Non assoggettabilità a tassazione dell'indennità dovuta dalla P.A. a titolo di risarcimento danni per abuso dei contratti a tempo determinato
17 Marzo 2022
Massima
Con riferimento all'indennità riconosciuta al lavoratore pubblico in caso di illecita reiterazione di contratti di lavoro a termine, si è rilevato che “in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di "chance" di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'art.1223 c.c ".
Ne deriva, pertanto, che, assumendo l'importo corrisposto al lavoratore, per effetto dell'abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, natura risarcitoria da perdita di chance, come tale estranea ai rapporti di lavoro posti in essere nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione, gli importi riconosciuti dal Giudice del lavoro quale risarcimento del danno ex art. 36, comma 5 D.Lgs. n. 165 del 2001, non sono assoggettabili a tassazione ex art. 6, comma 1 D.P.R. n. 917/1986 Il caso
La ricorrente, collaboratrice scolastica, avendo lavorato ininterrottamente alle dipendenze del Ministero dell'Istruzione sulla base di undici contratti a termine prima di essere immessa in ruolo, aveva presentato ricorso al giudice ordinario chiedendo la condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno per l'illegittima apposizione del termine di durata al rapporto di lavoro e, quindi, il pagamento dell'indennità di cui all'art. 32, comma 5, l. n. 183/10 nonché il riconoscimento della progressione stipendiale spettante al personale di ruolo.
Il Tribunale, in accoglimento parziale del ricorso, aveva dichiarato l'illegittimità dell'apposizione del termine del 31 agosto ai contratti di lavoro conclusi tra le parti, condannando l'amministrazione al risarcimento del danno subito dalla ricorrente, liquidato in 8,5 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con aggiunta di interessi e rivalutazione dalla data della sentenza sino all'effettivo soddisfo.
La sentenza del giudice del lavoro, passata in giudicato, veniva eseguita parzialmente dall'Amministrazione, mediante il pagamento di un importo inferiore rispetto a quello asseritamente dovuto.
Lamentando l'inottemperanza integrale del titolo giudiziale, la lavoratrice proponeva ricorso al Tar, chiedendo di ordinare all'amministrazione di ottemperare alla sentenza del Tribunale e, per l'effetto, di provvedere alla corresponsione del risarcimento del danno nella misura di 8,5 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto (detratto l'importo già versato), con l'aggiunta di interessi e rivalutazione nei limiti di legge dalla data della sentenza e sino all'effettivo soddisfo.
All'esito di un ordine istruttorio impartito dal Tar, l'amministrazione rappresentava in giudizio di aver calcolato il danno sulla base della retribuzione percepita alla data di presentazione del ricorso al giudice del lavoro e di aver operato la ritenuta d'acconto IRPEF.
Il Tar rigettava il ricorso, rilevando in primo luogo che la questione riferita alla necessità di sottoporre a tassazione la somma complessiva ottenuta a titolo risarcitorio rientrava nella giurisdizione amministrativa, in quanto relativa allo specifico profilo della corretta esecuzione della sentenza ottemperanda, così venendo in rilievo un aspetto rientrante nei poteri cognitori del giudice amministrativo ex artt. 112 e ss. c.p.a.
Sotto altro profilo, il Tar osservava che le somme percepite dal lavoratore a titolo risarcitorio dovevano ritenersi soggette a tassazione solo se, ed entro i limiti in cui, fossero volte a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi (cd. lucro cessante), mentre non potevano essere assoggettate a tassazione quelle intese a riparare un pregiudizio di natura diversa (cd. danno emergente). Dunque, il risarcimento del danno nei casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato configurava una posta risarcitoria avente natura di reintegrazione del danno conseguente alla perdita retributiva e, pertanto, essa andava correttamente assoggettata a tassazione, sicché doveva ritenersi esattamente eseguita la sentenza in esame, avendo l'amministrazione applicato le dovute ritenute fiscali.
In particolare, la determinazione dell'ultima retribuzione globale di fatto doveva essere ancorata alla violazione commessa dal datore, da individuarsi nella stipula del contratto a tempo determinato (rectius: nell'apposizione dell'invalida clausola in ordine alla durata), sicché l'ultima retribuzione globale di fatto andava individuata in quella per ultima percepita dal lavoratore in relazione al contratto di lavoro parzialmente illegittimo. Pertanto, nel caso di specie, tale momento doveva essere individuato nell'agosto 2011, atteso che la ricorrente era stata assunta a tempo indeterminato nel settembre 2011. Ciò posto, il Tar rigettava il ricorso, restando a carico dell'amministrazione di verificare se la retribuzione presa in considerazione per la liquidazione, pur se parametrata ad una data diversa da quella da utilizzare come base di calcolo in base al principio di diritto affermato, fosse di pari importo.
La ricorrente ha appellato la sentenza pronunciata dal Tar, censurandone l'erroneità con l'articolazione di tre motivi di impugnazione. La questione
Il Consiglio di Stato accoglie il motivo di appello nella parte in cui esclude che le somme oggetto della condanna giudiziale possano essere sottoposte ad imposizione fiscale, facendosi questione di risarcimento del danno ai sensi dell'art. 36, comma 5, D.Lgs. n. 165/01, liquidato nell'osservanza dei limiti di cui all'art. 32, comma 5, L. n. 183/10, come tale volto a ristorare la perdita di chance di un'occupazione alternativa migliore, estranea ai rapporti di lavoro posti in essere nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione; con conseguente non assoggettabilità ad imposizione ai sensi dell'art. 6, comma 1 D.P.R. n. 917 del 1986.
Sotto altro profilo, il Consiglio di Stato rileva che il motivo di appello risulta fondato anche nella parte in cui denuncia l'erronea individuazione del momento temporale cui fare riferimento per definire la retribuzione globale di fatto da porre a base di calcolo della somma da risarcire in favore della lavoratrice.
Tenuto conto dei soli elementi interni al giudicato da ottemperare, il Consiglio di Stato osserva che emerge che il comando giudiziale posto dal Tribunale con la sentenza da eseguire, imponeva all'amministrazione di corrispondere alla lavoratrice una somma liquidata “in misura pari a 8.5 mensilità dell'ultima retribuzione di fatto con l'aggiunta di interessi e rivalutazione nei limiti di legge dalla data della presente sentenza e sino all'effettivo soddisfo”.
Ne discende che, in applicazione del comando giudiziale ottemperando, non suscettibile di integrazione nella presente sede, non facendo riferimento il Tribunale all'ultima retribuzione globale di fatto percepita anteriormente alla stabilizzazione o alla data di proposizione del ricorso, ma all'ultima retribuzione di fatto percepita dalla lavoratrice ed erogata dall'amministrazione soccombente, in assenza di altre precisazioni volte a limitare la portata del precetto posto dal giudice del lavoro, deve aversi riguardo all'ultima retribuzione percepita alla data del comando giudiziale e, quindi, della pubblicazione del titolo esecutivo.
Dunque, posto che la ricorrente aveva dedotto di essere impiegata alle dipendenze del Ministero al momento della pubblicazione della sentenza ottemperanza, avendo esercitato interrottamente attività lavorativa a partire dall'anno scolastico 2000/2001, dapprima con contratti di lavoro a tempo determinato, successivamente con contratto di lavoro a tempo indeterminato, la lavoratrice aveva correttamente rilevato che la corretta esecuzione del dictum giudiziale impone una liquidazione del risarcimento del danno, parametrando le 8,5 mensilità all'ultima retribuzione di fatto percepita alla data della pubblicazione della sentenza ottemperanda. Le soluzioni giuridiche
Alla luce di quanto esposto, il Consiglio di Stato condanna l'amministrazione all'ottemperanza del titolo giudiziale, con il riconoscimento e la corresponsione di interessi e rivalutazione nei limiti di legge dalla data della sentenza e sino all'effettivo soddisfo sulla somma liquidata in misura pari a 8,5 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita alla data della pubblicazione della sentenza ottemperanda e al lordo delle ritenute fiscali.
In proposito, il Collegio precisa che la stessa sentenza ottemperanda aveva limitato il cumulo di interessi e rivalutazione monetaria, richiedendo che fossero rispettati i “limiti di legge”, osservando come vadano aggiunti gli interessi legali e la rivalutazione monetaria – tra loro non cumulati a norma dell'art. 22, comma 36, legge n. 724/1994 – a decorrere dalla data della sentenza sino all'effettivo soddisfo.
Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, nel riconoscere gli accessori, il Tribunale aveva inteso applicare l'art. 22, comma 36, L. n. 724/94, coerentemente con la giurisprudenza ordinaria, secondo cui l'esclusione dal divieto di cumulo non può trovare applicazione per i dipendenti privati di enti pubblici non economici e neppure per i rapporti di lavoro di natura privatistica alle dipendenze dei Ministeri. Per tali categorie di rapporti di lavoro ricorrono le "ragioni di contenimento della spesa pubblica", che sono alla base della disciplina differenziata, secondo la ratio decidendi prospettata dal Giudice delle leggi con la sentenza n. 459/2000 (Cass., Sez. Lav., sent., n. 13624 del 2.07.2020).
Ciò posto, la questione giuridica sottoposta al Consiglio di Stato consente di riflettere sul regime dell'indennità riconosciuta al lavoratore pubblico in caso di illecita reiterazione di contratti di lavoro a termine.
Sul punto la Corte di Cassazione ha rilevato che “in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al D.Lgs. n. 165/2001, art. 36, comma 5, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di "chance" di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'art. 1223 c.c." (Cass., Sez. Lav., ord., n. 559 del 14.01.2021).
Mette conto osservare che nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso dello strumento del contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito l'illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto a tempo determinato a tempo indeterminato posto dall'art. 36, comma 5, D. Lgs. n. 165/2001, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dell'onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui all'art. 32, comma 5, L. n. 183/2010 (oggi art. 28 L. n. 81/15) e quindi nella misura pari ad un'indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 L. n. 604/1966 (Cass., Sez. Lav., n. 28423 del 14.12.2020; S.U., n. 5072 del 15.03.2016).
Ne deriva che, assumendo l'importo corrisposto al lavoratore, per effetto dell'abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, natura risarcitoria da perdita di chance, come tale estranea ai rapporti di lavoro posti in essere nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione, gli importi riconosciuti dal giudice del lavoro, quale risarcimento del danno ex art. 36, comma 5 D.Lgs. n. 165/2001, non sono assoggettabili a tassazione ex art. 6, comma 1 D.P.R. n. 917/1986 (Cass., Sez. VI - 5, ord., n. 27011 del 23.10.2019). Osservazioni
In conclusione, sembra interessante osservare la differente portata che esplica l'ottemperanza, da un lato, a fronte di un giudicato amministrativo, dall'altro, rispetto ad un titolo giudiziale emesso dall'autorità giudiziaria ordinaria.
Invero, mentre l'ottemperanza del giudicato amministrativo si caratterizza per il suo contenuto composito (Cons. Stato, Ad. Plen., n. 2 del 15.01.2013), permettendo al giudice procedente, avente giurisdizione altresì sul rapporto sostanziale, di completare il comando ottemperando, mediante l'esercizio di un potere avente anche natura cognitoria; diversamente, a fronte di un titolo emesso da un giudice appartenente ad altro plesso giurisdizionale, il giudice amministrativo, adito in sede di ottemperanza, non potrebbe esercitare analoghi poteri di integrazione del giudicato, altrimenti incorrendo nel vizio di eccesso di potere giurisdizionale, stante l'esorbitanza dai limiti esterni che segnano l'ambito della giurisdizione amministrativa.
Al riguardo, sembra opportuno evidenziare che in materia deve trovare applicazione il principio di diritto per cui “il potere interpretativo del giudicato da eseguire, che è insito nella struttura stessa del giudizio di ottemperanza in quanto giudizio di esecuzione, allorché attenga ad un giudicato formatosi davanti ad un giudice diverso da quello amministrativo, non può che esercitarsi sulla base di elementi interni al giudicato da ottemperare e non su elementi esterni, la cui valutazione rientra in ogni caso nella giurisdizione propria del giudice che ha emesso la sentenza” (S.U., n. 7825 del 14.04.2020 e n. 25625 del 14.12.2016).
M. Biasi, La stabilizzazione “indiretta” ed il risarcimento del “danno comunitario” da illecita reiterazione di rapporti di lavoro a termine, in Rivista Il Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni n. 4 del 2018, Giappichelli
F. Caringella, C. Silvestro, F. Vallacqua, Codice del pubblico impiego, Dike Giuridica, 2011
L. Menghini, Il contratto a tempo determinato, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, a cura di F. Carinci e L. Zoppoli, Utet, 2004 |