Corte costituzionale: illegittimo il visto di censura della corrispondenza tra difensore e sottoposto al 41-bis

Luigi Kalb
10 Marzo 2022

Una sentenza attesa della Corte costituzionale sulla priorità del diritto di difesa: illegittimo il visto di censura della corrispondenza tra difensore e sottoposto al regime di cui all'art. 41-bis ord. penit.
Massima

E' costituzionalmente illegittimo l'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e), legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori.

Il caso

Con decreto del 12 maggio 2020 il Presidente del tribunale ordinario di Locri ha disposto il trattenimento di un telegramma indirizzato dal detenuto al proprio difensore di fiducia, ai sensi dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e), ord. penit., che consente di adottare nei confronti dei detenuti sottoposti al relativo «regime speciale di detenzione» «la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia».

Con successiva ordinanza del 9 luglio 2020 lo stesso tribunale ha poi rigettato il reclamo presentato dal detenuto avverso tale decreto, in ragione della sussistenza di un «pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica, connesso all'ambiguità del contenuto della missiva, composta da una serie di periodi non legati da un filo logico in grado di rendere coerente e comprensibile il testo nella sua interezza». L'interessato - condannato in primo grado alla pena di venticinque anni di reclusione perché ritenuto esponente di vertice di un'associazione di stampo mafioso, detenuto in regime differenziato di cui all'art. 41-bis ord. penit. - ha contestato l'illegittimità della motivazione con cui il tribunale ha confermato il provvedimento di trattenimento, proponendo ricorso per cassazione nei confronti dell'ordinanza adottata.

La prima sezione della Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in merito alla previsione determinante il visto di censura, in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 111 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), «nella parte in cui prevede, per i detenuti sottoposti al regime di cui al comma 2 e seguenti dello stesso art. 41-bis ord. penit., la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, senza escludere quella indirizzata ai difensori».

La questione

La questione sottoposta al controllo di legittimità da parte della Corte costituzionale rende opportuno, in via preliminare, ricostruire il quadro normativo che regolamenta l'adozione di eventuali controlli sulla corrispondenza nei confronti delle persone private della libertà personale, in quanto detenuti o internati.

Il controllo sulla corrispondenza dei detenuti e degli internati è disciplinato, in via generale, dall'art. 18-ter ord. penit., secondo il quale - per esigenze attinenti alle indagini o investigative o di prevenzione dei reati ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell'istituto - possono essere disposti, nei confronti dei singoli detenuti o internati, per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile per periodi non superiori a tre mesi, limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica, la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo oppure il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima. I provvedimenti sono adottati con decreto motivato, su richiesta dell'ufficio del pubblico ministero o su proposta del direttore dell'istituto, nei confronti dei condannati e degli internati, dal magistrato di sorveglianza, e nei confronti degli imputati destinatari di una misura cautelare, dal giudice che procede.

Va sottolineato che l'art. 18-ter, comma 2, ord. penit., esclude espressamente ogni forma di controllo e di limitazione della corrispondenza indirizzata ai soggetti indicati dall'art. 103, comma 5, c.p.p., tra cui rientrano i difensori. Si tratta, pertanto, di una deroga che preclude l'applicazione delle misure limitative qualora la corrispondenza epistolare o telegrafica sia indirizzata ai difensori, agli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, nonché ai consulenti tecnici e ai loro ausiliari, soggetti rispetto ai quali l'art. 103, comma 5, c.p.p. vieta in via generale l'intercettazione delle conversazioni o comunicazioni con l'imputato.

Il quadro normativo è completato dalla previsione dell'articolo 41-bis, ord. penit., destinata a sospendere l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge di ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti o internati per taluni delitti, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale, terroristica o eversiva. In particolare, il comma 2-quater precisa che la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti prevede, tra le altre misure, «la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia» (lett. e).

Dal confronto normativo emerge con chiarezza tanto la comune previsione della sottoposizione a visto della corrispondenza nei confronti di detenuti e internati, quanto il differente ambito soggettivo in cui ne risulta preclusa l'operatività: il difensore e gli altri professionisti indicati nell'art. 103, comma 5, c.p.p. nell'ipotesi prevista dall'art. 18-ter ord. penit.; i membri del Parlamento o le autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia, nell'ipotesi di cui all'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e) ord. penit.

A questa prima constatazione, ne segue altra in via conseguenziale, atteso che il legislatore non ha mai espressamente chiarito quale rapporto intercorra tra la previsione della «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza» dei detenuti e internati sottoposti al regime di cui all'art. 41-bis ord. penit. e la disciplina sui «controlli della corrispondenza» applicabile alla generalità dei detenuti e internati, contenuta nell'art. 18-ter ord. penit.

Come sottolineato dalla stessa Corte costituzionale in sede di valutazione della questione di legittimità, la lettura coordinata delle due disposizioni genera inevitabili interrogativi: da un lato, se anche rispetto a tutti i detenuti e internati in regime differenziato ex art. 41-bis ord. penit. valga il divieto, posto in via generale dall'art. 18-ter, comma 2, ord. penit., di disporre le misure previste dal comma 1 con riferimento alla corrispondenza epistolare o telegrafica ove siano coinvolti i soggetti indicati dall'art. 103, comma 5, c.p.p., tra cui segnatamente i difensori del singolo detenuto o internato; dall'altro lato, se, quanto meno in riferimento ai soli imputati in custodia cautelare sottoposti al regime di cui all'art. 41-bis ord. penit., continui a valere il divieto di ogni forma di controllo della corrispondenza fra costoro e i rispettivi difensori posto dall'art. 103, comma 5, c.p.p.

Seppur dal diritto vivente sembrerebbero potersi ricavare indicazioni favorevoli a ritenere operante un generale divieto al visto di corrispondenza ove questa riguardasse il difensore – sulla scorta di quanto previsto dalla circolare del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017 e di quanto sostenuto poi dalla Cassazione, seppur in via indiretta (Cass. pen., sez. I, 22 giugno 2020, n. 23820; Cass. pen., sez. I, 20 febbraio 2019, n. 21737; Cass. pen., sez. I, 28 febbraio 2019, n. 27571) – occorre riflettere sulla questione posta dal giudice a quo.

La ricostruzione del quadro sistematico proposto dal giudice remittente evidenzia un chiaro rapporto tra la previsione generale di cui all'art. 18-ter ord. penit. e quella, in deroga, specificata dall'art. 41-bis ord. penit. in ordine al diverso ambito soggettivo di inoperatività del visto di corrispondenza. Se ne deduce che, al di fuori delle ipotesi tassative determinanti il divieto del visto e del conseguente trattenimento della corrispondenza, la disposizione dell'art. 41-bis ord. penit. – che, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, si atteggerebbe a lex specialis rispetto all'art. 18-ter ord. penit. (Cass. pen., sez. I, 17 maggio 2018, n. 51187 e Cass. pen., sez. I, 21 novembre 2012, n. 48365) – «consentirebbe all'autorità preposta non solo di prendere visione della generalità della corrispondenza del detenuto o dell'internato, compresa quella con il proprio difensore; ma anche di bloccarne l'inoltro, ovvero di non procedere alla sua consegna al detenuto o all'internato».

La Corte costituzionale non ha potuto fare a meno di rilevare che «in difetto di un orientamento chiaro e consolidato della giurisprudenza di legittimità in senso contrario, idoneo ad assurgere a diritto vivente, la soluzione interpretativa assunta a base dell'ordinanza di rimessione appare non solo plausibile, ma anche – a ben guardare – come la più conforme al dato letterale della disposizione censurata».

La verifica sulla compatibilità costituzionale della norma censurata parte, pertanto, dalla constatazione che il visto di censura della corrispondenza di cui all'art. 41-bis ord. penit. elenca in modo apparentemente tassativo le ipotesi di sottrazione a tale visto, in deroga alle altre disposizioni ove i divieti di controllo della corrispondenza si riferiscono ad un più ampio novero di soggetti “qualificati” per la generalità dei detenuti o internati (art. 18-ter ord. penit.), ovvero per la generalità degli imputati (art. 103, comma 6, c.p.p.).

Le soluzioni giuridiche

Dopo la presa d'atto della ricostruzione normativa formulata dal giudice a quo e la riconosciuta ammissibilità della questione sollevata, la Corte è pervenuta alla declaratoria di illegittimità dell'art. 41-bis ord. penit. sulla scorta di una serie di argomentazioni che meritano di essere approfondite, innanzitutto perché consacrano la centralità del diritto di difesa nell'attuale modello processuale; infine, perché evidenziano il ritardo con il quale si è posto rimedio ad un deficit di costituzionalità da tempo annunciato.

La pronuncia della Corte pone alla base della declaratoria di illegittimità la portata del diritto di difesa, così come risultante dall'elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU e dello stesso Giudice delle leggi.

Secondo quest'ultimo organo, non c'è alcun dubbio che il diritto di difesa costituisca un «principio supremo» dell'ordinamento costituzionale (Corte cost., n. 238/2014, Corte cost., n. 232/1989 e Corte cost., n. 18/1982), comprendente il diritto, ad esso strumentale, di conferire con il difensore (Corte cost., n. 216/1996), «allo scopo di predisporre le difese e decidere le strategie difensive, ed ancor prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall'ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti» (Corte cost., n. 212/1997).

Sul punto, la Corte costituzionale ha altresì evidenziato come tale diritto «assuma una valenza tutta particolare nei confronti delle persone ristrette in ambito penitenziario, le quali, in quanto fruenti solo di limitate possibilità di contatti interpersonali diretti con l'esterno, vengono a trovarsi in una posizione di intrinseca debolezza rispetto all'esercizio delle facoltà difensive» (Corte cost., n. 143/2013).

Ulteriori riflessioni a conforto dell'inscindibile rapporto strumentale tra riservatezza delle comunicazioni ed effettivo esercizio del diritto di difesa pervengono dalla giurisprudenza sovranazionale.

Da tempo, infatti, la Corte EDU ha sostenuto che l'esercizio del diritto alla riservatezza delle proprie comunicazioni – così come garantito dall'art. 8 CEDU (Corte EDU, 25 marzo 1992, Campbell contro Regno unito, par. 54, nonché Corte EDU, 24 maggio 2018, Laurent contro Francia, par. 49) – è funzionale anche a esercitare il diritto alla difesa tecnica sancito dall'art. 6, par. 3, lett. c), CEDU in capo ad ogni persona accusata di un reato. Pertanto, ne risulterebbe concretamente inficiato l'esercizio ove fosse precluso all'interessato di comunicare liberamente con il proprio avvocato (Corte EDU, 20 giugno 1988, Schönenberger e Durmaz contro Svizzera, par. 29 e, ancor prima, Corte EDU, 21 febbraio 1975, Golder contro Regno Unito, par. 45).

Quanto ciò fosse ancora più rilevante nei rapporti tra detenuti e difensore è stato più volte sottolineato sempre dalla Corte di Strasburgo: se un avvocato non potesse conferire con il suo cliente e ricevere da lui istruzioni riservate al riparo della sorveglianza da parte dell'autorità, risulterebbe inevitabilmente compressa la sua assistenza tecnica, fino al punto da perdere gran parte della sua utilità, in contrasto con quanto consacrato dalla Convenzione che mira a garantire diritti concreti ed effettivi (Corte EDU, 28 novembre 1991, S. contro Svizzera, par. 48; in senso analogo, Corte EDU, 27 novembre 2007, Zagaria contro Italia, par. 36; Corte EDU, Grande Camera, 12 maggio 2005, Öcalan contro Turchia, parr. 133 e 135). A tal proposito, la Corte EDU non ha mancato di sottolineare come tale assistenza tecnica risulti particolarmente indispensabile rispetto alla necessità di assicurare la tutela del detenuto contro eventuali abusi delle autorità penitenziarie (Corte EDU, 30 gennaio 2007, Ekinci e Akalin contro Turchia, par. 47; Corte EDU, 25 marzo 1992, Campbell, par. 47).

Tutto ciò trova consacrazione anche in atti sovranazionali – come già rimarcato dalla Corte costituzionale nella sent. n. 143/2013 – atteso che «il diritto del detenuto a conferire con il difensore forma oggetto di esplicito e puntuale riconoscimento nella raccomandazione R (2006)2 del Consiglio d'Europa sulle “Regole penitenziarie europee”, adottata dal Comitato dei Ministri l'11 gennaio 2006, che riferisce distintamente il diritto stesso tanto al condannato (regola numero 23) che all'imputato (regola numero 98)».

Le argomentazioni addotte dalla Corte meritano la piena condivisione nella misura in cui ripropongono una lettura della portata dei diritti fondamentali nel rispetto del principio del bilanciamento.

Anche a proposito del diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni con il proprio difensore gli insegnamenti della Corte costituzionale consentono di affermare che tale diritto non sia assoluto, e pertanto che siano configurabili possibili bilanciamenti con altri interessi costituzionalmente garantiti, purchè entro i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità, e in ogni caso a condizione che non risulti compromessa l'effettività del diritto alla difesa (Corte cost., n. 143/2013). La tesi trova conforto anche nelle pronunce della Corte EDU, che considera in linea di principio ammissibili limitazioni al diritto in questione, purché fondate su un'idonea base legale, e purché proporzionate rispetto ai fini legittimi perseguiti dal legislatore (cfr. ancora Corte EDU, Ekinci e Akalin contro Turchia, e Campbell, par. 34).

Tale linea interpretativa viene recepita anche a proposito della generalità delle limitazioni dei diritti fondamentali imposte ai detenuti o internati sottoposti al regime differenziato di cui all'art. 41-bis ord. penit.

La compatibilità costituzionale di tali limitazioni – sensibilmente più onerose di quelle imposte ai detenuti e internati «comuni» – è giustificata soltanto in quanto appaiano, da un lato, funzionali rispetto alla peculiare finalità del regime speciale in parola, che mira non già ad assicurare un surplus di punizione per gli autori di reati di speciale gravità, bensì esclusivamente a contenere la persistente pericolosità di singoli detenuti, «in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà» (Corte cost., n. 97/2020); e, dall'altro, non risultino sproporzionate, in quanto eccessive rispetto a tale scopo legittimo, e irragionevolmente gravose rispetto ai diritti fondamentali di cui restano titolari anche le persone sottoposte al regime differenziato di cui all'art. 41-bis ord. penit., ovvero siano tali da vanificare del tutto la funzione rieducativa della pena; o ancora si risolvano, addirittura, in trattamenti contrari al senso di umanità (v. la stessa sentenza Corte cost., n. 97/2020, nonché Corte cost., n. 197/2021, Corte cost., n. 186/2018, Corte cost., n. 376/1997 e Corte cost., n. 351/1996).

Osservazioni

Le soluzioni giurisprudenziali fin qui riportate hanno costituito le linee guida utilizzate dalla Corte per effettuare il controllo di legittimità costituzionale riguardante la limitazione del diritto di comunicare liberamente, e in maniera confidenziale, con il proprio difensore, conclusosi con la riconosciuta illegittimità dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e), ord. penit., per contrasto con l'art. 24 Cost., «nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori».

Le conclusioni della Corte sollecitano due distinte osservazioni che si collegano, rispettivamente, all'incidenza di una precedente decisione della Corte stessa sulla questione ora esaminata e al riconoscimento «valoriale» da attribuire alla funzione svolta dal difensore.

Innanzitutto, non può mettersi in dubbio come risulti determinante la risalente declaratoria di illegittimità pronunciata con la sentenza Corte cost. n. 143/2013, a tal punto da far ipotizzare che quella ora presa in esame risulti, a dir poco, scontata o comunque annunciata.

La Corte si era già occupata dei rapporti tra difensore dei detenuti e internati in regime differenziato ex art. 41-bis ord. penit., in particolare dei rigidi limiti quantitativi settimanali posti ai colloqui, dichiarando l'illegittimità costituzionale del relativo comma 2, lett. b), per contrasto con l'art. 24 Cost., in quanto la disciplina realizzava un irragionevole decremento di tutela di un diritto fondamentale (quello alla difesa tecnica), cui non faceva riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango (quello alla salvaguardia dell'ordine pubblico e della sicurezza).

Dopo aver sottolineato come i colloqui con i difensori – diversamente da quelli con i familiari e conviventi o con terze persone – restino sottratti all'ascolto e alla videoregistrazione, la Corte ha constatato che i limiti di cadenza e di durata normativamente stabiliti risultavano suscettibili di penalizzare la difesa, ma non idonei «ad impedire, nemmeno parzialmente, il temuto passaggio di direttive e di informazioni tra il carcere e l'esterno, né a circoscrivere in modo realmente significativo la quantità e la natura dei messaggi che si paventano scambiabili, per il tramite dei difensori, nell'ambito dei sodalizi criminosi».

A questo proposito, la Corte opportunamente sottolineò come l'eventualità che persone pur «appartenenti ad un ordine professionale (quello degli avvocati), tenute al rispetto di un codice deontologico nello specifico campo dei rapporti con la giustizia e sottoposte alla vigilanza disciplinare dell'ordine di appartenenza», si prestino a fungere da tramite fra il detenuto e i membri dell'organizzazione criminale, «se non può essere certamente esclusa a priori, neppure può essere assunta ad una regola di esperienza, tradotta in enunciato normativo: apparendo, sotto questo profilo, la situazione significativamente diversa da quella riscontrabile in rapporto ai colloqui con persone legate al detenuto da vincoli parentali o affettivi, ovvero con terzi non qualificati».

Ebbene proprio una lettura complessiva delle misure connesse al regime speciale di cui all'art. 41-bis ord. penit. – finalizzate essenzialmente a impedire che il detenuto o l'internato possa continuare a intrattenere rapporti con l'organizzazione criminale di appartenenza – ha indotto ora la Corte, inevitabilmente, a dichiarare l'incostituzionalità del visto di censura della corrispondenza in quanto «si appalesa del tutto inidonea a tale scopo, dal momento che il temuto scambio di informazioni tra difensori e detenuti o internati potrebbe comunque avvenire nel contesto dei colloqui visivi o telefonici, oggi consentiti con il difensore in numero illimitato, e rispetto al cui contenuto non può essere operato alcun controllo».

L'inevitabilità dell'attuale pronuncia deriva dall'ulteriore constatazione che il visto di censura della corrispondenza incide «sul diritto fondamentale del detenuto o internato in misura ancora più gravosa rispetto a quella giudicata costituzionalmente illegittima dalla menzionata sentenza Corte cost. n. 143/2013, non ponendo meri limiti quantitativi ma potendo addirittura impedire che talune comunicazioni giungano al proprio destinatario», il che appare certamente eccessivo rispetto allo scopo perseguito, dal momento che sottopone a controllo preventivo tutte le comunicazioni del detenuto con il proprio difensore.

Senza tralasciare l'ulteriore osservazione – sempre sotto il profilo dell'ingiustificata compressione del diritto di difesa – riguardante gli effetti della misura nei confronti dei detenuti meno abbienti. Per costoro, soprattutto se trattenuti in un istituto penitenziario distante dalla residenza del proprio difensore di fiducia, è facile ipotizzare che la corrispondenza epistolare possa costituire il principale mezzo a disposizione per comunicare con lo stesso difensore.

Il sostanziale collegamento che intercorre tra l'attuale pronuncia e quella del 2013 – a conferma della prevedibilità di quest'ultima decisione, concretizzatasi stranamente solo dopo un significativo lasso di tempo intercorso dalla prima declaratoria – permette di formulare anche l'altra osservazione.

Merita una particolare attenzione la chiara presa di posizione della Corte in ordine al ruolo e alla funzione svolta dal difensore rispetto all'astratta previsione che il detenuto o l'internato possa continuare a intrattenere rapporti con l'organizzazione criminale di appartenenza – impartendo ordini o istruzioni – anche attraverso l'intermediazione di un difensore, al punto da giustificare così l'estensione alle comunicazioni con i difensori del visto di censura, ove, in astratto, la si ritenesse misura funzionale a ridurre il rischio di un tale evento.

Va indubbiamente apprezzato l'approccio interpretativo adottato sul punto dalla Corte, già nel 2013 e convintamente ribadito ora nella sentenza in esame.

Nel far proprie le osservazioni presentate dall'associazione “Italiastatodidiritto” in qualità di amicus curiae, la Corte rileva come la disposizione censurata si fondi «su una generale e insostenibile presunzione – già stigmatizzata dalla sentenza Corte cost. n. 143/2013 – di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso».

In questo passaggio si coglie il punto più significativo della decisione: il rifiuto della «presunzione di collusione» e la sua totale «insostenibilità» costituiscono i naturali corollari del riconosciuto valore della funzione del difensore all'interno dello stato di diritto.

Per tale motivo la sentenza della Corte – al di là dell'attesa intercorsa a causa anche di un mancato intervento del legislatore, spesso poco attento a rimediare ai deficit dei diritti fondamentali emersi nella prassi – merita totale condivisione anche perché offre all'intera comunità sociale una lettura costituzionalmente orientata che oppone alle soluzioni unilaterali, di stampo emergenziale, una risposta ispirata all'insostituibile «bilanciamento» dei diritti in gioco.