La sottile linea rossa tra continuità diretta, liquidazione, competitività obbligatoria e migliore soddisfazione dei creditori concordatari

Luca Jeantet
10 Marzo 2022

In tema di concordato preventivo in continuità aziendale, se fondato su di un contratto di management alberghiero, deve essere revocato il decreto di ammissione ai sensi dell'art. 163 qualora risulti che il regolamento negoziale partecipa delle caratteristiche proprie del contratto di affitto di azienda, non sia aperto alla competizione ai sensi dell'art. 163 bis l. fall., veda una prevalenza di flussi liquidativi a servizio del debito concordatario, a seguito della vendita con successiva retrocessione in locazione dell'immobile strumentale, manchi il rispetto della soglia minima di soddisfazione prevista dall'art. 160, comma 2, l. fall., e l'attestatore non si sia espresso sulla quantificazione dei flussi ricavabili nello scenario alternativo concretamente praticabile.
Massima

In tema di concordato preventivo in continuità aziendale, se fondato su di un contratto di management alberghiero, deve essere revocato il decreto di ammissione ai sensi dell'art. 163 qualora risulti che il regolamento negoziale partecipa delle caratteristiche proprie del contratto di affitto di azienda, non sia aperto alla competizione ai sensi dell'art. 163 bis l. fall., veda una prevalenza di flussi liquidativi a servizio del debito concordatario, a seguito della vendita con successiva retrocessione in locazione dell'immobile strumentale, manchi il rispetto della soglia minima di soddisfazione prevista dall'art. 160, comma 2, l. fall., e l'attestatore non si sia espresso sulla quantificazione dei flussi ricavabili nello scenario alternativo concretamente praticabile.

Il caso

La vicenda trae origine da una proposta di concordato preventivo, qualificata dalla società debitrice in continuità diretta ai sensi dell'art. 186 bis l. fall. e fondata su di un contratto di management alberghiero, che il Tribunale di Rimini riqualifica, in ragione dell'assenza di una traslazione del rischio d'impresa sul manager, in affitto di azienda alberghiera, con conseguente constatazione della violazione della norma imperativa di cui all'art. 163 bis l. fall. per mancata possibilità di esperimento di un'asta competitiva e, comunque, di una prevalente componente liquidativa dei flussi concordatari, in dipendenza della vendita con successiva retrocessione in locazione dell'immobile strumentale, tale da condurre alla conversione del concordato in liquidatorio in difetto del rispetto della percentuale minima assicurata del venti per cento, senza che in ogni caso l'attestatore abbia indagato quali potessero essere i flussi ritraibili, anche a titolo di azioni risarcitorie, in un contesto di liquidazione fallimentare.

La questione giuridica e le soluzioni

Il decreto del Tribunale di Rimini si segnala per affrontare e risolvere, in modo molto perspicuo, alcune fondamentali tematiche concordatarie, muovendo dalla constatazione, pacifica ed incontestabile, per cui la verifica di ammissibilità di una proposta concordataria perdura sino alla pronuncia del decreto omologativo ed è sempre possibile rendere un provvedimento di revoca ai sensi dell'art. 173 l. fall., anche dopo che il debitore sia stato ammesso alla procedura di concordato, sulla base delle indagini che siano state condotte dal commissario giudiziale (tra i molti possibili riferimenti, Cass. 4 giugno 2014, n. 10552).

Il Collegio giudicante giunge alla dichiarazione di inammissibilità della proposta di concordato presentata da una società alberghiera ed alla sua contestuale dichiarazione di fallimento, conducendo quattro livelli di indagine con statuizione di altrettanti principi di diritto.

Il primo passaggio consiste nell'analizzare la natura del contratto di management alberghiero, quale forma di gestione diffusa nel settore internazionale ed oggetto d'utilizzo da parte di catene alberghiere, attribuendo il coordinamento dell'hotel ad un operatore turistico che, nel mettere a disposizione il proprio patrimonio conoscitivo di settore agisce, in nome e per conto del proprietario dell'immobile.

Le parti del rapporto sono, da un lato, il proprietario della struttura (c.d. owner) che non è interessato ad operare nell'ambito alberghiero o che comunque non dispone della conoscenza sufficiente per svolgere, personalmente e direttamente, un'attività ricettiva e, dall'altro lato, il manager (anche conosciuto come hotel operator) che, con la sua esperienza gestionale e conoscenza del mercato turistico, prende il controllo gestionale dell' albergo.

Il dato fondamentale da considerare è che l'owner resta sempre il titolare dell'attività imprenditoriale, assumendosi anche il rischio d'impresa e riconoscendo al manager due compensi, vale a dire una management fee (compenso di gestione) calcolata applicando una percentuale ai ricavi ed una incentive fee rappresentata da una remunerazione basata sul margine operativo lordo (redditività – costi di ammortamento e accantonamento).

I documenti necessari per assicurare l'andamento dell'attività sono, tra gli altri: il business plan, vale a dire il materiale attraverso il quale viene presentata l' operatività della gestione e viene preventivamente approvato dal proprietario; il budget annuale, che riporta le previsioni economiche e patrimoniali; la preventiva autorizzazione da parte della proprietà all'assunzione di decisioni rilevanti, per il reclutamento di personale e per lo svolgimento di campagne pubblicitarie e finanziarie; il reporting periodico, redatto mensilmente o trimestralmente riguardo l'aspetto economico, finanziario e patrimoniale.

La durata del contratto di management ricopre un lungo arco temporale, solitamente pari a cinque, dieci o quindici anni.

Il controllo da parte del proprietario avviene attraverso gli indicatori di performance, quali il livello di occupazione delle camere, le vendite, il reddito netto e il livello di qualità.

Questo contratto atipico si distingue rispetto al contratto di affitto di azienda alberghiera per non comportare una traslazione del rischio di impresa in capo a colui che gestisce l'hotel.

Tanto risulta, invece, essere occorso nel caso di specie, giacché, indipendentemente dall'intitolazione del rapporto negoziale, sul debitore concordatario grava il solo rischio della percezione del canone di affitto e della conservazione della integrità dell'azienda concessa al gestore.

In particolare, secondo quanto è stato ricostruito dal Tribunale di Rimini, l'owner percepisce, per tutta la durata del rapporto, un importo fisso indipendente dai ricavi o dalla performance dell'impresa alberghiera, non partecipa in alcun modo alle scelte gestionali né le controlla, non avendo alcun potere neppure di risolvere il rapporto in caso di gestione negativa o scorretta, e non esercita l'impresa alberghiera e comunque non ne sopporta il rischio, limitandosi a riscuotere un importo fisso periodico; per parte sua, invece, il manager adotta tutte le scelte gestionali dell'impresa, generali ed esecutive, sostiene interamente i costi della gestione, ed il suo compenso non è determinato parte sui ricavi e parte sul margine operativo lordo, con la conseguenza d'essere meramente eventuale e quindi di comportare la piena assunzione del rischio dell'impresa alberghiera.

Di qui, la prima corretta statuizione per cui, in dipendenza del regolamento negoziale adottato in concreto dal debitore concordatario, si è in presenza di un contratto di affitto di azienda alberghiera e non già di un contatto di management alberghiero, con la prima necessaria derivata riqualificativa della proposta concordataria da continuità diretta a continuità indiretta.

Da tanto discende il secondo passaggio del Collegio Giudicante, ad avviso del quale la struttura negoziale proposta, vale a dire contratto (riqualificato) di affitto di azienda alberghiera e contestuale ipotesi di cessione dell'immobile strumentale con sua retrocessione locativa, si pone in violazione della previsione imperativa di cui all'art. 163 bis l.fall. e comporta l'inammissibilità, per totale assenza di competitività, del piano e della proposta di concordato.

Il Tribunale di Rimini sembrerebbe qui affermare il principio per cui, in caso di affitto di azienda anteriore al deposito della domanda di concordato e di struttura c.d. “chiusa”, la mancanza di una richiesta del debitore concordatario di apertura di un'asta competitiva pregiudichi, da sé sola, la possibilità di prosecuzione della procedura, senza possibilità di intervento d'ufficio del giudice fallimentare.

Il che potrebbe destare qualche dubbio se si considera quella giurisprudenza che ha individuato due rimedi officiosi: il primo consistente nella disposizione da parte del Tribunale di una procedura ad evidenza pubblica d'allocazione di una azienda al fine di realizzare il massimo ricavo a beneficio dei creditori (Tribunale Siracusa, 24 Gennaio 2017); il secondo consistente nella facoltà del Tribunale, al fine di rendere possibile l'esperimento di questa procedura, di chiedere al debitore concordatario di procurarsi una dichiarazione di disponibilità dell'affittuario a consegnare immediatamente il compendio al terzo che eventualmente dovesse aggiudicarsi il bene (Trib. Padova, 22 Giugno 2016; Trib. Bolzano 17 maggio 2016; Trib. Udine 15 ottobre 2015).

Il dubbio, però, si scioglie e si comprende l'approccio del Tribunale di Rimini nel momento in cui, avuto riguardo al caso concreto, evidenzia la sostanziale impossibilità di assoggettare a gara la struttura proposta dal debitore concordatario per indeterminatezza non tanto delle condizioni di affitto dell'azienda alberghiera, ma di retrocessione in locazione dell'immobile strumentale una volta che sia stato venduto, con conseguente e finale assenza delle condizioni minime per poter predisporre un disciplinare di gara.

Il che induce ad evidenziare come l'effettività della competizione richiesta dall'art. 163 bis l. fall. postuli l'onere del debitore concordatario di declinare esattamente i termini e le condizioni delle c.d. prima offerta, affinché possano poi ricercarsi sul mercato soluzioni migliorative suscettibili di comparazione.

Il terzo passaggio vede rileggere il principio di diritto statuito dalla Corte di Cassazionenella sentenza n. 734 del 15 gennaio 2020, con affermazione che, in caso di prevalenza di flussi liquidativi rispetto a flussi di continuità, va riconvertita in liquidatoria una domanda di concordato presentata ai sensi dell'art. 186 bis l. fall., con successiva sanzione di sua inammissibilità se non sia rispettata la soglia di soddisfazione del ceto creditorio chirografario nella misura minima assicurata del venti per cento.

Come noto, il concordato con continuità aziendale è stato tipizzato all'art. 186 bis l.fall., e ricorre in ipotesi di gestione diretta dell'azienda da parte del debitore, oppure di sua cessione in esercizio, oppure ancora di suo conferimento, sempre in esercizio, in una o più società.

La giurisprudenza di merito, sin dall'introduzione nella legge fallimentare dell'istituto del concordato con continuità aziendale, ha enucleato un'ulteriore fattispecie di concordato, c.d. “misto”, nel quale sono “evidenziati tratti sia della continuità aziendale per continuazione dell'attività in capo alla stessa proponente, sia della cessione ai creditori con riferimento alla liquidazione” e nel quale “alla prosecuzione dell'attività si affianchi la liquidazione dei beni estranei al perimetro aziendale, che talvolta rappresentano la parte preponderante dell'attivo” (Trib. Roma 22 aprile 2015; si veda anche Trib. Ravenna 28 aprile 2015 e Trib. Mantova 19 settembre 2013).

La giurisprudenza ha espressamente sancito, applicando i principi in tema di contratto misto, che, in presenza di un concordato preventivo “misto” debba trovare applicazione la disciplina del piano di concordato (liquidatorio od in continuità) “prevalente”, salva la possibilità di applicazione congiunta delle due discipline ove non siano incompatibili secondo il principio dell'integrazione, riconoscendo quindi espressamente la possibilità di applicazione combinata della disciplina della continuità aziendale con quella della cessione ai creditori.

Quanto precede trova conferma nel più recente orientamento della Suprema Corte, secondo cui “il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale prevista dall'art. 186-bis l.fall., che al primo comma espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito. Tale norma non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnato una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori. Considerato che la compresenza nel piano concordatario di attività liquidatorie che si accompagnino alla prosecuzione dell'attività aziendale è dunque espressamente contemplata dal legislatore all'interno della norma, osserva la Suprema Corte che non c'è spazio a equivoci di sorta in merito al fatto che l'art. 186 bis l. fall. governi la fattispecie (vale a dire che il concordato tradizionalmente definito come misto sia, nelle intenzioni del legislatore, un concordato in continuità che prevede la dismissione di beni). Il dato normativo non evoca pertanto alcun rapporto di prevalenza di una parte dei beni rispetto all'altra a cui è riservata diversa sorte, ma fa riferimento alla liquidazione dei beni “non funzionali all'esercizio dell'impresa”, implicitamente ritenendo che quelli funzionali siano invece destinati alla prosecuzione dell'attività aziendale. Pertanto, la regola prevista dalla norma non riguarda la quantità delle porzioni a cui sia affidato un diverso destino (e la conseguente prevalenza dell'una rispetto all'altra in funzione delle risorse da devolvere alla soddisfazione dei creditori), ma la funzionalità di una porzione dei beni alla continuazione dell'impresa in uno scenario concordatario” (in questi termini, Cass. 15 gennaio 2020, n. 734).

In altre parole, la Corte di Cassazione ha: aderito alla prospettazione secondo cui la definizione di concordato misto non ha fondamento normativo, trattandosi di una delle ipotesi di concordato con continuità espressamente previste dall'art. 186 bis l.fall., che – nell'ambito della disciplina speciale del concordato con continuità aziendale – contempla espressamente il caso in cui il piano preveda “anche la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa”; sostenuto che il criterio posto dall'art. 186 bis l.fall. ai fini della qualificazione del concordato con continuità aziendale e dell'applicazione della relativa disciplina è – alla luce del predetto inciso – di tipo qualitativo piuttosto che quantitativo; disposto, in particolare, “la regola prevista dalla norma non riguarda la quantità delle porzioni a cui sia affidato un diverso destino (e la conseguente prevalenza dell'una rispetto all'altra in funzione delle risorse da devolvere alla soddisfazione dei creditori), ma la funzionalità di una porzione dei beni alla continuazione dell'impresa in uno scenario concordatario”; enunciato, in conclusione, il principio di diritto secondo cui “il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale prevista dall'art. 186 bis l. fall., che al primo comma espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; tale norma non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnata una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori”.

Se queste sono le linee guida della Corte di Cassazione in materia di concordato c.d. misto, bene allora si comprende la scelta del Tribunale di Rimini che ne esclude la ricorrenza nel caso di specie sul presupposto che il debitore concordatario, ad esito dell'esecuzione della proposta, avrebbe traslato il rischio d'impresa ad un terzo, non sarebbe più risultato titolare del bene strumentale nel quale era condotta l'attività aziendale, avrebbe pagato i creditori con flussi sostanzialmente (ed esclusivamente) liquidativi e, in ultima battuta, avrebbe qualificato la propria struttura ai sensi dell'art. 186 bis l. fall. per non dover rispettare il limite di soddisfacimento dei creditori chirografari prescritto dall'art. 160, comma 2, l. fall.

Emblematica, in questa direzione, l'osservazione del Collegio giudicante per cui “nel caso in esame, non solo la liquidazione, come già detto, riguarda un bene pienamente funzionale all'esercizio dell'attività alberghiera, ma comprende in sé un parte non adeguatamente definita ( e valutata ) dell'azienda; il ricavato previsto dalla liquidazione, inoltre, è quantitativamente più elevato di quanto è retraibile dalla continuità ; infine , la presunta prosecuzione diretta, successiva al termine del piano ( ma eventualmente anche la prosecuzione tramite il manager, prima di tale scadenza ) è condizionata alla obbligatoria stipula di un contratto di locazione – di cui non sono esposte le condizioni – che dovrebbe far parte del bando di vendita, senza che peraltro sia stato considerato il diverso valore dell'immobile prodotto da tale contestuale vincolo per l'acquirente; né può darsi rilievo alla distinzione fra diritto dominicale sull'immobile, che potrebbe essere alienato , e disponibilità dell'immobile stesso, che potrebbe essere acquisita mediante contestuale locazione, cosicché non si sarebbe in presenza della liquidazione di un bene funzionale: è pur vero che è molto frequente che l'impresa alberghiera sia esercitata utilizzando immobili di proprietà altrui, ma la circostanza che, in questo caso , la società che propone il concordato sia già la proprietaria dell'immobile-albergo ( e delle strutture aziendali infisse e non amovibili ) conferma la constatazione che il piano di concordato – della cui qualificazione ci si occupa, ai fini della individuazione della disciplina applicabile - consiste anche nella liquidazione di un bene funzionale all'attività di impresa , da cui si trae, per di più, la più elevata quota dell'attivo ; la impossibilità di ricomprendere il concordato in questione nell'ambito dell'art. 186 bis l.fall. comporta una ulteriore ragione di inammissibilità, tenuto conto che le percentuali offerte ai chirografari non raggiungono il 20%, a norma dell'art 160, comma 2, l.fall.”.

Il quarto ed ultimo passaggio, che si colloca in parallelo rispetto a quello appena esaminato e che rivolge l'attenzione alle condizioni prescritte dall'art. 186 bis l. fall., vede evidenziare un profilo d'inammissibilità della domanda concordataria per non avere l'attestatore designato indagato e quantificato quali potessero essere i flussi ritraibili, anche a titolo di azioni risarcitorie, nell'alternativa concretamente praticabile.

La questione offre la possibilità di un approfondimento su quale debba essere l'esatto oggetto del giudizio attestativo per la corretta affermazione della funzionalità della continuità aziendale alla migliore soddisfazione dei creditori concordatari.

I Principi di attestazione (al § 7.3 – nella versione aggiornata 2020) precisano che “l'Attestatore, relativamente al termine di confronto rispetto al quale formulare il richiesto giudizio di comparazione quantitativa, deve considerare le sole ipotesi alternative di discontinuità concretamente praticabili. Quindi: la liquidazione del patrimonio del debitore, ove concretamente praticabile; il fallimento, in caso di impossibilità di procedere con una liquidazione in bonis, eventualmente mediante cessione dell'azienda o di rami d'azienda a seguito della prosecuzione dell'attività mediante esercizio provvisorio”.

Invero, dovendo(si) trattare di valutazione rispetto ad ipotesi di discontinuità concretamente praticabili, lo scenario alternativo soggetto a comparazione è, nella pratica, quello liquidatorio (quasi sempre, necessariamente) fallimentare.

In particolare.

Non sembra prospettabile che il giudizio comparativo debba essere reso con riferimento ad altre ipotesi di composizione della crisi (quali le ipotesi liquidatorie concordate con i creditori o le altre ipotesi di continuità aziendale, quand'anche astrattamente ammissibili laddove l'impresa non versi in stato di insolvenza ma in stato di crisi) su basi diverse rispetto a quelle risultanti dal piano concordatario, posto che l'attestatore è chiamato a conoscere della sola ipotesi di concordato a questi sottoposta, da confrontare con l'alternativa della discontinuità e quindi della liquidazione.

Non pare, poi ed allo stesso modo, potersi considerare, quale ipotesi alternativa concretamente praticabile, quella della continuità in capo ai creditori in luogo di quella eventualmente prospettata in capo all'imprenditore; non si spiegherebbe, diversamente, il motivo per cui il Legislatore abbia richiesto l'espressione del giudizio di miglior soddisfacimento dei creditori.

In ordine alla specifica considerazione se la liquidazione, quale alternativa alla continuità aziendale in ambito concordatario, vada intesa in senso atomistico, oppure quale dismissione liquidatoria del compendio aziendale in (o, comunque, idoneo al) funzionamento, va osservato che per assumere quale valore di liquidazione quello di cessione del complesso aziendale, l'attestatore dovrebbe necessariamente poter ipotizzare la continuità aziendale sino alla cessione, il che, in ambito fallimentare, potrebbe avere luogo nella sola ipotesi dell'esercizio provvisorio di cui all'art. 104 l. fall.

Sull'oggetto del giudizio speciale di attestazione della miglior soddisfazione dei creditori, la giurisprudenza ha precisato che “il criterio del miglior soddisfacimento dei creditori deve essere valutato attraverso un confronto tra la proposta concordataria formulata dall'imprenditore e quella alternativa della liquidazione fallimentare, non potendo il tribunale prendere in considerazione un piano concordatario inizialmente proposto dall'imprenditore ma successivamente modificato; la scelta del piano resta, infatti, di esclusivo dominio dell'imprenditore, sicché, in assenza di una sua volontà, non potendosi coartare una diversa proposta liquidatoria, non è consentito al tribunale un confronto tra realtà effettiva e ‘realtà virtuale'” (Trib. Rovigo 27 luglio 2018. Nel senso di considerare (solo) le alternative concretamente praticabile è – tra gli altri - anche Trib. Firenze 2 novembre 2016, secondo cui Nel concordato preventivo con continuità aziendale di cui all'art. 186 bis l. fall., la migliore soddisfazione dei creditori non deve essere intesa in senso assoluto come migliore soddisfazione astrattamente possibile, con conseguente devoluzione ai creditori di ogni utilità e profitto conseguiti dall'imprenditore in continuità, bensì come trattamento più favorevole attraverso un giudizio di comparazione tra il risultato economico prospettato dalla proposta in continuità e quello ricavabile da uno scenario alternativo caratterizzato dalla discontinuità e, quindi, dalla liquidazione dell'impresa).

Nel senso sopra rappresentato si è espressa anche l'Agenzia delle Entrate - in ordine alle condizioni “giuridiche” per la falcidia dei crediti fiscali in applicazione della procedura ex art. 182 ter l. fall. – secondo cui “(...) l'attestatore si dovrà fare carico non solo del giudizio di veridicità dei dati aziendali e di sostenibilità prospettica del piano, ma anche del confronto tra i prevedibili esiti delle ipotesi alternative del concordato e della liquidazione fallimentare e tra i relativi gradi di soddisfacimento dei suddetti crediti. (…) La valutazione comparativa con l'ipotesi della totale liquidazione dei beni del debitore può̀ essere effettuata dal medesimo professionista che redige la più̀ generale relazione giurata di cui all'art. 160 l.fall. ovvero da altro professionista comunque in possesso dei requisiti di cui all'art. 67, comma 3, lett. d), l.fall.” (Circ. Agenzia delle Entrate 23.7.2018 n. 16/E, par. 5.1.2).

I Principi di attestazione, al paragrafo 7.2, precisano che nel caso di concordato che preveda la soddisfazione non integrale per i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca ai sensi dell'art. 160, comma 2, l. fall., non compete all'attestatore la pronuncia sulla convenienza della proposta del debitore per i creditori non soddisfatti integralmente.

Tale giudizio, infatti, deve emergere dalla perizia di stima ex art. 160, comma 2, l. fall. redatta dall'esperto nominato all'uopo dal debitore.

In questa fattispecie, l'attestatore è tenuto a valutare esclusivamente l'idoneità e completezza della perizia, allegata dal debitore al piano, dovendo nella propria relazione riportare la sintesi delle valutazioni e delle risultanze dello stimatore, anche in merito al presumibile ammontare delle spese di procedura, nonché della quota parte delle spese generali imputabili in diminuzione del valore di realizzo del bene o del diritto oggetto di garanzia.

L'art 160 l. fall., in tal senso, fissa due punti di riferimento essenziali per effettuare la valutazione, allorché afferma che la valutazione vada commisurata “sul ricavato in caso di liquidazione” e che bisogna avere riguardo “al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti”. Sono, dunque, i due concetti di “liquidazione” e “valore di mercato” che insieme devono costituire la linea guida da seguire nell'attività estimatoria, richiedendo l'individuazione di una sorta di presumibile valore di realizzo in sede di vendita coattiva dei beni o dei diritti.

Altro tema di assoluto rilievo per raggiungere conclusioni concretamente considerabili, è quello della individuazione del momento di riferimento della valutazione operata dall'attestatore.

A tal proposito è corretto ritenere che il valore di mercato debba essere proiettato, se possibile, alla data di effettivo presunto realizzo dei beni, secondo le modalità ed i tempi prospettati nel piano e non anche ad un intervallo temporale prossimo alla formulazione della proposta concordataria. Il momento della valutazione non deve, in realtà, mai essere confuso con quello dell'individuazione dei beni, con l'ovvia conseguenza che mentre il riferimento alla data di presentazione del ricorso assolve esclusivamente a quest'ultima esigenza, il valore degli stessi non potrà che essere accertato in chiave prospettica al verificarsi dell'effettivo realizzo, coincidente con la verosimile data di loro vendita oppure di esercizio del diritto indicata nel piano. Sennonché, è inevitabile che le difficoltà connesse tanto ad una stima futura dei valori mobiliari ed immobiliari, quanto al trascorrere del tempo, possano finire per rendere la valutazione dell'attestatore non più attuale nel momento dell'effettiva traduzione in moneta corrente del bene o del diritto su cui insiste la garanzia.

Oltre ai valori liquidativi così determinati, l'attestatore dovrà considerare anche i risultati delle possibili azioni di reintegro, di revocatoria fallimentare e di risarcimento del danno teoricamente esperibili in quella sede e non invece esperibili nell'ipotesi concordataria proposta ai creditori.

Quanto alle azioni revocatorie e di reintegro, tenuto conto della consecuzione delle due procedure considerate (domanda concordataria e scenario alternativo fallimentare), sarà necessaria una indagine sulle operazioni del semestre antecedente al deposito ricorso in bianco per ciò che attiene alle ipotesi considerate all'art. 67, comma 2, l. fall. e, invece, dell'anno antecedente per ciò che attiene alle ipotesi considerate all'art. 67, comma 1, l. fall., tenuto conto delle sostanziali esimenti di cui al comma 3 del medesimo articolo.

In via preliminare, va sottolineato che la legge fallimentare distingue, quanto al presupposto soggettivo dell'azione revocatoria, gli atti “normali” dagli atti “anormali”, vale a dire gli atti che possono essere compiuti nel normale esercizio dell'attività d'impresa dagli atti che, ancorché possano essere compiuti nel corso dell'esercizio dell'attività d'impresa, presentano delle peculiarità che li riconducono a vere e proprie anomalie gestionali dell'imprenditore. Se intende chiedere la revocatoria fallimentare di atti “normali” posti in essere dal debitore nel periodo sospetto, il curatore deve provare l'esistenza del presupposto soggettivo della conoscenza da parte del convenuto, al tempo in cui è stato concluso l'atto, dello stato di insolvenza del debitore (c.d. scientia decoctionis). Se invece agisce per la revoca di un atto “anormale”, il curatore allora non deve fornire alcuna prova della scientia decoctionis, in quanto la legge presume che il convenuto che si sia avvantaggiato dell'atto anormale fosse a conoscenza dello stato di insolvenza del debitore poi fallito.

In questo contesto, il concetto d'insolvenza va inteso nell'unico significato consentito dell'art. 5 l. fall., vale a dire come uno stato irreversibile d'incapacità a fronteggiare in modo regolare le proprie obbligazioni, manifestato all'esterno da inadempimenti o da altri fatti parimenti univoci, senza introdurre indebite confusioni con situazioni di semplice crisi o difficoltà aziendale, che non a caso il legislatore della recente riforma ha visualizzato come qualitativamente diverse ed autonome.

In aggiunta, con riferimento alla fattispecie degli “atti anormali” di cui all'art. 67, comma 1, l. fall. la giurisprudenza ha “tipicizzato” alcune fattispecie che rientrano in questa categoria, ricomprendendo l'ipotesi di datio in solutum di beni in luogo del danaro o restituzione di merci impagate (Cass., sez. I, 14 febbraio 2011, n. 3581; Cass., sez. I, 18 febbraio 2009, n. 3905). La fattispecie della datio in solutum è quella relativa al caso in cui il creditore accetti una prestazione diversa da quella pattuita, in particolare quando venga trasferito un bene in luogo del danaro.

Va innanzitutto precisato che in caso di attivazione delle indicate azioni revocatorie, la presunta la conoscenza dell'insolvenza in capo all'accipiens contenuta nel citato articolo è una “presunzione semplice”, che il soggetto chiamato in revocatoria può sovvertire fornendo la prova dell'inscientia; a tal fine, peraltro, non basterà dedurre la mancata percezione del dissesto, bensì occorrerà la prova di elementi tali da far ritenere all'accipiens che il debitore fallendo si trovasse in situazione di regolare attività (Cass., Sez. I, 11 aprile 2011, n. 8224; Cass., Sez. I, 6 agosto 2009, n. 17998) e ciò in base ad una valutazione del collegamento tra il convenuto ed i sintomi conoscibili da un soggetto di ordinaria avvedutezza, avuto riguardo anche alla contiguità territoriale e alla occasionalità o meno dei rapporti (Cass., Sez. I, 30 luglio 2014, n. 17286).

Con riferimento invece alla fattispecie di cui al all'art. 67, comma 2, l. fall., proprio in considerazione della generica normalità degli atti considerati dal capoverso dell'art. 67 l. fall., ai fini della declaratoria di inefficacia occorre sia l'organo concorsuale a fornire la prova della scientia decoctionis.

La prassi giurisprudenziale ha individuato degli indici diretti ed indiretti utilizzabili ai fini di questa prova; questi ultimi sembrano avere un ruolo meno rilevante, mentre i primi hanno una valenza più decisiva, in quanto si tratta di situazioni di cui l'accipiens ebbe percezione effettiva in quanto avvenute nell'ambito dei suoi rapporti con l'impresa insolvente.

Sono state perciò ritenuti indici diretti di scientia: gli inadempimenti sistematici (Cass., sez. I, 15 luglio 2011, n. 15686; App. Roma, 21 febbraio 2014) soprattutto se il creditore intimi perciò la risoluzione del contratto (App. L'Aquila, 12 novembre 2014); l'adempimento ottenuto con azioni giudiziarie ed esecutive (Trib. Milano 10 aprile 2013) oppurela minaccia di sospendere le forniture (Cass., sez. I, 4 ottobre 2011, n. 25161); la riscontrata presenza di ipoteche giudiziali sul bene acquistato con vendita richiesta di revoca (Cass., Sez. I, 7 ottobre 2015, n. 20110; Cass., Sez. I, 12 novembre 2013, n. 25379); la pattuizione di piani di rientro (Cass., Sez. I, 8 giugno 2012, n. 9376); il mutamento delle condizioni di pagamento con la richiesta di pagamenti anticipati (App. Milano, 27 giugno 2012, n. 2496); i protesti che si verifichino nel rapporto diretto con il fornitore (Cass., Sez. I, 24 ottobre 2012 n. 18196); per gli operatori bancari, la revoca dei fidi con richiesta di rientro (Trib. Torino, 21 febbraio 2014).

Per indici indiretti si intendono invece quelle situazioni non inerenti allo specifico rapporto con l'accipiens, ma che caratterizzano l'impresa insolvente, quali a titolo esemplificativo il riscontro di una pletora di protesti pubblicati in data anteriore al pagamento (Cass., Sez. I, 14 gennaio 2016, n. 526; Cass., sez. I, 19 marzo 2012, n. 4342), ma anche la notorietà del dissesto segnalata da organi di stampa (Trib. Novara 17 dicembre 2012; contra Trib. Roma, 13 settembre 2010) e l'evidenza della crisi manifestata nei bilanci depositati (Cass., Sez. I, 28 febbraio 2007, n. 4762). Nell'ambito dei gruppi di società, poi, si ritiene che l'insolvenza nota in capo ad altre società del gruppo possa valere a far presumere la scientia in capo all'accipiens, soprattutto se questi sia in rapporto con più società del gruppo (Cass., Sez. I, 28 aprile 2015, n. 8579; Cass., sez. I, 19 maggio 2011, n. 11059).

Come chiarito, infatti, la percezione dello stato di insolvenza, e non di semplice crisi, da parte del soggetto beneficiario dei pagamenti, diviene a tutti gli effetti una discriminante per l'azionamento delle azioni revocatorie, dovendosi accertare, nella valutazione comparativa, la possibilità che i creditori fossero a conoscenza di uno stato di crisi della società e se ne avessero con certezza percepito la gravità. La prevedibile conseguenza di questo stato di fatto, in caso di azionamento da parte della ipotetica curatela delle azioni evocatorie descritte, sarebbe l'inizio di contradditorio giudiziale nel quale, con riferimento alla fattispecie di cui al 1 comma dell'art. 67, i creditori potrebbero probabilmente argomentare la propria “inscientia decotionis”, mentre, con riferimento alla fattispecie di cui al 2 comma dell'art. 67, il curatore potrebbe trovare difficoltà nel provare, al contrario, la loro “scientia decotionis”. Nella prassi l'esercizio di queste azioni, per i motivi succintamente esposti, trova sempre percorsi molto complessi con durate ultrannuali dei relativi giudizi che normalmente impiegano dai tre ai cinque anni per arrivare ad una sentenza esecutiva, con aggiunta degli ulteriori tempi necessari per l'esecuzione, il tutto accompagnato dall'incertezza sia del giudizio sia della consistenza patrimoniale “ab origine” dei potenziali convenuti, sia del suo effettivo mantenimento di valore, nel corso del tempo, tenuto conto delle ampie durate descritte.

Per questo motivo, sia prima che durante i giudizi di questa natura, sono frequenti le chiusure transattive del contendere che secondo una esperienza diretta, condivisa informalmente anche con altri professionisti, si attestano su valori medi inferiori al 50% del petitum, questo potendo essere il punto finale di caduta per calcolare il valore di liquidazione dei diritti revocatori.

Il valore così calcolato, tuttavia, non può che essere considerato come un mero supporto informativo ai creditori e agli organi della procedura per consentire, in particolare ai creditori, di formare il proprio giudizio di voto tenendo conto di tutti gli aspetti rilevanti sulla materia e, data la complessità della materia, non può essere considerato come un risultato ottenibile con certezza.

Per la disamina dei risultati astrattamente raggiungibili dai creditori nello scenario liquidatorio alternativo all'operazione di concordato, l'attestatore deve procedere anche a valutare l'esistenza di atti potenzialmente censurabili posti in essere dagli organi societari di gravità tale da consentire la possibile promozione, da parte della ipotecata procedura fallimentare, di ipotetiche azioni risarcitorie nei loro confronti aumentando così l'attivo a disposizione dei creditori sociali.

Esattamente come per i diritti revocatori, i risultati di questo esame devono essere considerati come mero esercizio svolto a favore dell'ampliamento del fronte informativo per i creditori, atteso che dall'eventuale esercizio di queste potenziali azioni, come anche previsto nei Principi, potrebbe non derivare un vantaggio differenziale a favore dei creditori rilevante ai fini del loro “maggior soddisfacimento”, essendo in astratto esercitabili da parte loro le azioni di risarcimento anche in caso di omologa del concordato.

Nella conduzione dell'analisi in parola, l'attestatore dovrà considerare alcuni necessari principi, tra cui quelli in base ai quali: ogni atto dell'impresa è, in astratto, idoneo a incidere – potenzialmente pregiudicandolo sino a renderlo insufficiente – sul patrimonio di una società ed è dunque valutabile ai fini dell'affermazione della responsabilità di chi lo abbia posto in essere, fermo restando il principio della insindacabilità nel merito, ad opera del giudice, delle scelte di gestione (c.d. business judgement rule cfr., ex multis, Cass. n. 1783/2015, Cass. n. 18231/2009, Cass. n. 3409/13 e Cass. n. 3652/1997); la responsabilità dell'amministratore (e/o dei soggetti ai quali la disciplina è estesa) potrà essere ravvisata solo ove il giudice, valutandone la condotta con riferimento al momento in cui la stessa è stata posta in essere (dunque ex ante), la giudichi non conforme a diligenza (Cass. n. 17441/2016 e, nel merito, Trib. Roma 25 settembre 2018 e Trib. Genova, 3.10.2017); a seguito dell'esperimento dell'azione da parte di soggetto a ciò titolato, l'oggetto di sindacato da parte del giudice non potrà avere ad oggetto la convenienza e/o l'utilità di un atto in sé – né il risultato che lo stesso abbia eventualmente prodotto – bensì unicamente le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve essere riconosciuto agli amministratori, laddove le decisioni oggetto di esame non siano state assunte all'esito di un iter formativo e conoscitivo caratterizzato da un sufficiente grado di diligenza, in mancanza del quale la condotta “non informata” dell'organo gestorio diventa fonte di sua responsabilità; ovviamente, non tutti i comportamenti illeciti degli amministratori (e/o dei soggetti ai quali la disciplina è estesa) possono dar luogo a responsabilità risarcitoria, ma solo quelli che abbiano causato il danno sofferto dal patrimonio sociale; questo danno deve essere legato da un nesso eziologico agli illeciti commessi e va imputato soggettivamente, per dolo o colpa, ai soggetti ritenuti responsabili (Cass. n. 15847/2000 e, conforme, ex multis, Cass. n. 20476/2008); con specifico riguardo alla responsabilità derivante da illecita prosecuzione dell'attività sociale, occorre verificare se la perdita incrementale emergente dalle rettifiche bilancistiche è integralmente riconducibile (o meno) “alle nuove operazioni poste in essere o se essa in parte si sarebbe ugualmente determinata, anche se la società fosse stata correttamente posta in liquidazione o ne fosse stato dichiarato il fallimento” (Cass. n. 16211/2007); in tema di quantificazione del danno nell'azione di responsabilità, se è vero che il novellato art. 2486 c.c. ne consente una determinazione presuntiva in misura pari al patrimonio netto fallimentare o al differenziale tra patrimoni netti (quello alla data di presunta perdita del capitale sociale e quello fallimentare), è altrettanto vero che questa norma pur comportando, nella sostanza, una inversione dell'onere della prova, non impedisce di contestare tanto la specifica violazione dei doveri imposti dalla legge, quanto la correlazione tra tali violazioni e il pregiudizio arrecato alla società; in sede di azione risarcitoria fallimentare, dovrà, quindi, accertarsi il nesso di causalità tra le condotte illecite e il danno riferibile a siffatte condotte, con sua determinazione nell'ammontare che, di regola, viene determinato mediante consulenza tecnica d'ufficio.

Su queste basi, l'attestatore è chiamato a procedere non solo all'approfondimento delle operazioni e situazioni specifiche per le quali nel ricorso è stata data “disclosure”, ma anche all'esame dei libri sociali, delle decisioni del consiglio di amministrazione, delle principali movimentazioni contabili ad esse riferite, delle rilevazioni dei verbali dell'organo di controllo, dei documenti e delle delibere relative alle operazioni societarie straordinarie, il tutto riferito al quinquennio anteriore all'apertura della procedura concordataria per verificare la possibile esistenza, o meno, di operazioni censurabili.

Volendo illustrare, al solo scopo informativo, gli effetti ipotetici dell'esistenza di una responsabilità gravante sugli organi sociali relativa al ritardo nelle assunzioni dei rimedi di legge rispetto allo stato di crisi della società, l'attestatore è richiesto d'identificare non solo specifici atti gestori sindacabili, ma anche il momento in cui l'organo amministrativo avrebbe dovuto attivare i rimedi di legge in via anticipata rispetto alla determinazione di avviare una procedura concordataria. In questo caso, e ovviamente sul presupposto della dimostrazione da parte del curatore della prova dell'efficienza causale dell'attività amministrativa e di controllo in relazione alla situazione acclarata, l'attestatore dovrà poi applicare il contenuto dell'art. 2486 cc con il criterio dei c.d. netti patrimoniali, il quale comporta una comparazione tra la situazione patrimoniale alla data di ritenuta perdita del capitale sociale e la situazione patrimoniale fallimentare, considerando quale pregiudizio imputabile ai responsabili, la differenza negativa che si registra, al netto degli oneri che sarebbero comunque maturati in caso di immediata messa in liquidazione della società e delle conseguenze che non avrebbero potuto essere soggettivamente percepite da parte di un diligente amministratore o sindaco.

In particolare, questa simulazione, presuppone di assumere, nell'ordine, la data in cui i provvedimenti (messa in liquidazione per impossibilità di prosecuzione dell'attività e/o perdita del capitale sociale) avrebbero dovuto essere assunti, il ricalcolo del patrimonio netto (differenza tra attivo e passivo) rettificando i dati di bilancio con criteri di liquidazione ed il calcolo della differenza tra attivo e passivo alla data di deposito della domanda in bianco, individuando in tal modo un dato differenziale che, in via del tutto teorica, potrebbe rappresentare l'aumento della massa passiva nel periodo considerato. Questa differenza, dovrebbe poi rettificata in riduzione, tenendo conto degli oneri che comunque sarebbero stati sostenuti dopo la messa in liquidazione.

Compiuta questa operazione matematica ed ai fini della responsabilità derivante da illecita prosecuzione dell'attività sociale, l'attestatore dovrà poi verificare se la perdita incrementale è integralmente riconducibile “alle nuove operazioni poste in essere o se essa in parte si sarebbe ugualmente determinata, anche se la società fosse stata correttamente posta in liquidazione o ne fosse stato dichiarato il fallimento” (Cass. n. 16211/07). In ossequio al principio di causalità (ribadito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9100/2015), al fine di imputare all'amministratore colpevole il danno effettivamente derivato dall'illecita prosecuzione dell'attività, occorrerà dunque confrontare i bilanci – vale a dire quello relativo al momento in cui si è realmente verificata la causa di scioglimento e quello della messa in liquidazione (ovvero in mancanza del fallimento) – dopo avere effettuato, non solo le rettifiche volte a elidere le conseguenze della violazione dei criteri di redazione degli stessi, cioè l'occultamento della perdita ma pure, quelle derivanti dalla necessità di porsi nella prospettiva della liquidazione, visto che proprio alla liquidazione, se si fosse agito nel rispetto delle regole, si sarebbe dovuti giungere.

Anche in questo caso, come quello precedente evidenziato relativo alle possibili revocatorie, l'esercizio di queste azioni trova sempre percorsi molto complessi con durate ultrannuali dei relativi giudizi che normalmente impiegano dai tre ai cinque anni per arrivare ad una sentenza esecutiva, con aggiunta degli ulteriori tempi necessari per l'esecuzione, il tutto accompagnato dall'incertezza sia del giudizio sia della consistenza patrimoniale “ab origine” dei potenziali convenuti, sia del suo effettivo mantenimento di valore, nel corso del tempo, tenuto conto delle ampie durate descritte; il tutto senza dimenticare la circostanza che, nella maggior parte dei casi (e soprattutto in quelli in cui le pretese della curatela vengono contestate in giudizio con motivazioni sostenibili), i giudizi risarcitori tendono a risolversi in via transattiva, mediante il versamento – a tutto concedere – di un importo in favore del fallimento, a tacitazione di ogni sua pretesa risarcitoria, che potrebbe attestarsi, secondo quelle che sono le prassi in caso di transazioni di questo tipo, in una percentuale tra il 5% e il 30% dell'ammontare complessivo del petitum azionato in giudizio.

Per concludere il panorama informativo sulle azioni risarcitorie, l'attestatore dovrà riportare l'elenco dei soggetti che risultavano in carica nel periodo di riferimento, enunciando anche il risultato delle ricerche patrimoniali svolte.

Volendo trarre le fila di quanto sinora osservato, è ragionevole concludere nel senso che: il giudizio comparativo tra una proposta concordataria e l'alternativa fallimentare non si può tradurre in un semplice raffronto tra l'ammontare del ripagamento concordatario proposto e la sommatoria dei valori liquidativi, ma deve invece tradursi nel raffronto tra l'ammontare del ripagamento concordatario proposto ed il valore di liquidazione giudiziale dei diritti astrattamente liquidabili ed azionabili, tale intendendosi il risultato concretamente ricavabile da un creditore attraverso la promozione di una esecuzione forzata nei confronti dei patrimoni e/o delle assicurazioni dei soggetti ritenuti responsabili; questo risultato deve essere, poi, soggetto ad una necessaria attualizzazione che tenga conto del tempo necessario per conseguire l'anzi detto risultato liquidativo; l'esercizio di un'azione revocatoria e di responsabilità, nella maggior parte delle ipotesi, tende a concretizzarsi in un percorso processualmente complesso, che prende dapprima avvio da una fase stragiudiziale, e che prosegue poi mediante l'instaurazione di un procedimento giudiziale di durata ultrannuale (normalmente tali processi impiegano dai quattro ai sette anni per arrivare ad una prima sentenza esecutiva); dopodiché, sempre in tema di tempistiche di recupero, una volta ottenuta una sentenza esecutiva nei confronti dei soggetti individuati come responsabili, è necessario porre la medesima in esecuzione; il che crea un ulteriore dilatazione di tempi (e di costi) che devono essere sopportati dal creditore.

Su queste basi e per poter affermare che la proposta concordataria consenta il migliore soddisfacimento per i creditori, l'attestatore dovrà considerare, nell'ordine: valori assoluti, nel senso che la proposta concordataria permette, previsionalmente, di garantire per la massa debitoria una percentuale di recupero media che sia maggiore rispetto all'alternativa fallimentare, considerando gli incrementi dipendenti dal caso di positivo esito delle azioni revocatorie e risarcitorie; ragionevolezza di incasso delle somme, nel senso di comparare le tempistiche di incasso concordatario con le tempistiche di incasso fallimentare, collegando quest'ultimo all'esito di azioni giudiziali, anche eventualmente transattivo, di assoluta complessità e quindi più incerto sia nel valore che nella tempistica degli incassi previsti nella proposta concordataria; aspetto qualitativo del migliore soddisfacimento dei creditori, nel senso che, vanno considerate, nel giudizio comparativo, tutte le ipotesi di convenienza per i creditori, ivi incluse quelle non esprimibili in termini meramente monetari, giacché la migliore soddisfazione deve essere rapportata al carattere soggettivo dei creditori, tanto che – anche a fronte di una falcidia concordataria – la continuità ne consente la compensazione grazie al beneficio di una qualche diversa utilità quale la prosecuzione dei rapporti che, a tutti gli effetti, rappresentano un valore anche patrimoniale per i creditori stessi; impatto sociale sul territorio della continuità, nel senso di considerare le conseguenze del fallimento in termini di conservazione dell'occupazione a favore di dipendenti che nello scenario alternativo si troverebbero, in tempi differenziati nel tempo, a dover trovare un nuovo impiego in un contesto di difficoltà come quello in cui si opera oggi a livello nazionale.

Conclusioni

In tema di concordato preventivo in continuità aziendale, se fondato su di un contratto di management alberghiero, deve essere revocato il decreto di ammissione ai sensi dell'art. 163 qualora risulti che il regolamento negoziale partecipa delle caratteristiche proprie del contratto di affitto di azienda, non sia aperto alla competizione ai sensi dell'art. 163 bis l. fall., veda una prevalenza di flussi liquidativi a servizio del debito concordatario, a seguito della vendita con successiva retrocessione in locazione dell'immobile strumentale, manchi il rispetto della soglia minima di soddisfazione prevista dall'art. 160, comma 2, l. fall., e l'attestatore non si sia espresso sulla quantificazione dei flussi ricavabili nello scenario alternativo concretamente praticabile.

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