Straining e demansionamento in una recente sentenza del Tribunale di Bergamo (sez. lav., 24 febbraio 2022, n. 49)
15 Marzo 2022
Il caso
Un impiegato di banca conveniva in giudizio la propria azienda lamentando di aver subito, per oltre dieci anni, un continuativo ed intenzionale demansionamento inscrivibile nella fattispecie dello straining. Più precisamente, dopo aver svolto per alcuni anni le mansioni di addetto al Centro Estero della società datrice essendo inquadrato nel 4° livello retributivo dell'Area 3a del CCNL Abi, a causa della chiusura della struttura veniva relegato nell'ambito dell'area antiriciclaggio prima a mansioni meramente esecutive e segretariali alternate a periodi di inattività lavorativa totale e successivamente, dopo alcuni mesi, veniva definitivamente preposto alle mansioni di cassiere di filiale. Chiedeva pertanto, oltre alla cessazione delle condotte strainizzanti e all'adibizione a mansioni conformi al proprio inquadramento, anche il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti nel corso degli anni.
All'esito della costituzione della Banca e dello svolgimento dell'istruttoria, il Tribunale di Bergamo pronunciava la sentenza in commento, con cui accertava e dichiarava l'illegittimità del demansionamento subito dal ricorrente per oltre dieci anni, conseguentemente condannando la banca al risarcimento del danno subito nella misura di 50.000,00 euro.
La pronuncia in esame si distingue per un'ampia ed articolata motivazione, in cui viene fatto il punto su diversi argomenti relativi alle condotte persecutorie sul posto di lavoro, adottando al contempo alcune originali soluzioni. Analizziamole nel dettaglio. Discriminazione
Nel dedurre lo straining lavorativo, il ricorrente richiedeva l'applicazione –ai fini probatori e risarcitori- della normativa antidiscriminatoria ricompresa nel d.lgs. 216/2003, riprendendo la tesi dottrinale (EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e straining, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2019) secondo cui le dinamiche persecutorie, avendo quale elemento costitutivo l'obiettivo discriminatorio, sarebbero soggette alla medesima disciplina in considerazione del fatto che il divieto di discriminazione non si applicherebbe solo agli specifici fattori disciplinati dalla legge ma, al contrario, configurerebbe una tutela atipica aperta “ad ogni altra condizione personale e sociale”, come desumibile sia a livello costituzionale (art. 3) sia a livello internazionale (Art. 2 Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 10 dicembre 1948; art. 14 CEDU).
Il giudice orobico, tuttavia, aderisce in motivazione all'orientamento secondo cui le discriminazioni costituiscono un numerus clausus, non ampliabile oltre lo specifico novero dei fattori di discriminazione legislativamente tipizzati (cfr. Corte d'Appello Brescia, 3 luglio 2019, n. 294; CGUE 18 dicembre 2014, C-354/13, FOA; CGUE 18 marzo 2014, C-363/12; contra, per l'apertura anche a fattori “atipici”, Cass., sez. lav., 5 novembre 2012, n. 18927; Tribunale Milano, sez. lav., 22 agosto 2014; Tribunale Civitavecchia, sez. lav., 1° marzo 2018). Nozione di mobbing e di straining
Nell'accertare l'assenza del dedotto straining nel caso concreto, il Tribunale di Bergamo opera una completa ricognizione del diritto vivente in materia di condotte lavorative persecutorie.
In particolare, partendo dall'invalsa elaborazione giurisprudenziale germinata sul tronco dell'art. 2087 c.c. , definita quale “norma primaria costitutiva di obblighi, con una portata precettiva tale da ricomprendere qualsiasi atto o comportamento comunque lesivo della persona del lavoratore”, la pronuncia in oggetto riprende la definizione del mobbing emersa nel diritto vivente, quale fattispecie composta da quattro elementi fondamentali (ex multis, Cass., sez. lav., 2 dicembre 2021, n. 38123; Cass., sez. lav., ordinanza, 4 marzo 2021, n. 6079; Cass., sez. lav., ordinanza, 29 dicembre 2020, n. 29767; Cass., sez. lav., ordinanza, 11 dicembre 2019, n. 32381; Cass., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785):
a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, cfr. Corte Cost., 19 dicembre 2003, n. 359; Cass., 12 dicembre 2018, n. 32151; Cass., 21 maggio 2018, n. 12437; Cass., 10 novembre 2017, n. 26684; Cass., 24 novembre 2016, n. 24029; Cass., 6 agosto 2014, n. 17698) che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, per un periodo di tempo apprezzabile, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi;
Caratteristica del mobbing (così come di ogni dinamica lavorativa persecutoria, si veda in dottrina EGE, TAMBASCO, Il lavoro molesto, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2021, p. 7 e ss.) è l'intento persecutorio, che rappresenta il requisito qualificante della fattispecie: si tratta dell'elemento soggettivo (individuato dal giudice bergamasco nell'animus nocendi, ovvero nella “coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni – di vario tipo ed entità al dipendente medesimo”, secondo un orientamento rigoristico seguito da Cass., sez. lav., 3 luglio 2017, n. 16335; Tribunale Palermo, sez. lav., 18 gennaio 2008; Tribunale Udine, sez. lav., 17 marzo 2017; Tribunale Como, 22 maggio 2001) che deve essere integralmente provato dal lavoratore, unitamente a tutti gli altri elementi della fattispecie (ex plurimis, Cass. , sez. lav., ordinanza, 4 marzo 2021, n. 6079; Cass., sez. lav., ordinanza 20 gennaio 2020, n. 1109; Cass., sez. lav., 20 novembre 2017, n. 27444; Cass., sez. lav., 24 novembre 2016, n. 24029; Cass., sez. lav., 24 ottobre 2007, n. 22305; Cass., sez. lav., 29 settembre 2005, n. 19053).
Tuttavia, l'accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato non può, per ciò stesso, condurre ad un deficit di tutela, soprattutto laddove il giudice ravvisi nei comportamenti considerati singolarmente, di per sé, un contenuto oggettivamente vessatorio e mortificante per il lavoratore (cfr.Cass., sez. lav., 5 novembre 2012, n. 18927; Cass., sez. lav., 3 marzo 2016, n. 4222; Cass., sez. lav., 20 giugno 2018, n. 16256; Cass., sez. VI, 3 maggio 2019, n. 11739; nel merito, Tribunale Milano, sez. lav., 29 gennaio 2018, n. 2832, est. Dossi; Corte Appello Milano, sez. lav., 22 marzo 2021, n. 475): siamo di fronte a quelle che, in dottrina, sono state definite le “altre condotte vessatorie”.
In questo caso, quindi, il singolo provvedimento datoriale oggettivamente illegittimo (quale ad esempio una sanzione disciplinare non rispettosa dell'art. 7 Stat. Lav. oppure un trasferimento o un demansionamento posti in violazione dell'art. 2103 c.c.) potrà comunque essere ascritto alla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, nei limiti dei danni eventualmente a lui imputabili. E' proprio questo, vedremo, il fulcro del caso in esame.
La motivazione passa dunque all'analisi della fattispecie dello straining, introdotta nel diritto vivente proprio dal Tribunale di Bergamo con la ormai nota pronuncia del 20 giugno 2005, n. 286, est. Bertoncini, in cui –riprendendo gli studi di Harald Ege, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità lavorativa, Milano, Franco Angeli, 2005 - venne coniata la seguente definizione:
“Lo straining è costituito da una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un'azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo Straining in persistente inferiorità. Pertanto, mentre il Mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili e frequenti nel tempo, per lo Straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso del demansionamento)”.
La pronuncia in esame aderisce alla nozione invalsa nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui lo straining sarebbe una forma “attenuata” di mobbing, ove difetta unicamente l'elemento oggettivo della frequenza delle azioni vessatorie (un'unica condotta con effetti permanenti in luogo della pluralità delle condotte ricorrenti ogni mese, propria invece del mobbing; cfr Cass., sez. lav., 10 luglio 2018, n. 18164; Cass., 19 febbraio 2018, n. 3977; Cass., 4 novembre 2016, n. 3291; rilievi critici su questa riduttiva definizione dello straining vengono mossi in dottrina da H.EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e straining, cit.; G. PEZZINI, La (discutibile) qualificazione dello straining come un minus del mobbing, ma a oneri probatori invariati, Responsabilità civile e Previdenza, fasc. 2, 2020, pp. 496 e ss.).
Nel disconoscere nel caso concreto la sussistenza dello straining, la sentenza in oggetto parte da una duplice premessa:
- L'esistenza di una situazione di conflitto tra le parti esclude a priori la configurabilità di una condizione lavorativa persecutoria (cfr. Cass. sez., lav. 5 dicembre 2018, n. 31485; conf. Tribunale Pavia, sez. lav., 22 maggio 2020; contra, Cass., sez. lav., 12 luglio 2019, n. 18808, secondo cui “non è vero che per configurare il mobbing (o lo straining) quali comportamenti vessatori nei confronti del dipendente sia necessario che non ricorra conflittualità reciproca. Infatti, pur a fronte (in via di mera ipotesi) di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non è certamente legittimato ad indursi a comportamenti vessatori”);
- la modifica delle mansioni motivata da ragioni di complessiva riorganizzazione che hanno coinvolto l'intera struttura aziendale, esclude a priori la sussistenza di uno specifico intento vessatorio (cfr. Cass., sez. lav., ord., 4 febbraio 2021, n. 2676);
Pertanto - a detta del giudice di primo grado - la condotta asseritamente poco collaborativa ed ostruzionistica del lavoratore, unita all'oggettiva circostanza della complessiva riorganizzazione aziendale, elimina in nuce qualsiasi riferibilità del caso concreto alla fattispecie dello straining. Straining e demansionamento
Quid iuris nel caso in cui il Giudice, rigettata la domanda di accertamento dello straining lavorativo, ravvisi tuttavia l'esistenza di un demansionamento oggettivamente realizzato in violazione dell'art. 2103 c.c.?
La soluzione apprestata dal Tribunale di Bergamo segue la giurisprudenza dominante: se il fatto alla base dello straining è il medesimo, allora l'accertamento del danno alla professionalità ai sensi dell'art. 2103 c.c. (e non dell'art. 2087 c.c.) potrà dirsi rispettoso del dettato dell'art. 112 c.p.c.
Nel caso in esame pertanto, essendo stato dedotto il demansionamento quale fatto portante della domanda di accertamento dello straining ex art. 2087 c.c., l'insussistenza dell'intento persecutorio pur impendendo la configurazione della fattispecie persecutoria, non intacca comunque il nucleo oggettivo-fattuale del demansionamento che, ove in concreto rilevato, può essere anche ex officio riqualificato ai sensi dell'art. 2103 c.c.
In senso analogo, si veda l'ampia giurisprudenza di merito e di legittimità intervenuta sui rapporti tra mobbing e demansionamento: ex plurimis, Cass., sez. lav., 4 novembre 2021, n. 31558; Cass., sez. lav., 25 luglio 2019, n. 20210; Cass., sez. lav., 10 maggio 2019, n. 12530; Cass., sez. lav., 5 novembre 2015, n. 22635; Cass., sez. lav., 28 aprile 2015, n. 8581. Applicazione art. 2103 c.c. ratione temporis
Di particolare interesse si rivela la soluzione apprestata dal Tribunale di Bergamo alla questione, prospettata dalle parti, dell'applicazione ratione temporis dell'art. 2103 c.c., trattandosi di demansionamento attuato “a cavallo” tra la vecchia e la nuova disciplina introdotta dal d.lgs. 81/2015: ci si chiede, più precisamente se alla condotta dequalificante in esame, iniziata a far data dall'11 febbraio 2010 e in atto alla data di deposito del ricorso, si applichi l'originaria versione dell'art. 2103 c.c. dettata dall'art. 3 Stat. Lav. o quella radicalmente modificata dall'art. 3 d.lgs. 81/2015, entrata in vigore il 25 giugno 2015.
Sul punto, è il caso di precisarlo, vi è ad oggi un contrasto nella giurisprudenza di merito, ancora non composto dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, si distinguono due orientamenti: secondo il Tribunale di Ravenna, sez. lav., sent. 30 settembre 2015, si deve considerare la collocazione temporale del provvedimento datoriale di mutamento delle mansioni, costituendo unico atto di esercizio dello ius variandi, ovvero “fatto che segna il discrimine tra una normativa e l'altra”, a nulla rilevando che “esso continui nel vigore della legge successiva”.
Al contrario, nella pronuncia del Tribunale di Roma, sez. lav., sent. 30 settembre 2015, si sostiene che “il demansionamento del lavoratore costituisce una sorta di illecito “permanente”, nel senso che esso si attua e si rinnova ogni giorno in cui il dipendente viene mantenuto a svolgere mansioni inferiori rispetto a quelle che egli, secondo legge e contratto, avrebbe diritto di svolgere. Ne consegue che la valutazione circa la liceità o meno della condotta posta in essere dal datore di lavoro nell'esercizio del suo potere di assegnare e variare le mansioni che il dipendente è chiamato ad espletare va necessariamente compiuta con riferimento alla disciplina legislativa e contrattuale vigente giorno per giorno”.
Di recente il Tribunale L'Aquila, Sez. lavoro, Sent., 27 ottobre 2021, n. 147, ha statuito che “può ritenersi che il nuovo testo dell'art. 2103 c.c. non trovi applicazione ai demansionamenti generati nel vigore della disciplina precedente, anche se proseguiti dopo il 25 giugno 2015 in considerazione della permanenza della condotta datoriale, posta in essere prima della modifica normativa e i cui effetti siano proseguiti anche successivamente. Nel caso di specie, in particolare, tenuto conto del fatto che lo ius variandi del datore di lavoro è stato esercitato rispettivamente a decorrere dal maggio 2013, dovrà aversi riguardo alla precedente formulazione della norma di cui all'art. 2103 c.c.”.
La sentenza in esame tuttavia non affronta la questione, avendo invece rinvenuto il giudice nella condotta del lavoratore una sorta di consenso al demansionamento, manifestato attraverso la richiesta di trasferimento, l'accettazione delle mansioni pur di ottenere il trasferimento, la sussistenza di sole 4 lamentele nell'arco di 10 anni e il rifiuto di mansioni alternative. Circostanze queste che, secondo la pronuncia in oggetto, se da un lato configurano appunto in modo inequivocabile il consenso del lavoratore al demansionamento, dall'altro tuttavia evidenziano l'esistenza di un accordo di attribuzione di mansioni inferiori nullo ai sensi anche del nuovo testo dell'art. 2103 c.c., il cui comma VI prevede la stipulazione ad substantiam actus di un accordo in sede protetta, accordo peraltro mai formalmente perfezionato nel caso di specie. Risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale
Il Tribunale orobico, partendo dalla necessaria premessa della risarcibilità unicamente del danno-conseguenza che non si pone quale effetto automatico dell'accertato demansionamento, dovendo al contrario il lavoratore fornire la prova anche del danno e del nesso eziologico rispetto all'inadempimento datoriale (cfr. Cass., sez. lav., 16.12.2020, n. 28810), ammette tuttavia la possibilità che la prova possa essere fornita anche attraverso elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, desumibili dalle allegazioni dedotte in ricorso (cfr. Cass., sez. lav., 13.12.2019, n. 32982).
Su questo presupposto, e ferma restando l'irrilevanza di eventuali pregressi stati di malattia (cfr. Cass., sez. lav., 9 aprile 2003, n. 5539; conf. Cass., sez. lav., 8 giugno 2007, n. 13400; Cass., sez. lav., 19 luglio 2005, n. 15183; secondo Cass., 18262/2007 e Cass., sez. lav., 4 novembre 2021, n. 31742, sebbene non influisca sull'an del danno, tuttavia può incidere sul quantum), il giudice ha liquidato congiuntamente il danno non patrimoniale nella sua componente morale e il danno patrimoniale alla professionalità.
Il primo, in particolare, è stato individuato nella sofferenza del lavoratore che per anni è stato demansionato, con conseguente lesione dell'immagine e della percezione di sé (cfr. Corte d'Appello Brescia, Sez. lavoro, Sent., 08.01.2021; Corte d'Appello Roma, Sez. lavoro, Sent., 19.10.2020; Cass., sez. lav., 28 settembre 2020, n. 20466).
Il secondo pregiudizio, in coerenza con la giurisprudenza consolidata, è stato invece definito come il mancato sfruttamento delle competenze acquisite per un lungo periodo che ha comportato una riduzione progressiva dell'insieme delle conoscenze tecniche e delle capacità tecnico-professionali, con conseguente scadimento del livello professionale del lavoratore demansionato, compromettendone anche il valore complessivo nel mercato del lavoro e, correlativamente, comportando una perdita di chance, ovverosia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali (cfr Cass., 10 giugno 2004, n. 11045).
Tuttavia, nonostante la natura ontologicamente diversa delle due voci di danno (l'una patrimoniale e l'altra non patrimoniale), la sentenza in oggetto ha proceduto alla liquidazione unitaria, applicando ad integrale ristoro in via equitativa il parametro di quantificazione di due mensilità per ogni anno di demansionamento.
Evidenziamo in questa sede che, quanto al danno patrimoniale da perdita della professionalità, la giurisprudenza prevalente orienta il potere equitativo calcolando una percentuale della retribuzione per ogni mese di permanenza della condotta dequalificante, percentuale oscillante in media dal 20% al 100% (ex multis, Tribunale Milano, sez. lav., 26 aprile 2000, 100%; Tribunale Milano, sez. lav., 4 maggio 2001, 72%; Cass., sez. lav., 23 ottobre 2001, n. 13033, 33%; Tribunale Firenze, sez. lav., 2 febbraio 2004, 60%; Tribunale Civitavecchia, sez. lav., 8 luglio 2004, 75%; Tribunale Roma, sez. lav., 12 ottobre 2004, 80%; Tribunale Palermo, sez. lav., 13 ottobre 2004, 50%; Cass., sez. lav., 2 marzo 2005, n. 4370, 70%; Tribunale Roma, sez. lav., 15 febbraio 2005, 100%; Tribunale Bergamo, sez. lav., 20 giugno 2005, 80% (fattispecie di straining); Tribunale Brescia, sez. lav., 15 aprile 2011, 100% (fattispecie di straining); Corte d'Appello di Roma, sez. lav., 20 aprile 2015, n. 2276, 50%; Corte d'Appello Venezia, sez. lav., 23 luglio 2016, n. 188, 35%; Tribunale Roma, sez. lav., Sent., 9 giugno 2020, 50%; App. Milano, sez. lav., 19 novembre 2020, 20%; Tribunale Vibo Valentia, sez. lav., est. Nasso, sent. 26 maggio 2021, n. 346, 50%), percentuale commisurata principalmente alla gravità della condotta datoriale (di norma più intensa nel caso di inattività lavorativa totale) ed alla durata.
Di recente, ricordiamo in tema di danno patrimoniale da dequalificazione la pronuncia della Corte d'Appello di Catanzaro, sezione lavoro, 16 settembre 2021, est. Murgida, relativa ad un caso di dequalificazione in cui il danno alla professionalità (definito dal giudice di merito quale “compromissione dell'identità professionale”) è stato liquidato discostandosi dall'orientamento consolidato, utilizzando un parametro di riferimento basato sull'importo previsto per il danno biologico da inabilità temporanea assoluta ex art. 139, c. 1, d.lgs. n. 209 del 2005, scorporando la componente già assorbita dal risarcimento da riconoscere a titolo di danno biologico permanente e tenendo conto della durata del periodo di demansionamento.
Infine nella pronuncia del Tribunale di Bergamo il risarcimento del danno, liquidato in misura di € 79.415,49, viene ridotto ex art. 1227 c.c. considerando il concorso colposo nella produzione del pregiudizio da parte del lavoratore, il quale avrebbe prestato il proprio consenso al demansionamento e avrebbe altresì rifiutato di manifestare interesse alla proposta aziendale di nuove mansioni e di percorsi di formazione; condotta oppositiva verso qualsiasi mansione alternativa che, secondo il giudice, ha certamente concorso a cagionare il danno, conducendo pertanto alla riduzione del compendio risarcitorio alla complessiva somma di € 50.000,00.
Si tratta di decisione analoga ad un altro recente caso di dequalificazione professionale (sostanziatasi in un'inattività lavorativa totale), in cui la Cass., sez. lav., 8 luglio 2021, n. 19522, ha determinato il risarcimento del danno patrimoniale (pari ad 1/3 della retribuzione mensile lorda), considerando da un lato la lunga durata della dequalificazione (sei anni, dal 2006 al 2012) e dall'altro contemperandola con il concorso di colpa del lavoratore, che aveva rifiutato un trasferimento ad altra destinazione da parte del datore di lavoro e, soprattutto, aveva denunciato con colpevole ritardo (dopo sei anni) la situazione di inattività lavorativa. |