Variazioni in diminuzione IVA nella crisi d'impresa: l'Agenzia delle Entrate non risolve tutti i dubbi

Angelo Tubelli
16 Marzo 2022

L'Agenzia delle Entrate ha commentato le novità legislative introdotte con l'art. 18 D.L. 73/2021 (c.d. Decreto Sostegni bis) mediante la circolare 29 dicembre 2021, n. 20/E, con la quale ha fornito importanti chiarimenti di natura strettamente operativa, senza tuttavia affrontare la tematica “di fondo” sollevata sul tema dalla Corte di cassazione negli ultimi anni alla luce dei princìpi affermati dalla Corte di Giustizia UE, circa la conformità della disciplina contenuta nell'art. 26 con le disposizioni di matrice europea che regolano il tributo armonizzato.
Premessa

Con l'art. 18 D.L. 25 maggio 2021, n. 73 (c.d. Decreto Sostegni bis) è stato stabilito che il diritto di recuperare l'IVA applicata nei confronti di imprese in crisi che hanno fatto ricorso a uno degli istituti regolamentati dalla legge fallimentare, ove non percepita, può essere esercitato senza attendere la conclusione della procedura concorsuale (se aperta successivamente al 25 maggio 2021) mediante l'emissione della nota di variazione in diminuzione prevista dall'art. 26, commi 2 ss., D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Il medesimo articolo ha inoltre sancito in via normativa l'esonero per il debitore dalla registrazione “a debito” della nota di variazione in diminuzione emessa dal creditore.

L'Agenzia delle Entrate ha commentato tali novità legislative mediante la circolare 29 dicembre 2021, n. 20/E, con la quale ha fornito importanti chiarimenti di natura strettamente operativa, e nell'ambito di un incontro con la stampa specializzata tenutosi il 25 gennaio 2022, senza tuttavia affrontare la tematica “di fondo” sollevata sul tema dalla Corte di cassazione negli ultimi anni alla luce dei princìpi affermati dalla Corte di Giustizia UE, circa la conformità della disciplina contenuta nell'art. 26 con le disposizioni di matrice europea che regolano il tributo armonizzato.


Fonte: IlFallimentarista

Le modifiche apportate all'art. 26 sulle rettifiche in diminuzione in caso di mancato pagamento del corrispettivo

Sin dalla istituzione dell'imposta sul valore aggiunto, il legislatore italiano ha presupposto di avere, in base alle disposizioni comunitarie prima ed euro-unionali poi, la facoltà - e non l'obbligo - di riconoscere al cedente o prestatore il diritto di recuperare il tributo applicato e non incassato a causa dell'insolvenza (o dello stato di crisi) del cessionario o committente.

Solo con la legge 28 febbraio 1997, n. 30 il legislatore si è avvalso della (ritenuta) facoltà di estendere il diritto di rettifica in diminuzione anche al mancato pagamento del corrispettivo, ma limitandone l'esercizio ai soli casi in cui l'inadempimento del cessionario/committente risultasse “certificato” dall'assoggettamento di quest'ultimo a una procedura concorsuale o esecutiva dall'esito infruttuoso.

Invero, inizialmente con la suddetta legge era stato previsto che il diritto di rettificare in diminuzione l'IVA in precedenza applicata ma non incassata potesse essere esercitato sin dal momento “dell'avvio” della procedura concorsuale; tuttavia, già con la legge 28 maggio 1997, n. 140 il legislatore decise di sopprimere le parole “dell'avvio”, dando così origine alla querelle relativa alla corretta individuazione del dies a quo (indicato dall'Amministrazione finanziaria nel momento conclusivo della procedura concorsuale) (si vedano per tutti la C.M. 17 aprile 2000, n. 77/E e la circolare 7 aprile 2017, n. 8/E), querelle che si è protratta per oltre trent'anni e che si è risolta solo attraverso le modifiche recate all'art. 26 dal citato art. 18 D.L. n. 73/2021.

Queste modifiche sono consistite, da un lato, nell'espunzione di ogni riferimento al mancato pagamento del corrispettivo dal comma 2 dell'art. 26, che dunque ora ammette il diritto del cedente/prestatore di rettificare in diminuzione l'imposta applicata quando l'operazione viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l'ammontare imponibile, (1) in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o (2) in conseguenza dell'applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente (in merito sia consentito rinviare a G. Andreani - A. Tubelli, Variazioni IVA e crisi d'impresa: si può fare di più, in il fisco, 2021, 25, 2421 ss.), riassumendo così la medesima formulazione in essere fino al 1° marzo 1997 (data di entrata in vigore della citata L. n. 30/1997). Dall'altro lato, al precipuo fine di rimarcarne la distinzione rispetto agli eventi testé elencati, l'art. 18 D.L. n. 73/2021 (sulla falsariga dell'impostazione già presente nella normativa euro-unionale) ha introdotto nel medesimo articolo 26 il comma 3-bis, specificamente dedicato al caso del mancato pagamento del corrispettivo, il cui tenore letterale è il seguente: “La disposizione di cui al comma 2 si applica anche in caso di mancato pagamento del corrispettivo, in tutto o in parte, da parte del cessionario o committente:

a) a partire dalla data in cui quest'ultimo è assoggettato a una procedura concorsuale o dalla data del decreto che omologa un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all'articolo 182-bis del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, o dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese di un piano attestato ai sensi dell'articolo 67, terzo comma, lettera d), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267;

b) a causa di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose(da notare, quindi, che solo in caso di procedure esecutive individuali, il diritto di rettifica resta subordinato al loro esito infruttuoso).

Da notare, quindi, che solo in caso di procedure esecutive individuali, il diritto di rettifica resta subordinato al loro esito infruttuoso

È stato così (nuovamente) sancito (un'analoga previsione era stata già introdotta nell'art. 26 dai commi 126 e 127 dell'art. 1 legge 28 dicembre 2015, n. 208, che tuttavia furono successivamente abrogati prima della loro entrata in vigore, prevista per il 1° gennaio 2017) che il diritto di recuperare l'imposta applicata ma non riscossa può essere esercitato sin dalla data di avvio del fallimento, del concordato preventivo, della liquidazione coatta o dell'amministrazione straordinaria ovvero dalla data di emissione del decreto di omologa dell'accordo di ristrutturazione dei debiti ovvero, ancora, dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese del piano di risanamento attestato; con il nuovo comma 10-bis è stato poi precisato che il debitore si considera assoggettato a una delle procedure concorsuali indicate nella lett. a) del comma 3-bis a partire rispettivamente dalla data (i) della sentenza dichiarativa del fallimento, (ii) del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa, (iii) del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo, (iv) del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

Poiché l'ammontare del credito definitivamente incassato potrebbe in teoria risultare maggiore di quello ragionevolmente assumibile al momento dell'apertura della procedura concorsuale, nell'art. 26 d.P.R. n. 633/1972 è stato aggiunto anche il comma 5-bis, a norma del quale, nel caso in cui successivamente all'emissione della nota di variazione in diminuzione “il corrispettivo sia pagato, in tutto o in parte, si applica la disposizione di cui al comma 1”.

Per effetto di detta disposizione, quindi, qualora l'ammontare della nota di variazione in diminuzione emessa all'apertura della procedura concorsuale si dovesse rivelare superiore alla perdita effettivamente subita dal creditore, questi ha l'obbligo di emettere una nota di variazione in aumento per la differenza, entro dodici giorni dall'incasso del credito (il termine per l'emissione della nota di variazione in aumento, infatti, è quello previsto in via ordinaria per l'emissione della fattura da parte del cedente/prestatore) (ad avviso di chi scrive, tuttavia, il comma 5-bis non potrebbe comportare l'obbligo per il fornitore di mantenere aperta la propria posizione IVA fino alla data di definitiva conclusione della procedura, perché, se così dovesse essere, si ripresenterebbero i problemi di compatibilità con la normativa euro-unionale, facendo gravare un onere sul soggetto passivo non proporzionale alle reali esigenze di cassa. Se così è, in caso di sopravvenuta cessazione della posizione IVA, la previsione testé citata non dovrebbe rendersi applicabile).

Non è stata invece prevista un'apposita norma per disciplinare il caso opposto, in cui l'ammontare del credito incassato risulti inferiore rispetto alle previsioni iniziali, essendo all'uopo già sufficiente la previsione del comma 3-bis (si veda peraltro al riguardo quanto esposto più avanti).

Per il resto, cioè al di fuori delle fattispecie poc'anzi esaminate, l'impianto normativo disciplinante il meccanismo di rettifica in diminuzione dell'imposta è rimasto inalterato, poiché esso continua ad essere incentrato sull'emissione della “nota di variazione in diminuzione” da parte del cedente/cessionario, che a propria volta fa scattare in capo al cessionario/committente l'obbligo di rettificare la detrazione a suo tempo operata attraverso la ricezione e la registrazione di detto documento. Infatti, poiché il mancato esercizio del diritto di recuperare l'imposta applicata ma non incassata non costituisce di per sé circostanza idonea a generare conseguenze pregiudizievoli per l'Erario (restando in tal caso l'imposta comunque dovuta dal cedente/prestatore mentre il cessionario/committente continuerebbe a fruire della detrazione della stessa), la normativa interna, da un lato, ha da sempre sancito il carattere non obbligatorio della rettifica in diminuzione e, dall'altro, ha da sempre subordinato l'obbligo del cessionario/prestatore di rettificare la detrazione (inizialmente operata) all'effettivo esercizio di tale facoltà da parte del fornitore.

Con riguardo al debitore assoggettato a procedura concorsuale, all'evidente fine di semplificarne la gestione e le operazioni di chiusura, l'Amministrazione finanziaria, con un'interpretazione sotto certi aspetti criticabile attesa l'assenza di una norma che lo consentisse, aveva sin da subito sostenuto la sussistenza di un vero e proprio esonero per quest'ultimo dall'obbligo di registrare “a debito” la nota di variazione in diminuzione emessa dal creditore al momento conclusivo della procedura (pur – come si è evidenziato - in assenza di una espressa disposizione in tal senso, derogatoria dell'obbligo di rettifica sancito in via generale) (Sul punto si veda, tra i vari provvedimenti di prassi, la circolare 8 aprile 2016, n. 12/E).

Anche questa disciplina è stata chiarita dall'art. 18 D.L. n. 73/2021 tramite l'aggiunta di un secondo periodo al comma 5 dell'art. 26, in forza del quale l'obbligo di rettifica dell'IVA originariamente detratta dal cessionario/committente “non si applica nel caso di procedure concorsuali di cui al comma 3-bis, lettera a)”. Ne deriva che, per espressa previsione normativa, il curatore del fallimento, il liquidatore, il commissario straordinario o l'impresa in concordato che ricevono la nota di variazione non sono tenuti ad annotare la corrispondente variazione in aumento nel registro di cui all'art. 23 o all'art. 24 D.P.R. n. 633/1972, restando l'imposta a credito da rettificare a carico dell'Erario.

Infine, con una norma di natura transitoria (collocata nel comma 2 dell'art. 18 D.L. n. 73/2021) il legislatore italiano ha limitato l'applicazione delle nuove disposizioni testé citate “alle procedure concorsuali avviate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”, ovverosia a quella avviate dal 26 maggio 2021. Questa previsione è presumibilmente riconducibile all'esigenza di assicurare debita copertura finanziaria rispetto alla probabile riduzione del gettito erariale discendente dall'anticipazione del momento di emissione delle note di variazione in diminuzione (stimato nella relazione tecnica in misura pari a trecentoquaranta milioni di euro nel primo anno), nonché della data di efficacia dell'esonero di cui si è detto.

I chiarimenti forniti dall'Agenzia delle Entrate

Con la circolare n. 20/E/2021 l'Agenzia ha in primis riconosciuto che il diritto di emettere la nota di variazione in diminuzione a causa dell'inadempienza del debitore non può essere precluso al creditore che non abbia richiesto l'ammissione al passivo del credito corrispondente, non essendo tale diritto subordinato alla “necessaria partecipazione del creditore al concorso”, come invece l'Amministrazione finanziaria aveva in passato più volte sostenuto (Si vedano la circolare n. 77/E/2000, cit., nonché le risoluzioni 16 maggio 2008, n. 195/E, e 5 maggio 2009, n. 120/E).

L'Agenzia ha così preso atto del principio affermato al riguardo dalla Corte di Giustizia UE, con la sentenza 11 giugno 2020, C-146/19, la quale aveva anzi rilevato come proprio la mancata insinuazione rendesse definitiva l'irrecuperabilità del credito.

La disamina dell'Agenzia delle Entrate si è quindi soffermata sul dies ad quem della variazione. Se infatti la modifica normativa recata dal D.L. n. 73/2021 ha individuato con esattezza il momento a partire dal quale il diritto di rettifica può essere esercitato, non altrettanto può dirsi con riferimento al termine ultimo per il suo esercizio, in quanto l'art. 26 non prevede espressamente alcun termine finale entro il quale emettere la nota di variazione in diminuzione a pena di decadenza. Tuttavia, il comma 2 dell'art. 26, dispone che, a seguito dell'emissione del suddetto documento, il creditore “ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell'articolo 19 l'imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell'articolo 25”, per il che (stando almeno all'interpretazione fornita dall'Agenzia delle Entrate) il recupero dell'IVA originariamente applicata è sottoposto al rispetto delle medesime regole cui è soggetta la detrazione dell'imposta assolta sugli acquisti: in altri termini, la nota di variazione in diminuzione è equiparata alla fattura d'acquisto di beni o di prestazioni di servizi ed è attraverso la sua registrazione (da effettuarsi secondo i medesimi canoni previsti per quest'ultimo documento) che è in concreto possibile recuperare l'imposta oggetto di rettifica in diminuzione.

L'art. 19, comma 1, II periodo D.P.R. 633/1972 dispone al riguardo che “il diritto alla detrazione dell'imposta relativa ai beni e servizi acquistati o importati sorge nel momento in cui l'imposta diviene esigibile ed è esercitato al più tardi con la dichiarazione relativa all'anno in cui il diritto alla detrazione è sorto ed alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo”.

In base al combinato disposto dell'art. 26, comma 2, dell'art. 19, comma 1, D.P.R. 633/1972, l'esercizio del diritto di recuperare l'imposta applicata e non percepita risulta dunque subordinato alla tempestiva emissione della nota di variazione in diminuzione, da effettuarsi (al più tardi) con la dichiarazione IVA relativa all'anno in cui si è verificato l'evento che dà diritto alla sua emissione.

Tuttavia la locuzione “con la dichiarazione” presente nel comma 1 del citato art. 19 avrebbe potuto essere letteralmente interpretata nel senso che, in caso di assoggettamento del debitore a una procedura concorsuale avviata il 30 dicembre dell'anno “n”, in base alle nuove regole il creditore sarebbe stato tenuto ad emettere la nota di variazione in diminuzione entro il 31 dicembre del medesimo anno “n”, per poter far valere il recupero dell'imposta “con la dichiarazione” IVA da presentare entro il 30 aprile dell'anno successivo.

Con la circolare n. 20/E/2021 l'Agenzia delle Entrate ha invece condivisibilmente confermato la diversa interpretazione dalla stessa già fornita con le risposte a interpello n. 192 del 24 giugno 2020 e n. 119 del 17 febbraio 2021 (nonché nell'ultimo capoverso del paragrafo 1.5 della circolare 17 gennaio 2018, n. 1/E), rilevando che la nota di variazione in diminuzione si considera tempestiva se emessa “entro il termine di presentazione ordinario della dichiarazione annuale IVA relativa all'anno in cui si sono verificati i presupposti per operare la variazione in diminuzione”.

In altri termini, la locuzione “con la dichiarazione” IVA dell'anno di riferimento è stata correttamente interpretata come equivalente all'espressione “entro il termine per la presentazione della dichiarazione” IVA dell'anno di riferimento. Pertanto, con riferimento alle procedure concorsuali, la nota di variazione in diminuzione deve essere emessa entro il termine di presentazione della dichiarazione IVA relativa all'anno di emissione:

  • della sentenza dichiarativa del fallimento;
  • del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa;
  • del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo;
  • del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

Per esempio, se la procedura concorsuale cui è assoggettato il debitore è stata avviata il 1° settembre 2021, la nota di variazione può essere emessa a decorrere da tale data e, al più tardi, entro il termine di presentazione della dichiarazione IVA relativa all'anno 2021, vale a dire entro il 30 aprile 2022 e quindi anche dopo la chiusura dell'anno di avvio della procedura concorsuale (Lo stesso termine di decadenza opera evidentemente anche per la nota di variazione in diminuzione da emettere nei confronti di debitori che hanno fatto ricorso agli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.f. o ai piani di risanamento attestati di cui all'art. 67, comma 3, lett. d), della medesima legge).

Tuttavia, se emessa nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2022 e il 30 aprile 2022, “la detrazione può essere operata nell'ambito della liquidazione periodica IVA relativa al mese o trimestre in cui la nota viene emessa, ovvero direttamente in sede di dichiarazione annuale relativa all'anno 2022 (da presentare entro il 30 aprile 2023)”: ciò perché la data entro cui esercitare il diritto alla detrazione “deve essere individuata nella data della liquidazione periodica IVA relativa al mese o trimestre in cui la nota viene emessa o, al più tardi, in sede di dichiarazione IVA relativa all'anno di emissione della nota”.

L'Agenzia delle Entrate ha inoltre ribadito che, in caso di mancata emissione della nota di variazione in diminuzione entro l'indicato termine, il recupero dell'imposta non incassata non può avvenire tramite la presentazione della dichiarazione integrativa a favore di cui all'art. 8, comma 6-bis, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, né tramite la presentazione dell'istanza di rimborso di cui all'art. 30-ter del D.P.R n. 633/1972, essendo irrimediabilmente intervenuta la decadenza del diritto di rettifica che lo origina.

Invero la perentorietà di tale affermazione avrebbe potuto far pensare alla sussistenza di una sorta di implicito termine di decadenza, per cui, una volta decorsa la data di presentazione della dichiarazione IVA relativa all'anno di avvio della procedura senza l'emissione della nota di variazione in diminuzione, il diritto di detrarre l'imposta non incassata avrebbe dovuto ritenersi non più esercitabile. Tuttavia, nell'ambito di un incontro con la stampa specializzata intervenuto il 25 gennaio 2022, l'Agenzia delle Entrate ha avuto modo di chiarire che, in caso di mancata emissione della nota di variazione in diminuzione ai sensi del comma 3-bis dell'art. 26 e, dunque, in correlazione con il momento di apertura della procedura concorsuale, deve considerarsi comunque salvo il diritto del creditore di emettere il suddetto documento al momento della definitiva conclusione della stessa in forza del comma del medesimo art. 26, poiché quest'ultima disposizione concerne tutte le situazioni in cui la base imponibile si riduce definitivamente (comprese, perciò, quelle specificamente disciplinate dal comma 3-bis). In questo modo il diritto di detrarre la relativa imposta deve essere esercitato:

a) entro il termine di presentazione della dichiarazione IVA relativa all'anno di avvio della procedura;

oppure,

b) entro il termine di presentazione della dichiarazione IVA relativa all'anno di conclusione della procedura.

Se così è, l'esercizio del diritto di recuperare l'imposta applicata ma non incassata resta evidentemente sospeso nel periodo temporale compreso tra il termine indicato sub a) e la data di definitiva conclusione della procedura, ragion per cui al creditore sarebbe imposto di decidere tout court se emettere la nota di variazione subito, ovverosia al momento di apertura della procedura, oppure se attenderne la definitiva conclusione.

Parzialmente diversa era invece la proposta rappresentata da Assonime con la circolare 17 del 7 giugno 2021, secondo cui sarebbe stato invece opportuno stabilire che, in virtù della provvisorietà della perdita, “fosse lasciata al contribuente la facoltà di rinviare la variazione in diminuzione fino alla conclusione della procedura, evitandosi l'anticipazione del termine ultimo di decadenza del diritto al recupero”, ovverosia per tutto il periodo temporale compreso tra la data di avvio e quella di definitiva chiusura della procedura concorsuale. Questa soluzione, oltre a essere in linea con quanto analogamente previsto ai fini delle imposte sui redditi, appare coerente con quanto disposto dal primo periodo del comma 5-bis in ordine all'obbligo di rettificare in aumento la precedente variazione in diminuzione “[n]el caso in cui, successivamente agli eventi di cui al comma 3-bis, il corrispettivo sia pagato, in tutto o in parte”, vale a dire in tutto il periodo temporale compreso tra l'apertura e la definitiva chiusura della procedura. Inoltre, sotto il profilo logico-sistematico non è dato comprendere perché al contribuente, che abbia ragionevolmente atteso un anno in più (rispetto all'avvio della procedura), magari per meglio comprendere le sorti del proprio credito e stimare la propria perdita sulla base degli elementi e “aggiustamenti” sopravvenuti nel corso della procedura, dovrebbe essere impedita la facoltà di emettere la nota di variazione in diminuzione medio tempore, costringendolo ad attenderne la definitiva chiusura.

Un altro aspetto su cui l'Agenzia delle Entrate ha fornito un atteso chiarimento concerne l'importo della rettifica da effettuare in caso di mancato pagamento del corrispettivo per assoggettamento del debitore a una procedura concorsuale. Rileva infatti l'Agenzia che in caso di concordato preventivo “la parte dei corrispettivi fatturati dai creditori che dovrà essere pagata dai debitori sottoposti a detta procedura è individuata in modo specifico fin dal decreto di ammissione, in forza della peculiare disciplina prevista dalla legge fallimentare. Da ciò discende, quindi, cheil creditore può emettere una nota di variazione in diminuzione solo per la quota di credito chirografario destinata a restare insoddisfatta, in base alle percentuali definite dalla procedura”.

Nonostante tale limitazione non emerga direttamente dal testo del comma 3-bis dell'art. 26 (che individua solo la data di avvio della procedura concordataria quale presupposto di per sé legittimante la rettifica in diminuzione per l'importo del credito non ancora incassato) e sebbene il comma 5-bis dapprima citato si preoccupi di regolamentare l'eventualità dell'incasso del credito in misura superiore a quello della rettifica operata all'avvio della procedura, la precisazione fornita dall'Agenzia delle Entrate è da condividere.

L'assenza di una espressa limitazione quantitativa, infatti, non può legittimare l'emissione iniziale di una nota di variazione in diminuzione per l'intero ammontare del credito (cui far eventualmente seguire l'emissione di una nota di variazione in aumento per l'importo effettivamente incassato), dovendosi interpretare la previsione del comma 5-bis come norma di chiusura, destinata a trovare applicazione solo per gli eventuali importi residuali “in eccesso”. Né sarebbe ragionevole attribuire al creditore il diritto di rettificare per intero il proprio credito, poiché una percentuale di soddisfazione deve necessariamente essere prevista dalla proposta di concordato: lo scopo della modifica normativa, infatti, non è quello di consentire l'automatico azzeramento del credito e della relativa IVA al momento dell'avvio della procedura concorsuale cui è assoggettato il debitore, ma unicamente quello di consentire al creditore di recuperare la quota-parte dell'imposta di cui può essere escluso il recupero già in tale momento, senza dovere necessariamente attendere la completa esecuzione della procedura concorsuale. Pertanto, tale necessità si presenta, sì, anche con il nuovo assetto normativo, ma con una diversa finalità, riguardando ora soltanto la quota del credito (e del tributo in esso compresa) che eccede quella oggetto della nota di variazione in diminuzione, per stabilire se, oltre alla prima nota di variazione, può esserne emessa anche un'altra, nel caso il credito di cui è stato offerto il pagamento venga poi soddisfatto in misura inferiore, a causa di un andamento della procedura diverso da quello previsto.

Quanto agli effetti sul debitore, l'Agenzia delle Entrate ha tenuto a rimarcare che l'esonero dalla registrazione a debito della nota di variazione in diminuzione emessa dal creditore opera unicamente nel caso di assoggettamento del debitore a fallimento, liquidazione coatta amministrativa, concordato preventivo (liquidatorio o con continuità aziendale ex art. 186-bis l.f.) e amministrazione straordinaria. Il medesimo esonero non riguarda, invece, gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.f. e i piani attestati ai sensi dell'art. 67, comma 3, lett. d), l.f., trattandosi di istituti non “qualificabili come procedure concorsuali in senso stretto, in quanto mancano sia del carattere della “concorsualità”, sia di quello dell'‘ufficialità'” (con riguardo alla normativa previgente al D.L. n. 73/2021, si vedano, con rifermento agli accordi di ristrutturazione dei debiti, la risposta a interpello n. 110 del 17 dicembre 2018 e, con riferimento al concordato preventivo, la risposta a interpello n. 54 del 30 ottobre 2018 e n. 113 del 18 dicembre 2018).

Questa disciplina discende dalle norme di cui trattasi, ma le motivazioni addotte dall'Agenzia non sono convincenti.

Infatti, se è pacificamente da escludere la possibilità di considerare una procedura concorsuale il piano attestato, non avendone esso né la forma né la natura, qualche riflessione in più si impone con riferimento agli accordi di ristrutturazione dei debiti: ciò alla luce dell'ormai consolidato orientamento della Corte di cassazione che ha ricondotto tale istituto nell'alveo delle procedure concorsuali (Cfr. Cass. 18 gennaio 2018, n. 1182; 12 aprile 2018, n. 9087; 21 giugno 2018, n. 16347; 24 maggio 2018, n. 12965), in quanto la relativa disciplina presuppone “forme di controllo e pubblicità sulla composizione negoziata, ed effetti protettivi, coerenti con le caratteristiche dei procedimenti concorsuali”.

Ad avviso di chi scrive, dunque, la soluzione negativa propugnata dall'Agenzia delle Entrate, più che fondarsi sui concetti di “concorsualità in senso stretto” e “ufficialità”, deriva dalla netta demarcazione che la lett. a) del comma 3-bis opera tra le “procedure concorsuali” e gli altri due istituti sopra menzionati. Si intende dire che, indipendentemente dal fatto che l'accordo di ristrutturazione costituisca una procedura concorsuale ai fini della disciplina fallimentare, con riguardo al tema de quo è la stessa legge a escludere che esso debba essere considerato tale e, del resto, la locuzione “procedura concorsuale” deve essere interpretata in maniera uniforme nel contesto della medesima norma, nel senso che, se l'accordo non è una procedura in relazione al disposto del comma 3-bis, non lo è nemmeno in relazione a quello del comma 5-bis. In altri termini, se l'assenza del suddetto obbligo potesse concernere anche gli accordi di ristrutturazione e i piani attestati di cui sopra, il secondo periodo del comma 5 avrebbe dovuto fare generico riferimento agli “istituti di cui al comma 3-bis, lettera a)”, anziché alle “procedure concorsuali di cui al comma 3-bis, lettera a)”.

Vi è peraltro da aggiungere al riguardo che appare censurabile nel merito la scelta del legislatore di prevedere per il concordato preventivo in continuità una disciplina diversa da quella stabilita per l'accordo di ristrutturazione dei debiti, dalla quale deriva l'introduzione nell'ordinamento di un elemento distorsivo che incentiva ingiustificatamente il concordato a discapito dell'accordo di ristrutturazione (quanto meno se questo non è liquidatorio), mentre un fattore che può giustificare una diversità di trattamento potrebbe semmai essere individuato nella natura di risanamento, o meno, dell'istituto cui l'impresa in crisi fa ricorso.

Sempre con riguardo all'esonero della registrazione a debito accordato al debitore assoggettato a procedura concorsuale, l'Agenzia delle Entrate ha sciolto un delicato dubbio interpretativo posto dalla norma di diritto transitorio dapprima citata, secondo cui le disposizioni di cui al “comma 5, secondo periodo”, al pari di quelle introdotte nel comma 3-bis dell'art. 26 sul dies a quo, “si applicano alle procedure concorsuali avviate in seguito alla data di entrata in vigore della presente norma”.

Sotto il profilo testuale, infatti, questa previsione può essere letta solo nel senso che l'esonero dall'obbligo di registrazione “a debito” della nota di variazione in diminuzione, da parte del debitore assoggettato a procedura concorsuale, rileva esclusivamente in caso di avvio della procedura a partire dal 26 maggio 2021, ma non per quelle già in corso a tale data (contrariamente a quanto più volte sostenuto in proposito dall'Amministrazione finanziaria).

Ciò nonostante, l'Agenzia ha chiarito che l'esonero dalla registrazione a debito vale anche per le procedure concorsuali avviate prima del 26 maggio 2021, dovendosi per queste fare ancora riferimento al previgente testo dell'art. 26, così come interpretato dalla stessa Agenzia, secondo cui l'esonero di cui trattasi già trovava applicazione sulla base di detta norma, seppur in assenza di una espressa disposizione che lo prevedesse, come si è avuto modo di rilevare in altra occasione (in merito sia consentito rinviare a G. Andreani - A. Tubelli, Concordato preventivo e variazioni in diminuzione: Cassazione versus Agenzia delle entrate, in il fisco, 2021, 721 ss.).

Il possibile contrasto della soluzione legislativa con la normativa europea

La nuova formulazione dell'art. 26, nell'ammettere la possibilità di emettere la nota di variazione in diminuzione sin dalla data di avvio della procedura concorsuale, risulta finalmente allineata alle disposizioni euro-unionali in tema di rettifica in diminuzione dell'IVA applicata ma non percepita.

Tuttavia, nella nuova norma si continua a distinguere il caso del mancato pagamento del corrispettivo a causa di procedura concorsuale dagli altri casi in cui la variazione in diminuzione è consentita, mentre in base alla normativa europea la distinzione tra le due categorie è destinata a cadere quando il mancato pagamento del corrispettivo assume carattere di definitività o è ragionevolmente probabile (come appunto accade nel caso in cui il debitore ricorra a una procedura concorsuale formulando una precisa offerta di pagamento ai creditori, da cui sia desumibile l'importo del credito destinato a rimanere insoddisfatto). L'impostazione adottata dal legislatore italiano presenta, dunque, alcune criticità, per i motivi di seguito illustrati.

La criticità relativa all'applicazione non retroattiva della norma che anticipa il diritto di rettifica all'avvio della procedura concorsuale

La base imponibile IVA è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto dal soggetto passivo (c.d. principio di effettività del corrispettivo) e l'Amministrazione finanziaria non può dunque riscuotere a titolo di IVA un importo superiore a quello percepito al medesimo titolo dal soggetto passivo, pena la violazione del principio di neutralità del tributo (cfr. Corte di Giustizia UE, 3 luglio 1997, causa C-330/1995; 26 gennaio 2012, causa C-588/10; 15 maggio 2014, causa C-337/13; 2 luglio 2015, causa C-209/14; 23 novembre 2017, causa C-246/16).

Poiché di regola l'imposta si rende dovuta al momento della fatturazione dell'operazione economica cui è connessa, e non al momento dell'effettivo incasso del corrispettivo, al fine di consentire al cedente o al prestatore il recupero della maggiore imposta rispetto a quella corrispostagli dal cliente, l'art. 90 Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 (cd. Direttiva IVA) stabilisce al riguardo quanto segue:

“1. In caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l'operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri.

2. In caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare al paragrafo 1.”.

Dal testo dell'art. 90 della Direttiva IVA e, in particolare, del paragrafo 2 potrebbe dunque ricavarsi che a ciascun Stato membro sia stata attribuita la facoltà:

a) di accordare la riduzione della base imponibile anche nel caso del mancato pagamento del corrispettivo come è previsto in linea generale dal paragrafo 1;

b) di non riconoscere affatto il diritto di recuperare l'imposta con riguardo a tale evento in deroga a tale principio generale;

c) di riconoscere tale diritto subordinatamente al rispetto delle condizioni poste a propria discrezione da ciascuno Stato membro.

Del fatto che a ciascuno Stato membro fosse stata attribuita la facoltà di scegliere, a propria discrezione, una delle tre possibilità sopra elencate il legislatore italiano si è dimostrato convinto sin dalla emanazione del D.P.R. n. 633/1972, tant'è che fino al 1° marzo 1997 l'art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 non contemplò il mancato pagamento del corrispettivo tra gli eventi che avrebbero dato diritto alla rettifica in diminuzione delle operazioni IVA. Che questa sia l'interpretazione alle disposizioni dettate in proposito dall'art. 90 della Direttiva IVA, adottata dal legislatore italiano, lo dimostra da ultimo proprio la relazione governativa che ha accompagnato l'iter di conversione del D.L. n. 73/2021, ove si afferma che “le modifiche apportate all'articolo 26 risultano conformi ai principi dell'ordinamento europeo e in particolare alla previsione di cui all'articolo 90, secondo paragrafo, della direttiva 2006/112/CE (direttiva IVA) il quale rimette agli Stati la facoltà di stabilire se e a quali condizioni riconoscere il diritto alla riduzione della base imponibile e dell'imposta in caso di mancato pagamento in tutto o in parte del corrispettivo”.

Orbene, secondo l'indirizzo rappresentato dalla Corte di Giustizia UEcon la sentenza23 novembre 2017, causa C-246/16, in base a una interpretazione teleologica dell'art. 90 della Direttiva IVA la possibilità di escludere in tutto o in parte il mancato pagamento del corrispettivo tra gli eventi che danno diritto alla rettifica in diminuzione (prevista dal paragrafo 2 in deroga alla regola generale sancita nel paragrafo 1) va riferita ai casi in cui non vi sia stata risoluzione o annullamento del contratto e l'acquirente resta debitore del prezzo convenuto, sicché il venditore, per quanto non più proprietario del bene, dispone sempre - in linea di principio - del suo credito e può far valere in sede giurisdizionale (In senso analogo si veda la sentenza 15 maggio 2014, causa C-337/13, punto 25): in tali casi il paragrafo 2 dell'art. 90 della Direttiva IVA concede la sopramenzionata facoltà di scelta in considerazione delle oggettive difficoltà che si incontrano per stabilire in concreto la definitività o meno della perdita del credito e la relativa misura, con conseguente rinvio alla legislazione interna per l'eventuale riconoscimento del diritto di rettifica nonostante la provvisorietà della perdita del credito e per le conseguenti condizioni al suo esercizio.

Tuttavia, nel punto 22 della medesima sentenza, i giudici euro-unionali hanno ulteriormente precisato che la facoltà di deroga concessa dal paragrafo 2 “non può estendersi al di là di tale incertezza, e in particolare alla questione se una riduzione della base imponibile possa non essere effettuata in caso di non pagamento”, né le condizioni imposte per il riconoscimento del diritto di rettifica possono essere del tutto arbitrarie, dovendo essere coerenti con l'obiettivo di armonizzazione del tributo. Con la sentenza 23 novembre 2017, causa C-426/16, la Corte di Giustizia UE ha perciò sancito che imporre la chiusura della procedura concorsuale, per acquisire la certezza della definitiva irrecuperabilità del credito, farebbe sopportare alle imprese italiane un ingiustificato svantaggio in termini di liquidità rispetto ai loro concorrenti di altri Stati membri in violazione dei principi di neutralità e di proporzionalità su cui è incentrata l'imposta sul valore aggiunto, laddove per riconoscere la riduzione della base imponibile dell'IVA è sufficiente la prova della “probabilità ragionevole che il debito non sia saldato” dal debitore che abbia fatto ricorso a una procedura concorsuale.

Ne discende che, anche in assenza di una convenzionale rideterminazione del prezzo pattuito tra le parti, ciascuno Stato membro non ha la facoltà, ma l'obbligo di riconoscere al contribuente il diritto di rettifica in diminuzione nei casi in cui il mancato pagamento del corrispettivo può dirsi definitivo oppure irreversibile o ragionevolmente probabile, con la conseguenza che tale fattispecie deve essere trattata da ciascuno Stato membro esattamente come le altre ipotesi di riduzione della base imponibile.

Così stando le cose, potrebbe apparire censurabile la norma di diritto transitorio che (per evidenti ragioni di cassa) limita l'efficacia delle disposizioni inserite nel comma 3-bis dell'art. 26 alle sole procedure concorsuali avviate dal 26 maggio 2021, posto che la misura della perdita del credito vantato verso un'impresa assoggettata a procedura concorsuale prima di tale data è anch'essa quantificabile in maniera ragionevolmente probabile o quantomeno è obiettivamente quantificabile già al momento dell'apertura della procedura (senza dovere attenderne la definitiva conclusione), ferma restando l'eventuale e successiva possibilità di “rettificare in aumento la rettifica in diminuzione”, come espressamente riconosciuto dal comma 5-bis del medesimo art. 26.

Vista l'esplicita ammissione del contrasto sussistente tra l'art. 26 ante D.L. n. 73/2021 e i precetti della Direttiva 2006/112/CE, le cui disposizioni possono essere fatte valere a superamento della normativa interna(self-executing), non può dunque escludersi il tentativo di applicare la nuova norma anche alle procedure già avviate prima del 26 maggio 2021 oppure di utilizzarla per legittimare condotte tenute in passato, ad essa conformi.

La mancata previsione dell'obbligo di rettifica della detrazione in capo al debitore in caso di riduzione definitiva del prezzo dovuto

L'altra criticità che la nuova formulazione dell'art. 26 D.P.R. n. 633/1972 continua a presentare concerne gli effetti che derivano in capo al debitore dalla definitiva riduzione del corrispettivo da pagare al creditore, conseguente all'omologazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo.

Occorre in proposito rammentare che, così come l'art. 90 disciplina il diritto di un fornitore di ridurre la base imponibile ogniqualvolta (successivamente alla conclusione di un'operazione) non riceve il corrispettivo previsto o riceve solo una parte dello stesso, l'art. 185 regolamenta simmetricamente la rettifica della detrazione operata in origine dalla controparte.

Sotto quest'ultimo aspetto la Direttiva IVA, all'art. 184, impone agli Stati membri di pretendere dal cessionario/committente la rettifica della detrazione operata inizialmente (“quando è superiore o inferiore a quella cui il soggetto passivo ha diritto”) e, all'art. 185, stabilisce testualmente quanto segue:

“1. La rettifica ha luogo, in particolare, quando, successivamente alla dichiarazione dell'IVA, sono mutati gli elementi presi in considerazione per determinare l'importo delle detrazioni, in particolare, in caso di annullamento di acquisti o qualora si siano ottenute riduzioni di prezzo.

2. In deroga al paragrafo 1, la rettifica non è richiesta in caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate, in caso di distruzione, perdita o furto debitamente provati o giustificati, nonché in caso di prelievi effettuati per dare regali di scarso valore e campioni di cui all'art. 16. In caso di operazioni totalmente o parzialmente non pagate e in caso di furto gli Stati membri possono tuttavia esigere la rettifica”.

Orbene i principi sanciti dalla Corte di Giustizia UE con riguardo all'interpretazione dell'art. 90 della Direttiva Iva valgono in maniera del tutto speculare anche per l'interpretazione degli artt. 184 e 185 con riferimento al diritto di detrazione spettante al debitore, trattandosi di “due facce di una stessa operazione economica” (Cfr. per analogia Corte di Giustizia UE, sentenze 24 ottobre 1996, causa C-317/94, punto 33; 15 ottobre 2002, causa C-427/98, punto 42; 29 aprile 2004, causa C-152/02, punto 36.

Per tale ragione la Corte di Giustizia UE, con la sentenza 22 febbraio 2018, causa C-396/16, ha sancito che, qualora a seguito dell'omologazione definitiva di un concordato le obbligazioni del debitore - secondo il diritto nazionale applicabile - siano state ridotte in modo che la parte corrispondente dei crediti dei fornitori di quest'ultimo è divenuta definitivamente irrecuperabile, la riduzione delle obbligazioni di un debitore risultante dall'omologazione definitiva (impedendo ai creditori di chiedere il pagamento totale dei loro crediti) costituisce un'ipotesi di riduzione della base imponibile dell'operazione e perciò comporta l'obbligo del debitore di rettificare la detrazione operata inizialmente.

Il medesimo principio è stato affermato dai giudici europei con la sentenza 11 giugno 2020, causa C-146/17, ove l'omologa del concordato preventivo è stata inquadrata come fattispecie estintiva del credito che impedisce ai creditori di chiedere il pagamento integrale dei loro crediti, con conseguente riduzione delle obbligazioni del debitore committente nei confronti dei suoi creditori.

A queste precipue indicazioni si è attenuta la Corte di cassazione con la sentenza 28 gennaio 2020, n. 25896, e con la sentenza 11 settembre 2020, n. 18837.

In particolare, nell'ambito di questa seconda pronuncia i giudici di legittimità hanno affermato che “il committente perde sin dall'omologa della proposta concordataria - nella misura di soddisfacimento dei crediti chirografari prospettata con la proposta omologata - il diritto di far valere la rettifica oltre la percentuale indicata nella proposta omologata. Con l'omologa della proposta concordataria vi è, difatti, la ragionevole certezza che quel debito di rivalsa non sarà integralmente recuperato, se non nei limiti della percentuale indicata nella proposta omologata, la quale costituisce condizione di esercizio della detrazione” (I giudici di legittimità hanno altresì affermato che “l'obbligo di rettifica del cessionario/committente non dipende dalla rettifica dell'IVA dovuta al fornitore” e che “la condotta del cessionario/committente è destinata a riverberare i propri effetti sulla posizione del cedente/prestatore: e ciò perché si tratta di due facce di una stessa operazione economica, che devono essere valutate in maniera coerente” (nello stesso senso si veda anche la citata sentenza n. 18837/2020). Anche questa conclusione non appare in linea con il meccanismo di rettifica elaborato dal legislatore italiano, totalmente imperniato sull'iniziativa del cedente o del prestatore che abbia applicato un'imposta resasi successivamente (per effetto di un mutamento delle condizioni originarie) in tutto o in parte non dovuta; soltanto se tale diritto viene esercitato tramite l'emissione della nota di variazione in diminuzione, l'art. 26, comma 2, fa sorgere l'obbligo del destinatario di rettificare la detrazione a suo tempo operata attraverso la ricezione e la registrazione di detto documento).

L'esonero per il debitore assoggettato a procedura concorsuale dalla registrazione a debito della nota di variazione in diminuzione emessa dal creditore, ora espressamente accordato dal secondo periodo del comma 5 dell'art. 26 del D.P.R. n.633/1972, si pone dunque in contrasto con l'indirizzo sancito dalla Corte di Giustizia UE e dalla Corte di Cassazione con riguardo alle obbligazioni del debitore.

Va inoltre evidenziato che, come si è già rilevato, detto esonero trova applicazione anche in caso di concordato con continuità aziendale ma non con riguardo agli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all'art. 182-bis l.f. (come confermato con la circolare n. 20/E/2021), dal che consegue un evidente discrimine nel trattamento fiscale tra i due istituti, ingiustificato alla luce della comune ratio di consentire il superamento della crisi d'impresa. Tale esonero potrebbe peraltro configurarsi anche come illegittimo aiuto di Stato in presenza della continuazione dell'attività d'impresa, alla luce del consolidato orientamento assunto dalla Commissione europea n. 2007/C-207/05, secondo cui su ciascuno Stato membro grava sempre l'obbligo di richiedere l'integrale restituzione degli aiuti di Stato illegittimamente percepiti dall'impresa in caso di prosecuzione dell'attività (direttamente o indirettamente).

Al fine di uniformare il trattamento fiscale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione, di dare attuazione all'obbligo di rettifica dell'IVA detratta nonché di evitare il rischio di possibili censure in sede europea, meglio avrebbe fatto il legislatore a riconoscere che il credito erariale derivante dalla rettifica della detrazione IVA costituisce un credito concorsuale come tutti gli altri aventi la medesima natura, da trattare perciò con i medesimi criteri sanciti dall'art. 182-ter in tema di transazione fiscale, atteso che la falcidia dell'IVA derivante dal ricorso a detto istituto è stata ritenuta compatibile con il diritto dell'Unione dalla Corte di Giustizia con la sentenza 7 aprile 2016, causa C-546/14.

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