La “concessione abusiva di credito” e la sua evoluzione tra principi generali, giurisprudenza e prassi

Marco Terenghi
11 Marzo 2022

Per “concessione abusiva di credito” si intende quel particolare fenomeno dove un finanziatore (normalmente una banca) concede credito ad un soggetto ormai in situazione di insolvenza o di crisi irreversibile - e come tale immeritevole di ulteriore supporto creditizio -, con l'effetto di ritardare l'emersione del dissesto e l'apertura di una procedura concorsuale e con il conseguente pregiudizio sia per l'impresa stessa, sia per il ceto creditorio. L'articolo svolge un approfondimento del fenomeno, dall'inquadramento generale alla sua evoluzione nelle disposizioni normative, negli orientamenti giurisprudenziali, di legittimità e di merito, e nella prassi, evidenziando infine le prospettive di evoluzione.
Inquadramento generale e sviluppo

Con l'espressione, ormai ampiamente diffusa tra gli operatori, di “concessione abusiva di credito” si tende a descrivere quel particolare fenomeno dove un finanziatore (normalmente una banca) concede credito (sia accordando nuove fonti di liquidità, sia mantenendo in essere quelle preesistenti) ad un soggetto ormai in situazione di insolvenza (o di crisi irreversibile) e come tale immeritevole di ulteriore supporto creditizio, violando così sia le norme di condotta imposte dall'ordinamento al “prudente banchiere” ed i canoni di diligenza professionale, sia il divieto generale del neminen laedere, con l'effetto di ritardare l'emersione del dissesto e l'apertura di una procedura concorsuale, e con il conseguente pregiudizio sia per l'impresa stessa, sia per il ceto creditorio, danneggiato dal progressivo impoverimento del debitore (per una prima ricognizione in argomento Balestra, Responsabilità per abusiva concessione del credito e legittimazione del curatore, in Balestra (a cura di), Le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali, Milano, 2016, 191 ss.; Id., Crisi d'impresa e abusiva concessione del credito, in Giur. comm., 2013, I, 109; Russo, Legittimazione del curatore all'azione per “abusiva” concessione del credito, in Dir. fall., 2006, 615 ss.; Inzitari, De Pretis, Abusiva concessione di credito, legittimazione del curatore, danno alla massa ed al soggetto finanziato, in Dir. fall., 2018, 1035 ss.; Falcone, Concessione abusiva di credito e concorso della banca nel ricorso abusivo al credito, Il Fallimento, 2020, 812; Lepre, Brevi note sull'abusiva concessione del credito: tra contratto lecito ma illecito e contratto illecito ma efficace, in Nuove leggi civ., 2020, 491 ss.; Tagnani - Volpi, Concessione ed interruzione abusiva del credito: nuovi profili di responsabilità della banca nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in Contr. e impr., 2020, 225 ss.; Dimundo, Le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali, Milano, 2019, 51 ss.; Inzitari, Il curatore è legittimato all'azione di responsabilità verso gli amministratori e la banca per abusiva concessione di credito e aggravamento del dissesto, in Dir. fall., 2017, 720; Di Marzio, L'abuso nella concessione del credito, in Contr. e impr., 2015, 314 ss.; Id., Concessione abusiva di credito, in Enc. dir., Ann. VI, Milano, 2013, 178; Id., Abuso nella concessione del credito, Napoli 2004).

Non si tratta di una definizione normativa né tantomeno di un istituto del diritto positivo (che riconosce, invece, lo speculare fenomeno del ricorso abusivo al credito di cui all'art. 218 l.fall., reato proprio dell'imprenditore fallito con il possibile concorso esterno del dipendente della banca, dove quest'ultima assume normalmente la veste di persona offesa), bensì di una figura proveniente dal versante dottrinale (si veda l'originaria elaborazione di A. Nigro, La responsabilità della banca per concessione “abusiva” di credito, in G. Portale (a cura di), Le operazioni bancarie, Milano, 1979, I, 301 ss.), presto recepita dalla giurisprudenza (la pronuncia capostipite viene tradizionalmente ravvisata in Cass. 13.1.1993, n. 343, Banca, borsa, tit. cred. 1994, II, 258, con nota di N. Marzona-A. Perrone)

Nella sua configurazione iniziale, largamente mutuata dall'esperienza francese, la concessione abusiva del credito è stata ritenuta una fonte di responsabilità risarcitoria extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c., in quanto produttiva di un danno ingiusto a carico dei creditori dell'impresa finanziata per la tardiva emersione dell'insolvenza ed il suo conseguente aggravamento, sia in termini di aumento (o di creazione) dell'esposizione debitoria verso i soggetti ignari del dissesto e quindi indotti a mantenere in essere i rapporti commerciali o ad instaurarli, sia in termini di preclusa possibilità per costoro di adottare le iniziative anche stragiudiziali a tutela delle proprie ragioni (sospensione della prestazione, eccezione di inadempimento, e così via).

Posta in questi termini, dunque, la condotta della banca individuava come danneggiati i creditori dell'impresa fallita (tra i quali poteva rientrare, paradossalmente, lo stesso soggetto finanziatore), e veicolava un'azione a tutela di questi ultimi che richiedeva l'accertamento, caso per caso, del danno direttamente sofferto dal singolo nel proprio patrimonio ed imponeva, tra l'altro, la distinzione tra creditore anteriore o posteriore alla concessione del finanziamento. Essa, pertanto, non presentava le caratteristiche della classica “azione di massa” attribuibile al curatore del fallimento successivamente intervenuto, per il cui esercizio veniva infatti richiesta l'esistenza di un pregiudizio generale, indistinto e diretto a carico dell'intero ceto creditorio: circostanza, questa, di non semplice prospettazione e di ancor più ardua dimostrazione.

(Rapidissimo flash forward: esiste, come meglio si vedrà poco oltre, un'altra via per attribuire alla curatela l'esercizio dell'azione risarcitoria, vale a dire quella di individuare il soggetto danneggiato (anche) nella stessa impresa fallita, così da configurarla come uno strumento già presente nel patrimonio di quest'ultima da attivare utendo juribus ad opera della procedura: strada, però, ancora inesplorata da parte degli interpreti dell'epoca).

Dunque, l'originario inquadramento aquiliano dell'azione e la prevalente identificazione del soggetto leso con i singoli creditori individualmente considerati hanno necessariamente indotto la giurisprudenza, sollecitata da un numero sempre maggiore di iniziative giudiziali risarcitorie ad opera di curatele fallimentari, a porsi il problema della legittimazione del curatore ad esercitarla nell'interesse della massa.

Problema, questo, risolto in senso negativo dalla Corte di Cassazione con le storiche sentenze “gemelle” del 2006 (Cass. 28.3.2006, n. 7029 e Cass. 28.3.2006, n. 7030) che, nell'attribuire all'azione lo scopo di ristorare il patrimonio del singolo creditore sulla base di un danno individuale accertato caso per caso, e non di reintegrare in modo generalizzato il patrimonio dell'impresa fallita, ne escludevano la natura “di massa” e la assimilavano a quella prevista dall'art. 2395 c.c. (non a caso replicativa del paradigma aquiliano), di esclusiva pertinenza del creditore o del terzo danneggiato e non della curatela.

Nei fatti una simile conclusione, se da un lato inibiva il ricorso all'azione risarcitoria per abusiva concessione del credito all'ampissimo palcoscenico delle curatele fallimentari, dall'altro non consentiva un commisurato utilizzo “compensativo” dello strumento ai singoli creditori danneggiati, poiché solo soggetti di elevato standing economico-finanziario potevano permettersi, a fronte della perdita già sofferta in termini di credito falcidiato in sede fallimentare, di investire ulteriori risorse per coltivare giudizi di esito incerto caratterizzati da un onere probatorio particolarmente gravoso come quello previsto dall'art. 2395 c.c. (uno dei pochi casi in tal senso è rappresentato da Cass. 14.5.2018, n. 11695).

L'approdo della Suprema Corte è apparso non del tutto appagante nell'escludere in via generalizzata la sussistenza di un danno all'intera massa dei creditori, soprattutto alla luce di una casistica concreta caratterizzata, talvolta, dalla presenza di un sostegno finanziario concesso dalla banca ad un'impresa decotta allo specifico fine di permettere il consolidamento di garanzie reali o pagamenti pregressi, o di convertire un'esposizione a breve (scoperto di c/c) in una a medio termine (mutuo) con l'acquisizione di una garanzia apparentemente contestuale: scenari, questi, in cui l'evidente preferenzialità accordata al soggetto erogatore si traduce in un altrettanto palese svilimento della posizione di tutti gli altri creditori sottoforma di riduzione del patrimonio disponibile.

La peculiarità di simili fattispecie, tuttavia, finiva per rafforzare indirettamente la validità del principio enunciato in via generale dalla Cassazione, la cui ricaduta concreta in termini di depotenziamento dell'armamentario del curatore fallimentare derivava comunque da una ricostruzione difficilmente contestabile sotto il profilo logico-giuridico.

Il cambio di prospettiva per superare il “collo di bottiglia” creato dalle sentenze del 2006 è consistito nel recupero di una diversa e più ampia perimetrazione del novero dei soggetti danneggiati dalla concessione abusiva, così da includervi, oltre ai creditori, la stessa impresa finanziata. Quest'ultima, nel ricevere un finanziamento sostanzialmente inutile perché non le consente di superare la propria situazione di insolvenza, da un lato si accolla infatti oneri evitabili (interessi passivi, costi, commissioni), mentre dall'altro protrae la propria attività caratteristica e non “conservativa” in violazione dell'art. 2486 c.c. (o intraprende “nuove operazioni” vietate ai sensi dell'abrogato art. 2449 c.c.), incrementando le perdite ed assottigliando la consistenza del patrimonio, contabilmente già azzerato.

E' pur vero che l'erogazione di un mutuo “abusivo” rappresenta un negozio bilaterale cui concorrono anche gli amministratori della società, in mancanza del cui consenso non può avere luogo il fatto generatore dell'evento dannoso; tuttavia, la partecipazione dell'organo societario, inquadrabile nella responsabilità verso la società ed i suoi creditori ai sensi degli artt. 2392 ss. c.c., non elide il concorrente apporto causale della banca nella violazione degli obblighi di corretta gestione d'impresa, che può assumere natura contrattuale o pre-contrattuale a seconda della fase in cui si colloca l'erogazione del credito (mantenimento o nuova concessione) e si dipana al di fuori della sfera applicativa delle norme endosocietarie, per toccare invece precetti più ampi di portata generale.

A ben vedere, infatti, la concessione di un finanziamento ad un soggetto incapace di rimborsarlo costituisce non solo un atto illecito lesivo del patrimonio e degli interessi di quest'ultimo e dei suoi creditori, ma prima ancora integra una violazione delle specifiche norme che presiedono alla corretta erogazione del credito nell'interesse della stessa banca e dell'intero sistema economico-finanziario, all'interno del quale il singolo istituto è tenuto ad adottare la condotta del “prudente banchiere”, su cui grava una responsabilità da “contatto sociale qualificato” ed incombono specifici obblighi di informazione e protezione verso gli utenti.

Attraverso questa linea interpretativa, all'esito della quale si finisce per ritenere danneggiato un soggetto (l'imprenditore finanziato) che istintivamente verrebbe da considerare invece come “beneficiato” da un evento astrattamente vantaggioso come l'immissione di nuova liquidità (in tal senso Trib. Monza 12.9.2007, n. 2625, in Dir. prat. soc., 2008, 6, 72), si è potuta gradualmente superare anche l'altra obiezione di più immediata ed abituale formulazione in questi casi, vale a dire quella (speculare) per cui la banca che eroga credito successivamente non rimborsato diviene essa stessa un creditore del fallito, risentendo così un pregiudizio dall'inadempimento dell'obbligazione restitutoria che mal si concilia con la sua presunta natura di corresponsabile dell'evento dannoso lamentato dal fallimento del debitore (App. Milano 20.3.2015, in Il Societario).

La progressiva spinta della giurisprudenza di merito, volta ad includere l'impresa finanziata tra i soggetti danneggiati dal credito accordato in modo “abusivo” (tra i molti Trib. Foggia 12.12.2000, in Dir. banc. 2002, 2, I, 259; Trib. Foggia 7.5.2002 in Il Fallimento, 2002, 1166), ha quindi finito per individuare i presupposti di una mutazione dell'originario corredo genetico della materia (dove i soggetti pregiudicati, in modo tra l'altro indiretto, erano unicamente i creditori del debitore finanziato), che non ha tardato ad emergere anche in sede di legittimità. Dopo un paio di pronunce di natura meramente processuale (Cass. 13.6.2008, n. 16031 e Cass. 23.7.2010, n. 17284, che hanno qualificato domanda nuova, e come tale inammissibile, quella di accertamento della responsabilità del finanziatore verso il finanziato), si è infatti giunti alla fondamentale Cass. 1.6.2010, n. 13413, la quale ha stabilito che il curatore è legittimato ad agire nei confronti della banca, in qualità di responsabile solidale del danno arrecato alla società fallita attraverso l'abusivo ricorso al credito da parte dell'amministratore della società stessa, senza che all'esercizio dell'azione possa ostare la mancata chiamata in causa dell'amministratore infedele (la sentenza ha concluso per l'inammissibilità del motivo solo perché quest'ultimo violava il requisito dell'autosufficienza, non riportando in modo adeguato l'avvenuta proposizione della domanda contro la Banca).

Benché la pronuncia abbia affrontato la questione dal punto di vista del ricorso abusivo al credito ex art. 218 l.fall. (penalmente accertato in concorso tra l'imprenditore ed il dirigente bancario), anziché della sua concessione, il principio comune di fondo posto in evidenza è stata l'esistenza di una linea di responsabilità diretta tra la banca ed il debitore, attivabile dal curatore ai sensi dell'art. 2055 c.c. anche attraverso l'evocazione in giudizio del solo condebitore solidale che ha concesso il finanziamento.

Successivamente, Cass. 20.4.2017, n. 9983 ha riaffermato il principio di Cass. n. 13413/2010 svincolandolo però dal profilo penalistico (assente nel caso concreto), con il risultato di ritenere sussistente la legittimazione attiva della curatela nell'azione di risarcimento del danno contro la banca, laddove quest'ultima sia indicata come terzo responsabile solidale del pregiudizio cagionato alla società fallita, che abbia interamente perduto il proprio capitale, per effetto dell'abusivo ricorso al credito da parte dell'ex-amministratore, ed in particolare quando il finanziamento sia stato avventatamente richiesto dall'organo amministrativo ed altrettanto incautamente concesso ad opera della banca stessa.

Altre decisioni posteriori (in particolare Cass. 2.5.2017, n. 11798, Cass. 14.5.2018, n. 11695 e Cass. 5.8.2020, n. 16706), infine, non hanno preso posizione sul punto specifico della legittimazione, vuoi per il mancato accertamento, da parte del giudice di merito, del presupposto rappresentato dalla sussistenza del danno subito dalla società fallita, vuoi per l'estraneità della questione rispetto allo specifico thema decidendum.

All'esito del percorso interpretativo ora sintetizzato, la Corte di Cassazione ha emesso nel corso degli ultimi mesi le due ordinanze “gemelle” 30.6.2021, n. 18610 e 14.9.2021, n. 24725, cui si deve il merito di avere non solo consolidato gran parte degli approdi nel frattempo raggiunti dal formante giurisprudenziale, ma anche configurato in modo ormai organico, anche alla luce dei più recenti sviluppi normativi (D. Lgs. 12.1.2019, n. 14 e Direttiva UE 2019/1023) il nuovo “statuto” della concessione abusiva di credito e le sue modalità di interazione con la procedura fallimentare del soggetto illegittimamente finanziato.

Le ordinanze della Corte di Cassazione del giugno-settembre 2021

Giova ripercorrere in modo analitico i principali snodi delle pronunce in questione, sia per la puntualità dei loro rilievi, sia per l'ampiezza argomentativa e dei riferimenti sistematici che le contraddistingue

a) La Corte, anzitutto, inquadra la concessione abusiva come un fenomeno speculare rispetto al ricorso di cui all'art. 218 l.fall., definendolo come la condotta del finanziatore che incautamente conceda credito, o continui ad accordarlo, in favore di un imprenditore in stato di insolvenza o di crisi conclamata. Il focus si sposta dunque sull'agire della banca, soggetto attivo primario dell'illecito, con il quale può concorrere (e normalmente concorre) l'organo amministrativo del debitore, ma che presenta valenza autonoma e responsabilità diretta sotto il profilo della causazione del danno, anche a prescindere dal coinvolgimento degli amministratori. Rispetto a questi ultimi, lo strumento apprestato dall'ordinamento sono le azioni di responsabilità (sociale e dei creditori: artt. 2392 e 2394 c.c.) cumulate dall'art. 146 l.fall. in capo al curatore, con l'eventuale addendum della costituzione di parte civile da parte del Fallimento nei procedimenti ex artt. 216, 217 e 218 l.fall. (che, in fondo, incriminano condotte specifiche all'interno della più ampia mala gestio amministrativa). Quella per concessione abusiva di credito, invece, finisce per diventare l'azione tipica del danneggiato (o del suo fallimento) verso la banca (o comunque il soggetto erogatore), che trae origine dalla violazione, da parte di quest'ultima, di una serie di precetti generali e specifici, oltreché dall'inadempimento di alcune delle obbligazioni contrattualmente assunte.

b) Al riguardo, accanto all'obbligo generale di diligenza professionale ex artt. 1176 e 1218 c.c., debbono valere le prescrizioni ed i divieti introdotti dalla disciplina di settore primaria (artt. 5, 124, 124-bis TUB) e secondaria (Istruzioni di Vigilanza della Banca d'Italia relative al contenimento del rischio nell'erogazione dei finanziamenti) in tema di “sana e corretta gestione” dell'attività creditizia, diretti ad un'adeguata valutazione del c.d. “merito creditizio” del cliente (evocato, è solo il caso di ricordare, non solo dagli artt. 124 e 124-bis TUB ma anche dall'art. 12 L. 3.1.2012, n. 3 in materia di sovraindebitamento, che sanziona la sua negligente istruttoria da parte della banca con il divieto di presentare opposizione o reclamo in sede di omologa, anche se dissenziente, e di far valere cause di inammissibilità non derivanti da comportamenti dolosi del debitore; si veda anche l'art. 69 D.Lgs. 12.1.2019, n. 14, “CCII”). La materia, a motivo del suo carattere nevralgico, travalica poi i confini nazionali e risulta interessata da norme unionali quali i vari accordi di Basilea ed il Regolamento UE n. 575/2013, il cui art. 142 fissa i criteri prudenziali per enti creditizi ed imprese di investimento, istituendo il sistema di rating ed i relativi processi, controlli e metodi di raccolta dati per la valutazione del rischio. Per una singolare coincidenza, proprio il 30.6.2021 (data di deposito della prima delle due pronunce “gemelle” di legittimità), in conformità alle previsioni di cui all'art. 16 Reg. UE 1093/2010, sono entrati in vigore gli Orientamenti emanati il 29.5.2020 dall'European Banking Authority (“EBA”) in materia di concessione e monitoraggio dei prestiti, che costituiscono parte dell'Action Plan europeo adottato dal Consiglio dell'Ue nel luglio 2017 per fronteggiare il grave problema dei crediti deteriorati (non-performing loans), e che acquistano oggi un rilievo ancora maggiore alla luce delle persistenti conseguenze della crisi economica provocata dalla pandemia da Covid-19. L'art. 5 degli EBA, in particolare, si occupa della fase dell'istruttoria e della concessione del credito alle imprese, e prescrive ai soggetti bancari un approccio c.d. forward-looking, in cui rivestono grande importanza gli strumenti di valutazione prospettici idonei a consentire l'analisi dell'evoluzione economico-finanziaria dell'impresa, in modo da passare da un modello di gestione “reattivo” dei finanziamenti deteriorati in essere ad un approccio “proattivo” diretto a regolare il ciclo del credito fin dai suoi primi passi, ossia l'istruttoria per la concessione, attraverso un miglioramento dei processi e degli strumenti di valutazione.

Secondo la Corte, la violazione, da parte della banca, di questi obblighi primari “qualificati” e tipici posti a presidio della corretta erogazione del credito (Cass. 8.1.1997, n. 72; Cass. 13.1.1993, n. 343) ha carattere plurioffensivo poiché non danneggia solo il sistema finanziario in sé (valore protetto dalla disciplina di settore), ma anche il soggetto finanziato, ossia l'imprenditore dissestato ormai incapace di superare i propri gravi squilibri aziendali.

c) Il pregiudizio subito dall'impresa che riceve il credito “abusivo” si identifica, sul piano economico, nella diminuita consistenza del patrimonio sociale, e su quello contabile nell'aggravamento delle perdite favorito dalla continuazione dell'attività d'impresa. Così facendo, la Corte evoca principi tipici della disciplina societaria sorti sul versante della responsabilità degli amministratori per indebita prosecuzione dell'attività pur in presenza di una causa di scioglimento di quest'ultima (art. 2486 c.c.), e non potrebbe essere altrimenti, poiché il credito indebitamente (richiesto e) concesso costituisce proprio lo strumento attraverso il quale l'impresa ormai insolvente è in grado di prolungare la propria agonia economico-finanziaria, continuando slealmente ad operare sul mercato (tra l'altro, in sostanziale spregio alle regole della sana concorrenza). Non è un caso che, nella motivazione sul punto, entrambe le sentenze richiamino il previgente testo dell'art. 2449 c.c., il quale vietava l'esecuzione di “nuove operazioni” dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, con ciò sostanzialmente inibendo gli amministratori dall'intraprendere affari ulteriori rispetto a quelli in corso di completamento: ancor più del concetto di “gestione conservativa” introdotto dal vigente art. 2486 c.c., infatti, il divieto delle nuove operazioni ben rappresenta in modo addirittura plastico, sul versante esterno del finanziamento abusivo, il limite non valicabile oltre il quale la prosecuzione dell'attività genera la responsabilità del finanziatore per averla resa possibile a danno dello stesso finanziato.

d) La concessione abusiva, in sintesi, si configura come la condotta della banca, dolosa o colposa, diretta a mantenere in vita un imprenditore ormai soggetto a crisi irreversibile attraverso un illecito sostegno finanziario, con l'effetto di cagionare a lui stesso ed ai suoi creditori un danno coincidente con l'aggravamento del dissesto generato dall'indebita prosecuzione dell'ordinaria attività.

L'irreversibilità della crisi diviene, nella ricostruzione della Corte, l'elemento decisivo per considerare o meno un finanziamento come illegittimo e predicare, quindi, una responsabilità del soggetto erogatore.

D'altra parte, una nutrita serie di riferimenti normativi può ormai venire evocata per configurare l'evidente favore del legislatore verso il sostegno finanziario concesso all'impresa, per favorirne il superamento della situazione di squilibrio attraverso il ricorso ad istituti e procedure dirette ad evitare l'esito liquidatorio ed ad accrescere il tasso di soddisfacimento dei creditori: oltre agli specifici finanziamenti prededucibili nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione (artt. 182-quater e 182-quinquies l.fall. e 99-101), esiste ormai un fitto reticolato normativo volto a presidiare gli atti legalmente compiuti nell'ambito ed in esecuzione di procedure di regolazione della crisi (piani attestati di risanamento ex art. 67, comma 3, lett. d) l.fall. ed artt. 56 e 284 CCII; esenzioni da revocatoria ex art. 67, comma 3, lett. e); convenzioni di moratoria ex art. 182-septies l.fall. ed art. 62 CCII; esenzione dei reati di bancarotta ex art. 217-bis l.fall. per pagamenti ed operazioni esecutivi di una delle procedure regolatrici della crisi).

Il punto nevralgico della questione, tuttavia, coincide con tutte quelle situazioni “grigie” dove, in assenza di istituti procedimentalizzati e strumenti specifici fondati su presupposti e controlli attuati all'interno di quadri ristrutturativi tipizzati, la banca si accosta all'imprenditore in crisi che richiede in buona fede sostegno finanziario per sopperire alle esigenze correnti e per ridisegnare la propria attività futura in un'ottica di discontinuità.

A tale specifico riguardo, un principio importante sancito dalla Corte è quello per cui l'erogazione di (nuovo) credito da parte della banca ad un'impresa in crisi, rispetto alla quale sussistano ragionevoli presupposti di superamento in base ad una valutazione necessariamente ex ante, è da ritenersi legittima anche al di fuori della cornice di una formale procedura di risoluzione della crisi d'impresa, nella misura in cui la decisione di accordare la liquidità sia stata preceduta da una rigorosa intelligence fondata su dati, documenti e notizie acquisiti da parte dell'istituto di credito, dai quali si evinca la volontà e la possibilità dell'imprenditore di utilizzare le risorse nell'ottica del risanamento aziendale, sulla base di un programma razionale, oggettivo e plausibile.

In un simile contesto, l'analisi della banca dev'essere condotta in modo conforme agli standards di conoscenza, capacità e diligenza propri dell'operatore professionale qualificato, necessariamente dotato (alla stregua di un vero e proprio pre-requisito organizzativo e funzionale) delle procedure, dei metodi e dei protocolli necessari per la valutazione del reale “merito creditizio”. Un simile strumentario tecnico, come già osservato, trova intuitivamente la propria prioritaria fonte nelle normative e nei regolamenti di settore (Testo Unico Bancario e norme collegate, Regolamenti ed Istruzioni di Vigilanza della Banca d'Italia, convenzioni ed accordi internazionali, regolamenti e direttive UE) e nell'insieme di procedure, ordini di servizio, linee-guida vigenti all'interno dello stesso istituto di credito erogante, la cui applicazione in concreto rappresenta evidentemente un presupposto scriminante per il riconoscimento ex post della correttezza e legittimità della condotta della banca stessa). La procedimentalizzazione e l'esistenza di adeguati e costanti flussi informativi all'interno dell'istituto di credito diviene quindi un elemento imprescindibile per poter considerare il finanziamento come astrattamente ragionevole ed il suo beneficiario come “meritevole”, secondo una logica già espressa con l'introduzione dell'art. 69-quinquiesdecies T.U.B. in relazione al sostegno finanziario infragruppo, ma i cui postulati possono costituire parametri logici validi anche al di fuori del contesto di “gruppo”.

e) Come detto, la Corte ha ormai chiaramente adottato l'impostazione che vede l'impresa finanziata come uno dei soggetti direttamente danneggiati dalla illegittima concessione di credito, a motivo del deterioramento della sua situazione patrimoniale che ne consegue. Da ciò deriva anzitutto la legittimazione attiva del curatore fallimentare all'esercizio di quella stessa azione risarcitoria che avrebbe potuto proporre l'imprenditore in bonis, e che viene quindi rinvenuta nel patrimonio del fallito ai sensi dell'art. 43 l.fall.. Le due pronunce “gemelle” si saldano così dichiaratamente al filone esemplificato da Cass. 1.6.2010, n. 13413 e da Cass. 20.4.2017, n. 9983, che nell'affermare il medesimo principio lo avevano poi declinato nel senso di consentire l'azione contro la banca, intesa come responsabile solidale del danno, anche in assenza di analoga iniziativa giudiziale contro l'amministratore della società fallita.

Al tempo stesso, peraltro, sul parallelo versante si colloca la distinta risorsa del curatore ugualmente orientata verso la banca ed avente natura di “azione di massa” (esattamente come la revocatoria fallimentare o le varie azioni di responsabilità verso gli organi societari), volta alla reintegrazione del patrimonio del fallito inteso come garanzia generica ex art. 2740 c.c. ed indistintamente destinata a beneficio di tutti i creditori concorrenti, senza distinguere tra coloro che hanno acquisito il titolo prima o dopo l'attuazione della concessione abusiva del credito, in quanto egualmente pregiudicati da quest'ultima. Ciò non equivale ad attribuire al curatore un generale potere di rappresentanza del ceto creditorio, posto che, ad esempio, i singoli creditori mantengono la legittimazione ad agire contro la banca o contro gli amministratori della società fallita ex art. 2395 c.c. per i danni direttamente risentiti dalle condotte illecite di costoro (ad esempio per avere contrattato con un'entità ormai insolvente), ma più semplicemente ad accordargli la qualifica di “centro autonomo di interessi” ed il conseguente munus di amministrare il patrimonio assoggettato all'esecuzione concorsuale e di ricostituirlo nella funzione di garanzia che gli è propria (sul punto si veda, specificamente, Cass. 12.5.2017, n. 11798).

f) Per quanto concerne il titolo della responsabilità deducibile dalla curatela, la Corte distingue tra quello verso la massa dei creditori (ricondotto nell'alveo dell'art. 2043 c.c., inteso quale fonte di pregiudizio all'intero ceto creditorio) e quello verso l'impresa fallita, ravvisando in quest'ultimo caso un nucleo di contrattualità, più evidente nella fattispecie di mantenimento del credito già precedentemente concesso (ricollegabile alla figura generale dell'art. 1218 c.c.) ma predicabile anche in relazione alla diversa ipotesi della concessione di (nuovo) credito, che può venire ricondotta nell'alveo della responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. e classificata come da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a generare obbligazioni ex art. 1173 c.c. a carico di un soggetto (la banca) su cui incombono obblighi di informazione protezione (Cass. 25.7.2018, n. 19775; Cass. 12.7.2016, n. 14188) e che risponde quindi anche nel caso di contratto concluso validamente ma comunque pregiudizievole per il contraente vittima della condotta in malafede dell'altra parte (Cass. SS.UU. 19.12.2007, n. 26724 e n. 26725).

g) In concreto, la responsabilità della banca per concessione abusiva si accompagna quasi sempre con quella dell'organo amministrativo dell'impresa fallita, che ha concorso nell'attuazione della condotta illegittima e nella produzione del pregiudizio conseguente. Ciò determina, nonostante la diversità del rispettivo titolo, una responsabilità solidale delle due figure per il medesimo danno ai sensi dell'art. 2055 c.c., che tuttavia non onera il curatore di promuovere (contestualmente o anche in momenti differenti) entrambe le azioni, in quanto la qualità di litisconsorti facoltativi degli obbligati in solido (Cass. 20.8.2019, n. 21514; Cass. 29.5.2013, n. 13458; Cass. 1.6.2010, n. 13413) consente l'emissione di una sentenza di condanna anche solo nei confronti di taluno di essi, senza che i soggetti convenuti possano validamente eccepire la mancata evocazione degli altri corresponsabili.

h) Le pronunce della Corte affrontano poi in modo specifico anche due temi normalmente ricorrenti nello strumentario difensivo degli istituti bancari accusati di concessione abusiva: l'illogicità di considerare come danneggiante un soggetto (la banca, appunto) che si trova in realtà ad essere pregiudicato dall'erogazione di un credito di cui non potrà ottenere il rimborso in sede fallimentare, e la necessità di contemplare il concorso del fatto colposo del creditore (l'impresa finanziata) ai sensi dell'art. 1227 c.c. nella quantificazione del danno risarcibile.

La prima questione, a dire il vero più legata al senso comune “non tecnico” che non alla dimensione logico-giuridica, si risolve nella possibile coesistenza in capo ad un medesimo soggetto della qualità di debitore e creditore per titoli differenti (l'obbligo risarcitorio ed il diritto alla restituzione del finanziamento), la cui naturale sintesi è rappresentata dall'istituto della compensazione ai sensi degli artt. 1241 ss. c.c. e 56 l.fall., prospettabile anche nel caso dell'incauto finanziatore (con la distinzione, peraltro, tra azione ereditata dal fallito ed azione di massa, poiché solo la prima fa emergere un preesistente credito compensabile con il controcredito insinuabile al passivo, mentre la seconda, alla stregua della revocatoria fallimentare, genera un credito direttamente in capo alla massa stessa).

Maggiore spessore riveste invece l'eccezione legata al concorso del creditore nella determinazione del danno (colpevole richiesta di nuova liquidità per proseguire l'attività caratteristica pur in presenza di una situazione tale da imporre la gestione conservativa ex art. 2486 c.c.), sempre con la basilare avvertenza, tuttavia, per cui essa può trovare spazio unicamente nel caso dell'azione esercitata dal curatore utendo iuribus del fallito, e non anche in quello dell'azione “di massa” diretta alla reintegrazione del patrimonio fallimentare. Mentre nel primo scenario, infatti, il convenuto ha sicuramente il diritto di contrapporre alla curatela le medesime eccezioni opponibili al contraente in bonis di cui quest'ultima ha preso il posto (tra cui, in particolare, quella della compresenza di due condotte autonome entrambe eziologicamente concorrenti nella generazione del medesimo danno), la terzietà che caratterizza il curatore nel secondo caso determina un inevitabile disallineamento di piani tra il fallito ed il distinto “centro di interessi” rappresentato dalla massa dei creditori, che non può risentire effetti derivanti dalla condotta ante-fallimento del debitore sottoforma di mitigazione della pretesa risarcitoria fatta valere nell'interesse dell'indistinto ceto creditorio.

i) L'inevitabile corollario degli approdi di cui sopra è rappresentato dal rigoroso atteggiarsi dell'onere probatorio incombente sulla curatela, che investe la condotta dolosa o colposa (negligente, imprudente, imperita) tenuta dalla banca in violazione delle regole generali e di settore, il danno-evento (coincidente con la prosecuzione dell'attività d'impresa antieconomica), il danno-conseguenza (individuato nell'aggravamento del dissesto) ed il nesso causale tra il contegno del finanziatore ed il pregiudizio generatosi, da valutarsi non sulla scorta del post hoc ergo propter hoc bensì secondo il criterio della “causalità adeguata” improntato alla regolarità statistica ed alla logica del “più probabile che non”.

E' lecito prevedere che, da parte dei giudici, verrà prestata particolare attenzione all'aspetto istruttorio nel delibare le rivendicazioni dei fallimenti, poiché alle aperture verso un allargamento del ventaglio delle iniziative giudiziali contro gli enti erogatori, rinvenibili nelle pronunce della Corte, dovrà necessariamente fungere da contrappunto un adeguato rigore nella valutazione del grado di assolvimento dell'onere probatorio ad opera delle curatele, in un “doveroso rispetto del puto di equilibrio tra opposti valori meritevoli di tutela, quali, da un lato, la posizione giuridica del finanziato e dei suoi creditori, e, dall'altro lato, la libertà contrattuale del banchiere”.

Aspetti processuali

E' opportuno segnalare altresì che, dal punto di vista della curatela fallimentare, il tema della responsabilità della banca per abusiva concessione del credito può emergere non solo in veste di classica azione risarcitoria ordinaria, promossa una volta che sia stata adeguatamente ricostruita la vicenda storica (nella Relazione ex art. 33 l.fall. o nelle sue successive integrazioni), ma anche e soprattutto in una fase anteriore o comunque più a ridosso dell'apertura della procedura, vale a dire quella di accertamento del passivo, ove gli elementi cognitivi in possesso del curatore sono generalmente meno abbondanti a causa del ridotto tempo a disposizione per una adeguata intelligence dei fatti.

Di fronte alla domanda di ammissione dell'istituto finanziatore per crediti impropriamente erogati con violazione dei precetti e delle regole sopra esaminate, infatti, la curatela può e deve porsi il problema se la mancata deduzione, in sede di conclusioni assunte ai sensi dell'art. 95 l.fall., dell'eccezione di abusiva concessione e di conseguente compensazione con il controcredito risarcitorio in favore dell'impresa ormai fallita possa pregiudicare, in virtù del principio del c.d. “giudicato endofallimentare” previsto dall'ultimo comma dell'art. 96 l.fall., la successiva riproposizione della domanda risarcitoria in sede ordinaria nei confronti della stessa banca. L'incertezza derivante da una simile prospettiva, infatti, induce talvolta le curatele ad introdurre il tema “responsabilità per abusiva concessione” già in sede di verifica del passivo, sottoforma di opposizione alla domanda di ammissione, con l'effetto di trasferire nell'alveo del giudizio ex art. 98 l.fall., caratterizzato da una delibazione giudiziale più concentrata e sommaria e da un minor grado di attuazione del contraddittorio e della fase istruttoria, l'accertamento di una questione che meriterebbe senza dubbio il più ampio ed approfondito proscenio della cognizione ordinaria (si veda, per un precedente significativo, Trib. Rimini (decr.) 29.10.2019, in Il Corriere Giuridico, 10, 2020, 1238 ss., con nota di M. de Pamphiliis).

Prospettive di evoluzione

Rimane da affrontare un aspetto, già ripetutamente segnalato in passato (cfr. per tutti A. Nigro, La responsabilità delle banche nell'erogazione del credito alle imprese in “crisi”,in Giur. comm. 2011, I, 324) ed oggi ancor più attuale alla luce dei principi enunciati dalla Corte: quello della possibile responsabilizzazione, se del caso in concorso con l'organo amministrativo e di controllo, non solo degli istituti bancari illecitamente erogatori di credito, ma anche di quei fornitori più o meno “strategici” che, in modo altrettanto strumentale, abbiano continuato ad approvvigionare di beni e servizi un'impresa ormai insolvente, confidando nel rientro dall'esposizione grazie all'acquisizione, ad esempio, di garanzie collaterali prestate da terzi.

Benché infatti l'abusiva concessione di credito venga normalmente ricollegata in modo pressoché esclusivo al milieu in cui essa si è andata formando, vale a dire il contesto bancario ed i suoi operatori, nondimeno essa ha una valenza astrattamente estensiva in relazione ad ogni tipologia di creditore (Falcone, Concessione abusiva di credito e concorso della banca nel ricorso abusivo al credito, in Il Fallimento, 2020, 812), tra cui appunto determinati fornitori. Tra l'altro, come è stato osservato, i prestatori di servizi ed i fornitori di beni si pongono in una condizione particolare rispetto all'impropria erogazione del credito bancario, poiché anziché venire danneggiati da quest'ultima potrebbero risultarne addirittura beneficiati (quando, ad esempio, il pagamento delle loro prestazioni e forniture sia stata consentito proprio attraverso le disponibilità ottenute dal fallito grazie ai finanziamenti del sistema bancario), tanto che non dovrebbe nemmeno escludersi, in alcune circostanze peculiari, che essi stessi concorrano nel ritardo alla cessazione dell'attività di impresa (così, in particolare, G. Tarzia, La Cassazione torna sul tema dell'azione risarcitoria per “concessione abusiva di credito” che abbia ritardato la dichiarazione di fallimento, in Il Fallimento 2017, 912).

E' peraltro evidente come una simile trasposizione del concetto originario ad ambiti diversi debba subire di volta in volta i necessari adattamenti al caso specifico, in particolare per quanto concerne il riferimento al tema della diligenza che il creditore ha l'onere di prestare nella valutazione delle condizioni del debitore, i cui standards potrebbero non essere presidiati da particolari normative di settore, da disposizioni di autorità garanti e di vigilanza, da collegamenti informativi di natura sistemica (es. la Centrale Rischi) che invece contraddistinguono la figura del c.d. “creditore qualificato”.

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