facoltà del legale, ai sensi dell'art. 86 c.p.c.);

2) la memoria costitutiva nel procedimento ex art. 29 l. 794/1942;

3) l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo ex artt. 645 c.p.c. e 30 l. 794/1942.

Pertanto, la facoltà di stare in giudizio personalmente era stata riduttivamente limitata alla possibilità di interloquire nell'ambito del procedimento camerale introdotto dall'avvocato o nato per effetto dell'opposizione a decreto ingiuntivo (cfr. Cass. civ., n. 22463/10, Cass. civ., n. 850/2000).

Tali conclusioni dovrebbero trovare applicazione anche nel vigore della nuova disciplina di cui al d.lgs. 150/2011, tenuto conto che: a) il previgente art. 29, comma 3, l. 794/1942 disponeva: «Non è obbligatorio il ministero di difensore»; b) l'attuale art. 14, comma 3, d.lgs. 150/2011, dispone: «Nel giudizio di merito le parti possono stare in giudizio personalmente»; c) al di là della diversa espressione utilizzata dal legislatore, sembra evidente che nulla sia cambiato sul punto.

Pertanto, anche alla luce della nuova normativa di cui al d.lgs. 150/2011, la possibilità di stare in giudizio in proprio non dovrebbe consentire la redazione degli atti introduttivi. Tale soluzione appare tanto più condivisibile se si considera che il nuovo orientamento giurisprudenziale, inaugurato da Cass. civ., sez. un., n. 4485/2018, ha esteso l'ambito applicativo del rito speciale ex art. 14 anche alle controversie sull'an debeatur, in ordine alle quali – in ragione della verosimile maggiore complessità derivante dalla trattazione di questioni inerenti anche alla sussistenza del rapporto di patrocinio ed al corretto espletamento dello stesso – appare quanto mai opportuno che il cliente, al fine di vedere meglio tutelato il proprio diritto di difesa, sia tenuto ad avvalersi, almeno per l'atto introduttivo o di costituzione in giudizio, dell'assistenza tecnica di un legale.

Opposizione a decreto ingiuntivo

Le conclusioni alle quali le Sezioni Unite (sent. n. 4485/2018) sono giunte con riguardo al procedimento sommario promosso dall'avvocato ex art. 14 d.lgs. 150/2011 valgono anche per il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo in cui il cliente contesti non (solo) il quantum ma l'an del credito di controparte.

Le Sezioni Unite individuano anche la disciplina da applicarsi a tale tipo di giudizio, precisando che esso va introdotto con il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. (in tal senso, già Cass. civ., sez. un., n. 21675/2013) davanti allo stesso ufficio che ha emesso il decreto ingiuntivo, ed è regolato dalle norme del procedimento sommario speciale, compresa quella che stabilisce che va deciso con ordinanza inappellabile, anche se restano comunque applicabili gli artt. 648, 649 e 654 c.p.c.

Ai fini della tempestività, e quindi del rispetto del termine di cui all'art. 641 c.p.c., è sufficiente che l'opponente, entro il predetto termine, depositi il ricorso ex art. 702bis c.p.c., a prescindere dalla data di notifica dello stesso, registrandosi altrimenti una indebita compressione dei termini a difesa per la proposizione dell'opposizione. Tale conclusione trova il conforto della dottrina e della giurisprudenza che, nelle opposizioni a decreto ingiuntivo in materia soggetta al rito del lavoro (cfr., ex multis, Cass. civ., n. 11625/95) ed in materia di canoni di locazione retta dal rito locatizio ex art. 447-bis c.p.c., ritiene sufficiente, ai fini della tempestiva opposizione nel termine di cui all'art. 641 c.p.c., il deposito del ricorso in cancelleria entro il termine di 40 giorni dalla notificazione del decreto ingiuntivo (Cass. civ., n. 27343/2016; Cass. civ., n. 7263/2000).

Nel caso in cui il giudizio di opposizione sia introdotto per errore con atto di citazione, il comma 1 dell'art. 4 d.lgs. 150/2011, come già detto, prevede che il giudice debba disporre il mutamento del rito, e ciò vale anche per l'ipotesi in cui il giudizio sommario diretto alla condanna al pagamento del compenso sia introdotto dall'avvocato con citazione, anziché con ricorso ex art. 14.

Peraltro, tale errore non determina alcun effetto pregiudizievole per l'opponente in caso di tempestiva notifica della citazione (ossia nel termine di 40 giorni, a prescindere dalla data di costituzione dell'opponente), in base al comma 5 dell'art. 4, ai sensi del quale: «Gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento. Restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento» (principio che, secondo Cass. civ., n. 7696/21, si applica a tutti i casi di passaggio dal rito ordinario ad un rito speciale).

Di recente, si è infatti statuito che l'opposizione è da reputare utilmente esperita qualora la citazione sia stata comunque notificata entro il termine di quaranta giorni - di cui all'art. 641 c.p.c. - dal dì della notificazione dell'ingiunzione di pagamento: in tale evenienza, ai sensi dell'art. 4, comma 5, d.lgs. 150/2011, gli effetti sostanziali e processuali correlati alla proposizione dell'opposizione si producono alla stregua del rito tempestivamente attivato, ancorché erroneamente prescelto, per cui il giudice adito deve disporre con ordinanza il mutamento del rito, ai sensi dell'art. 4, comma 1, d.lgs. 150/2011 (Cass. civ., n. 23683/2021; Cass. civ., n. 24069/2019; Cass. civ., n. 12796/2019).

Trattazione e istruttoria

Il modello procedimentale del giudizio sommario di cognizione codicistico ex artt. 702-bis e ss c.p.c. è stato adattato alle particolarità dei procedimenti disciplinati dal d.lgs. 150/2011.

Infatti, l'art. 3, comma 2, prima parte, d.lgs. 150/2011, statuisce che nelle controversie alle quali viene esteso il rito semplificato, quando la causa è giudicata in primo grado in composizione collegiale (tribunale o corte d'appello), sia il presidente del collegio ad emettere il decreto di cui all'art. 702-bis, comma 3, c.p.c., che fissa l'udienza di comparizione delle parti, designando nello stesso atto il giudice relatore.

L'art. 3, comma 2, seconda parte, invece, attribuisce al presidente del collegio il potere di delegare l'assunzione dei mezzi istruttori (e, dunque, non la loro ammissione) ad uno dei componenti del collegio, che nella maggior parte dei casi coinciderà proprio con il giudice relatore. La norma ricalca quanto previsto dall'art. 702-quater c.p.c. nell'appello avverso l'ordinanza pronunciata all'esito del procedimento sommario di cognizione ordinario ed a quanto attualmente prevede l'art. 350, comma 1, c.p.c. (modificato dalla l. 183/2011) nell'appello avverso la sentenza pronunciata all'esito del giudizio ordinario di cognizione.

La norma consente dunque soltanto al presidente di delegare l'assunzione dei mezzi di prova ad un componente del collegio, il che può apparire incongruo, dovendo semmai essere il collegio ad adottare tale decisione; è ben vero che il provvedimento è ordinatorio, ma non sembra logico che un presidente in minoranza possa decidere per la delega o addirittura riservare a se stesso gli incombenti istruttori, tenuto conto che il giudice è il collegio.

Restano invece riservate alla competenza del collegio la trattazione, le decisioni sull'ammissibilità e rilevanza delle deduzioni istruttorie, le decisioni delle questioni preliminari e, ovviamente, la decisione definitiva della controversia. In senso contrario, tuttavia, deve rilevarsi che le Sezioni Unite, nella più volte richiamata sentenza n. 4485/2018 (cfr. pag. 6), hanno sostenuto che la competenza collegiale del tribunale, nel procedimento ex art. 14, rileverebbe solo sotto il profilo decisorio, analogamente a quanto previsto nelle ipotesi di competenza collegiale di cui all'art. 50-bis c.p.c., sicchè la trattazione della causa sarebbe monocratica. Trattasi di affermazione, resa come obiter dictum, che non appare condivisibile, in quanto in palese contrasto con le già richiamate previsioni del comma 2 dell'art. 3 d.lgs. 150/2011, da cui si desume che il collegio si costituisce ab origine, posto che il presidente dello stesso, con il decreto di comparizione delle parti, designa il relatore e, successivamente, può delegare l'assunzione dei mezzi istruttori ad uno dei componenti del collegio medesimo. E', quindi, evidente che la comparizione delle parti è disposta dinanzi al collegio fin dalla prima udienza e che, in mancanza di delega, l'attività istruttoria è espletata sempre dinanzi all'organo collegiale, che dunque provvede non solo a decidere la controversia, ma anche a trattare la stessa, diversamente da quanto accade nelle ipotesi di cui all'art. 50-bis c.p.c. Peraltro, che la trattazione, e non solo la decisione, sia collegiale è principio recentemente affermato da Cass. civ., n. 1023/19 (cfr. pag. 14 della relativa motivazione).

Non sono previste deroghe apportate in via generale alle regole dettate nell'art.702-bis c.p.c. in tema di: proposizione della domanda; contenuto del ricorso; formazione del fascicolo; designazione del giudice; convocazione delle parti all'udienza di comparizione; termini di notificazione e costituzione; contenuto della comparsa di risposta; decadenze e preclusioni; chiamata di terzo.

In particolare, in relazione alle decadenze e preclusioni della fase istruttoria, la giurisprudenza di legittimità, in relazione al procedimento sommario di cognizione monocratico, ossia quello ordinario di cui agli artt. 702-bis e ss c.p.c., ha recentemente sostenuto che, al pari che nel rito ordinario, ove non è prevista nessuna immediata decadenza per la mancata indicazione dei mezzi di prova negli atti introduttivi del giudizio, stante le ulteriori facoltà di deduzioni istruttorie consentite nella fase della trattazione, anche l'art. 702-bis c.p.c. non sancisce alcuna preclusione istruttoria, dovendosi al più argomentare sul piano logico che una compiuta articolazione probatoria, operata già in sede di ricorso e di comparsa di risposta, occorra perché il giudice possa consapevolmente adoperare in udienza l'eventuale potere di conversione del rito e di fissazione dell'udienza ex art. 183 c.p.c.

Questa scansione, collegata alla ponderazione dell'eventuale non sommarietà dell'istruzione, ai fini dell'art. 702-ter, comma 3, c.p.c., porta ad individuare (in maniera da non accedere alla tesi estrema, secondo cui attore e convenuto sono liberi di svolgere nuove attività, istanze e produzioni per l'intero corso del procedimento e sino a che la causa non passi in decisione) proprio nella pronuncia dell'ordinanza di mutamento del rito la barriera processuale che impedisce alle parti la formulazione di nuove richieste istruttorie (in tal senso, Cass. civ., n. 46/2021 e Cass. civ., n. 25547/2015).

Non può, in proposito, condividersi il diverso orientamento giurisprudenziale secondo cui la valutazione, da parte del giudice, della necessità di un'istruzione non sommaria, ai fini della conversione del rito, presuppone pur sempre che le parti – e in primo luogo il ricorrente – abbiano dedotto negli atti introduttivi tutte le istanze istruttorieche ritengano necessarie per adempiere all'onere probatorio ex art. 2967 c.c., non potendosi attribuire a tale decisione la funzione di rimetterle in termini per la formulazione delle deduzioni istruttorie, che siano state omesse o insufficientemente articolate in limine litis (in tal senso, Cass. civ., n. 22158/2019 e Cass. civ., n. 24538/2018): tale tesi, invero, introduce una decadenza normativamente non prevista, finendo sostanzialmente per equiparare il rito sommario di cognizione al rito del lavoro.

Proprio recentemente la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla medesima questione in riferimento al rito speciale di cui all'art. 14 cit., ha espressamente aderito al primo dei predetti orientamenti, assumendo che l'avvocato ha tempo di produrre documentazione fino alla prima udienza di comparizione delle parti, anche perché alle controversie trattate ai sensi del predetto art. 14 neppure si applica il mutamento del rito di cui al comma 3 dell'art. 702-ter c.p.c. (Cass. civ., n. 23677/2021).

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