La vincolatività del contratto collettivo nel tempo in due recenti sentenze del Tribunale di Rovereto ed Asti

09 Marzo 2022

La facoltà di recesso da un CCNL va riconosciuta al datore di lavoro ove il contratto sia stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza...
Massime

Tribunale Asti, ord. 4 giugno 2021

La facoltà di recesso da un CCNL va riconosciuta al datore di lavoro ove il contratto sia stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza. Tuttavia, ove un termine di scadenza sia previsto nel contratto collettivo, detto termine deve ritenersi vincolante. La cessazione dell'efficacia del contratto collettivo discende dalla scadenza del termine; detta "scadenza", tuttavia, va individuata alla luce delle complessive pattuizioni delle parti, tenuto conto anche della eventuale previsione di clausole di ultrattività. Infatti, ove nel contratto si preveda la perdurante efficacia del contratto "fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL", essa va intesa nel senso che parti originariamente stipulanti abbiano inteso vincolarsi al contenuto del contratto sottoscritto fino alla nuova negoziazione e sottoscrizione, prevedendo espressamente un termine finale di efficacia.

Tribunale Rovereto, ord. 13 aprile 2021

La facoltà di recesso da un CCNL va riconosciuta al datore di lavoro ove il contratto sia stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza. Tuttavia, ove un termine di scadenza sia previsto nel contratto collettivo, detto termine deve ritenersi vincolante. Ove nel contratto si preveda la perdurante efficacia del contratto "fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL", essa non va intesa nel senso che parti originariamente stipulanti abbiano inteso vincolarsi al contenuto del contratto sottoscritto fino alla nuova negoziazione e sottoscrizione, prevedendo espressamente un termine finale di efficacia, ma è ammissibile un recesso straordinario per giusta causa consistente nel fallimento di serie trattative, cui le parti collettive sono tenute a portare a termine, entro un termine ragionevole. Con la precisazione che i soggetti legittimati a questa particolare figura di recesso per giusta causa sono le organizzazioni sindacali e datoriali firmatarie del ccnl, non i singoli datori di lavoro che a questo restano vincolati, durante il periodo di ultrattività, ma non oltre la stipulazione del rinnovo del CCNL se recedono dall'organizzazione firmataria.

La facoltà di recesso da un Contratto Collettivo Aziendale privo di termine va riconosciuto al datore di lavoro stipulante, salvo rispetto del principio della buona fede e divieto di atti antisindacali. Di conseguenza è illegittimo il recesso del datore di lavoro da un contratto collettivo aziendale che prevede importanti elementi di retribuzione aggiuntiva, rispetto alla paga base del CCNL, ove non contenga un preavviso di almeno sei mesi, idoneo a consentire il rispetto dell'obbligo di buona fede.

Il caso

Entrambe le sentenze in commento riguardano il caso di recesso da parte del singolo datore di lavoro dal CCNL con applicazione di altro CCNL.

Le Ordinanze in commento hanno dichiarato il carattere antisindacale del comportamento datoriale, poiché in entrambi i casi il datore di lavoro aveva comunicato il recesso dal CCNL previamente uscendo dall'organizzazione sindacale firmataria.

Come è noto – in linea generale – si configura l'antisindacalità ogniqualvolta il datore di lavoro ponga in essere “comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale” nonché del diritto di sciopero (L. 300/1970, art. 28). Il legislatore parrebbe aver volutamente adottato una formula aperta (senza tipizzare le fattispecie), con la finalità di ricomprendervi qualsiasi ostacolo al libero svolgimento della dialettica sindacale (cfr. Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, sentenza 12 giugno 1997, n. 5295, secondo le quali la definizione legislativa in oggetto “non è analitica ma teleologica, nel senso che la norma individua il comportamento illegittimo in base non a caratteristiche strutturali, bensì alla sua idoneità a ledere i beni protetti”. Inoltre, in tale arresto le Sezioni Unite hanno abbracciato l'orientamento favorevole al rilievo meramente oggettivo della condotta antisindacale, escludendo la necessità dell'intenzionalità del datore di lavoro ai fini della configurazione della fattispecie).

Orbene, nei casi di specie i datori di lavoro avevano deciso unilateralmente di dare disdetta dal contratto precedente in corso di validità, senza consultazione alcuna delle associazioni, bensì per mezzo di una mera comunicazione in tal senso alle oo.ss., prima di adire l'Autorità giudiziaria, avevano dunque posto (infruttuosamente) in essere una serie di azioni che consentissero di addivenire ad un nuovo accordo con il datore, tra cui alcune diffide, incontri e scioperi.

In particolare, l'Ordinanza del Tribunale di Asti ha dovuto giudicare di un caso nel quale il datore di lavoro aveva unilateralmente disapplicato il CCNL Turismo, Distribuzione, Servizi, richiamato nelle lettere di assunzione, per sostituirlo con il CCNL sottoscritto dalla Cisal con l'Ampit e Cidec.

Il provvedimento del Tribunale di Rovereto ha analizzato anche il carattere antisindacale della condotta del datore di lavoro che aveva comunicato il recesso con effetto immediato dai contratti collettivi aziendali, che disciplinavano gli istituti del superminimo, quattordicesima mensilità e premio di risultato. Disdetta che era intervenuta dopo il protrarsi del grave conflitto sindacale con varie giornate di sciopero per tutto il mese ed immediatamente dopo la proclamazione dei risultati elettorali per la nomina delle RSU.

Le questioni

Le Ordinanze in commento si sono dovute pronunciare sulle conseguenze derivanti dalla disdetta data dal datore di lavoro al CCNL dopo essere previamente uscito dall'organizzazione sindacale firmataria. In entrambi i casi il CCNL a tempo determinato, era scaduto, ma prevedeva una clausola di ultrattività.

Inoltre, il caso sottoposto al Tribunale di Rovereto riguardava anche un'ipotesi di recesso dal contratto collettivo aziendale a tempo indeterminato e senza clausola di ultrattività.

La giurisprudenza, data per acquisita l'inapplicabilità alla contrattazione collettiva cosiddetta di diritto comune del disposto di cui all'art. 2071, comma 3, c.c. (Cass., 12 febbraio 1990, n. 987, Cass., 10 novembre 2000, n. 14163) - secondo cui il contratto collettivo «deve (...) contenere la determinazione della sua durata»-, riconosce, da lungo tempo oramai, tanto la legittimità della apposizione di un termine alla efficacia del contratto collettivo (Cass., 7 giugno 1963, n. 1514), quanto la possibilità che un contratto collettivo di lavoro venga sottoscritto senza indicazione del termine finale (tra le tante, Cass., 16 aprile 1993, n. 4507; Cass., 1 luglio 1998, n. 6427).

L'osservazione dei reali meccanismi di funzionamento del nostro sistema di relazioni industriali - così come di quelli di altri Paesi - indica, invero, come l'efficacia del contratto collettivo di lavoro abbia, nella generalità dei casi, una durata determinata nel tempo.

L'art. 1373 co. 2 c.c. prevede che « Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, tale facoltà può essere esercitata anche successivamente, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione» Nei rapporti di durata, la facoltà di recesso non è ammessa se non espressamente prevista dalle parti (Cass., 22 dicembre 1983, n. 7579; Cassazione 6354/1981), insieme ad un preciso termine entro cui esercitarla (A. Genova 11 marzo 1999).

Inoltre, se il contratto non prevede termine finale, o se esso venga superato con rinnovazione automatica del rapporto, allora le parti sono libere di recedere, in questo senso la giurisprudenza che ammette il recesso dal contratto collettivo sine die, atteso che il contratto stesso non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, altrimenti vanificandosi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve essere parametrata su una realtà socio-economica in continua evoluzione; in ogni caso, anche in tale ipotesi, il principio enunciato è valido sempre che il recesso sia esercitato nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto e non siano lesi i diritti intangibili de i lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole ed entrati in via definitiva nel loro patrimonio (in questi termini si esprime la sentenza 20 agosto 2019, n. 21537, richiamando sul punto i precedenti Cass., 25 febbraio 1997, n. 1694; Cass., 18 ottobre 2002, n. 14827; Cass., 20 settembre 2005, n. 18508; Cass., 20 dicembre 2006, n. 27198; Cass., 20 agosto 2009, n. 18548; Cass., 28 ottobre 2013, n. 24268).

Rispetto a tale stato dell'arte unica voce fuori dal coro pare essere Cass. civ., sez. lav., 22 novembre 2010, n. 23614, che ha asserito: «In tema di rapporto di lavoro subordinato, le obbligazioni delle parti si inseriscono all'interno di un rapporto contrattuale sinallagmatico di carattere continuativo che rende inapplicabile il principio, valido per le obbligazioni unilaterali, secondo cui le obbligazioni non possono avere carattere perpetuo, dovendosi ritenere che le erogazioni da parte del datore di lavoro trovano la loro causa nelle prestazioni lavorative dei dipendenti, intesi sia come singoli che come collettività, mentre queste ultime traggono, a loro volta, la giustificazione nelle erogazioni a carico del datore, tra le quali rientrano tutte le somme di denaro, a qualsiasi titolo, anche diverso dallo stipendio di base e dalle voci previste dalla contrattazione collettiva, corrisposte ai dipendenti in maniera stabile e continuativa. Ne consegue che il datore di lavoro non può recedere unilateralmente, senza accordo preventivo, dall'obbligo a suo carico di corrisponderle, integrando l'eventuale loro cessazione, in assenza di specifica giustificazione di carattere giuridico (e non semplicemente di natura economica), una forma di inadempimento contrattuale che può essere, secondo i casi, totale o parziale». (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto inadempiente il datore di lavoro per aver unilateralmente congelato la quattordicesima mensilità).

Diverso è se il contratto collettivo presenti un termine di scadenza, in tal caso è stata riconosciuta la perdurante efficacia dell'accordo pregresso, quantomeno fino alla sua naturale scadenza, sicché deve ritenersi illegittima la disdetta unilaterale del contratto applicato da parte del datore prima della sua scadenza e deve escludersi la possibilità del recesso dal contratto ante tempus, con conseguente impossibilità di applicazione di nuovo diverso CCNL (così Cass., 20 agosto 2019, n. 21537).

Successivamente alla scadenza del contratto nella nota Cass. civ., sez. un., 30 maggio 2005, n. 11325 si è affermata la non applicazione della ultrattività del contratto, cristallizzata nell'art. 2074 c.c., non più applicabile in quanto norma corporativa e comunque limite della libera volontà delle organizzazioni sindacali e prospetta un contrasto con la garanzia posta dall'art. 39 Cost. ove si configuri una regola che sottrae alla disponibilità delle parti contraenti la quantità di retribuzione pattuite in sede collettiva. Dunque, il contratto scaduto o receduto perde efficacia ed il rapporto resta di norma regolamentato dalle norme di legge e/o altre norme convenzionali eventualmente esistenti, perché non esiste una regola legale di ultrattività del contratto collettivo (Cass., sez. lav., 12 ottobre 2015, n. 20441), salvo non vi sia una espressa previsione negoziale di una clausola di ultrattività.

Ciò premesso si è posto il problema di qualificare la validità e vincolatività della clausola di ultrattività, che sancisce la perdurante vigenza del contratto fino alla nuova stipulazione: si tratta di una clausola di ultrattività a termine o a tempo indeterminato? Poiché nel primo caso non sarebbe possibile disdettare liberamente il contratto da parte delle organizzazioni sindacali firmatarie, nel secondo caso, invece, stante l'indeterminatezza della durata della ultrattività, vi sarebbe recesso libero.

La seconda questione giuridica riguarda la possibilità per il singolo datore di lavoro iscritto all'associazione di categoria firmataria del contratto di dare disdetta o recedere dal CCNL.

Le soluzioni giuridiche

Orbene, rispetto alla prima delle due questioni giuridiche menzionate Cass. civ., sez. lav., 12 febbraio 2021, n. 3672 ha affermato che: «i contratti collettivi di diritto comune, costituendo manifestazione dell'autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l'ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l'opposto principio di ultrattività della vincolatività del contratto scaduto sino ad un nuovo regolamento collettivo, ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, sarebbe in contrasto con la garanzia prevista dall'art. 39 Cost.; pertanto, alla previsione della perdurante vigenza del contratto fino alla nuova stipulazione dev'essere riconosciuto il significato della indicazione, mediante la clausola di ultrattività, di un termine di durata chiaramente individuato in relazione a un evento futuro certo, benché privo di una precisa collocazione cronologica». Quindi, secondo questa tesi tale ultrattività convenzionale sarebbe a termine, con la conseguente impossibilità per le associazioni sindacali di dare disdetta dal CCNL prima della stipulazione di un nuovo contratto, poiché il principio della libertà del recesso unilaterale è previsto soltanto per le ipotesi di mancata indicazione di un termine di scadenza del contratto collettivo di diritto comune. Tale tesi è stata applicata anche dall'Ordinanza del Tribunale di Asti in commento, che aveva rilevato nel caso concreto che il «CCNL TDS del 30 marzo 2015 prevedeva effettivamente una clausola di ultrattività, essendo previsto all'art. 259, secondo comma, che "Il contratto si intenderà rinnovato secondo la durata di cui al primo comma se non disdetto, tre mesi prima della scadenza, con raccomandata A. R. In caso di disdetta il presente contratto resterà in vigore fino a che non sia stato sostituito dal successivo contratto nazionale”».

Diversamente l'Ordinanza del Tribunale di Rovereto critica motivatamente il paradigma sostenuto dalla Cassazione e, quindi, anche dal Tribunale di Asti, ritenendo: «ammissibile un recesso cd straordinario per la giusta causa consistente nel fallimento delle serie trattative, cui le parti collettive sono tenute a portare a termine entro un termine ragionevole». Tale conclusione si argomenta in base all'art. 1358 c.c. che «impone uno specifico obbligo di comportamento secondo buona fede “per conservare integre le ragioni della controparte” in pendenza della condizione. Infatti se la clausola condizionale di ultrattività instaura dopo la scadenza del termine naturale, uno specifico obbligo a trattare per giungere al rinnovo del ccnl, sicchè l'obbligo di buona fede si declina nell'impegnarsi in modo serio e costruttivo per giungere ad un nuovo accordo, che costituisca una ragionevole sintesi dei mutati rapporti di forza, immotivati rifiuti a trattare o ad accettare ragionevoli accordi, costituiscono un inadempimento all'obbligo da trattare e può, pertanto, integrare la giusta causa giustificativa del recesso della controparte».

Entrambe le ordinanze commentate, tuttavia, giungono a ritenere nel caso concreto antisindacale il comportamento del singolo datore di lavoro di disdetta dal CCNL, poiché «nel contratto collettivo di lavoro la possibilità di disdetta spetta unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali che di norma provvedono anche a disciplinare le conseguenze della disdetta; al singolo datore di lavoro, pertanto, non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo l'eccessiva onerosità dello stesso, a i sensi dell'art. 1467 c.c., conseguente ad un a propria situazione di difficoltà economica, salva l'ipotesi di contratti aziendali stipulati dal singolo datore di lavoro con sindacati locali de i lavoratori» (Cass., 19 aprile 2011 n. 8994 e, già prima, Cass., 7 marzo 2002, n. 3296, e Cass. 15863/2002 richiamate da Cass., 7 novembre 2013, n. 25062; Cass., 20 agosto 2019, n. 21537).

Infine, il Tribunale di Rovereto analizza anche la questione delle modalità di disdetta dal contratto collettivo aziendale. In questo caso «il singolo datore di lavoro è anche parte stipulante e, pertanto, ha la piena legittimazione sostanziale ad esercitare il diritto di recesso». Inoltre, il Giudice Trentino afferma, tuttavia, che pur essendo in tale ipotesi il recesso libero, deve comunque rispettare il canone della buona fede «il quale comporta un obbligo di congruo preavviso la cui concreta modulazione va fatta in stretta aderenza alle peculiarità concrete del caso concreto, anche in considerazione della peculiare funzione del recesso quale stimolo per l'avvio di una nuova contrattazione collettiva». Sulla base di tali principi conclude che: «il preavviso minimo per consentire il rispetto agli obblighi di buona fede sia, nel caso i specie, di almeno 6 mesi», dichiarando anche sotto questo profilo antisindacale la condotta del datore di lavoro che aveva provveduto a recedere dal contratto collettivo aziendale con effetto immediato.

Infine, secondo l'Ordinanza del Tribunale di Rovereto un recesso del datore di lavoro da un contratto collettivo pur se formalmente legittimo può costituire condotta antisindacale ove avvenga per fini ritorsivi, dovendosi aver riguardo alla modalità temporale prescelta. «ossia dopo il protrarsi del grave conflitto sindacale con varie giornate di sciopero per tutto il mese di agosto ed immediatamente dopo la proclamazione dei risultati elettorali per la nomina delle RSU, che confermavano la vittoria del sindacato sgradito all'azienda, la Fiom…questa scelta temporale costituisce, a questo punto, l'ennesimo tentativo, non solo e non tanto di screditare il suo operato, quando di rendere evidente a tutti gli iscritti e simpatizzanti la sua assoluta irrilevanza».

Osservazioni

Le Ordinanze commentate sono intervenute sul vivace dibattito, riguardante il recesso da un contratto collettivo durante il periodo della ultravigenza convenzionalmente prevista.

In particolare, può il datore agire in tal senso astenendosi dal coinvolgere le associazioni dei lavoratori? Inoltre, in tali casi è possibile utilizzare da parte delle organizzazioni sindacali pretermesse lo strumento di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori? Infine, la clausola del contratto collettivo che ne prevede l'ultrattività fino a nuova stipulazione rende il contratto collettivo ultrattivo a termine, con conseguente divieto di disdetta oppure a tempo indeterminato, con conseguente possibile recesso per giusta causa?

A tali interrogativi hanno fornito risposta le citate ordinanze del Tribunale di Rovereto e di Asti.

Fermo questo principio, le due sentenze divergono sulla possibilità di disdetta da un contratto collettivo con clausola di ultrattività fino al rinnovo del contratto collettivo. Infatti, il Tribunale di Asti ritenendo tale clausola di ultrattività sottoposta ad un termine, conclude nel senso della impossibile di recedere ante tempus, del resto come aveva affermato Cass. civ., sez. lav., 12 febbraio 2021, n. 3672. Diversamente per il Tribunale di Rovereto tale clausola di ultrattività non impone un divieto di recesso in eterno del datore di lavoro, ma solo nei limiti della buona fede, ossia entro i limiti oltre i quali un dovere di trattativa non è più accettabile in base alla clausola generale di buona fede ex art. 1358 cc. in pendenza della condizione.

Certo, in entrambi i casi il problema teorico è superato in concreto dalla circostanza che la disdetta dal CCNL era stata data non dall'associazione datoriale di categoria, ma da un singolo associato ed in quanto tale la disdetta era illegittima.

Di assoluto rilievo ed innovativa è poi l'affermazione dell'ordinanza Trentina, che con riferimento al recesso dal contratto collettivo aziendale ritiene ragionevolmente rispettato il dovere di buona fede laddove, in mancanza di clausola di ultrattività, venga dato un preavviso di recesso di almeno sei mesi.

Infine, il Giudice Trentino ha ritenuto che anche un recesso dal contratto apparentemente lecito può essere valutato quale condotta antisindacale ove venga posta in essere in un ambito temporale caratterizzato da un violento confronto sindacale in occasione di scioperi ed assemblee dei lavoratori, poiché in tale contesto la scelta temporale di recedere rende evidente a tutti gli iscritti e simpatizzanti la sua assoluta irrilevanza del sindacato. Ebbene In tal senso, si è riaffermato un principio consolidato anche nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale se per le particolari circostanze del caso concreto la disdetta dal CCNL non miri soltanto a far cessare nei propri confronti una disciplina contrattuale dalla quale si ritiene – non rileva se fondatamente o no purché non del tutto pretestuosamente – di non dover essere più vincolati, ma si connoti, altresì, come causa di oggettivo impedimento per il sindacato di operare nel contesto aziendale con le iniziative volte a riaffermarvi il proprio ruolo di controparte contrattuale, si ritiene tale condotta sia da considerare antisindacale (cfr. Cass., 22 aprile 2004, n. 7706). Ciò che rileva in questi casi ai fini dell'antisindacalità è il fatto che il comportamento datoriale violi proprio l'art. 39 Cost., alterando le regole del confronto negoziale e impedendo al sindacato di svolgere il suo ruolo di controparte contrattuale.