Indennità risarcitoria da licenziamento illegittimo ex art. 18, comma 4, st. lav. e “aliunde perceptum” (e “percipiendum”)

Luigi Di Paola
21 Marzo 2022

In base all'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, la determinazione dell'indennità risarcitoria deve avvenire attraverso il calcolo...
Massima

In base all'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, la determinazione dell'indennità risarcitoria deve avvenire attraverso il calcolo dell'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, a titolo di “aliunde perceptum” o “percipiendum”, e, comunque, entro la misura massima corrispondente a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, senza che possa attribuirsi rilievo alla collocazione temporale della o delle attività lavorative svolte dal dipendente licenziato nel corso del periodo di estromissione; se il risultato di questo calcolo è superiore o uguale all'importo corrispondente a dodici mensilità di retribuzione, l'indennità va riconosciuta in misura pari a tale tetto massimo”.

Il caso

A seguito di azione di impugnativa del licenziamento proposta da un lavoratore, il giudice di primo grado condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore medesimo nel posto di lavoro e al pagamento, in favore di quest'ultimo, di un'indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, detratto l'“aliunde perceptum” (ossia, quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative) e l'“aliunde percipiendum” (ovvero, quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione).

In riforma di tale statuizione, il giudice di appello dichiara che nulla andava detratto, a titolo di “aliunde perceptum” e “percipiendum”, dalla indennità risarcitoria, sul duplice rilievo che: a) non vi era stata una specifica deduzione, ad opera del datore, concernente la sussistenza dei presupposti di fatto per la detraibilità; b) l'effettuata offerta di un impiego a termine a favore del lavoratore risultava, nel caso, inidonea ad intaccare il limite massimo di dodici mensilità posto dalla legge all'indennità risarcitoria, attesa la ridotta durata dell'impiego in questione a fronte del periodo di estromissione dal lavoro per effetto del licenziamento.

La S.C. conferma la decisione del giudice del gravame, con una motivazione di cui si illustreranno nel prosieguo i passaggi centrali.

La questione

La questione in esame è la seguente: nell'ambito della tutela reintegratoria attenuata di cui all'art. 18, comma 4, st.lav., ove è previsto che il danno risarcibile può essere riconosciuto nella misura massima di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, in che modo opera - sempre che ne siano ovviamente provati i fatti costitutivi di supporto - la detrazione dell'“aliunde perceptum” o “percipiendum”?

Le soluzioni giuridiche

Per intendere appieno la soluzione indicata dalla S.C. occorre partire dall'idea che la detrazione ha riguardo, da un lato, all'entità del danno (pari alle somme perdute) dal lavoratore sofferto a causa dell'illegittimità del licenziamento e, dall'altro, alla misura complessiva di quanto percepito (o percepibile) “aliunde” dal lavoratore medesimo, non rilevando i periodi temporali durante i quali si siano verificati i fatti costitutivi per l'operatività della detrazione in questione; così, ad esempio, non assume significatività il fatto che, in relazione ad un periodo di estromissione durato 24 mesi, il lavoratore abbia lavorato alle dipendenze di terzi tra il quinto e il settimo mese dall'intimazione del licenziamento, oppure tra il quindicesimo e il sedicesimo mese.

Al riguardo, la S.C. afferma che <<nessuna rilevanza può attribuirsi alla collocazione temporale della o delle attività lavorative svolte dal dipendente licenziato nel periodo di estromissione, trattandosi di elemento in nessun modo desumibile dalla disposizione in esame e non coerente con il principio della “compensatio lucri cum damno”, di cui l'“aliunde perceptum” e “percipiendum” costituiscono applicazione, che presuppone una valutazione complessiva sia del danno e sia dell'incremento patrimoniale, causalmente ricollegabili al medesimo fatto illecito>>; in sostanza, <<nel sistema delineato dall'art. 18, comma 4 cit., il computo dell'indennità risarcitoria deve essere eseguito in relazione all'importo delle retribuzioni perse e di quelle “aliunde” percepite o percepibili, e non in base al dato temporale riferito ai periodi di inoccupazione oppure di occupazione lavorativa>>. Pertanto <<non può (…) essere condivisa la tesi su cui insistono le società datrici di lavoro, secondo cui l'“aliunde perceptum” o “percipiendum” debba essere detratto dal tetto massimo delle dodici mensilità, e neppure la diversa opzione, sostenuta dai lavoratori, per cui la detrazione dell'“aliunde perceptum” o “percipiendum” è preclusa qualora l'attività svolta “aliunde” non si sovrapponga al periodo di inoccupazione risarcito>>.

In concreto, secondo la S.C., <<le somme “aliunde” percepite o percepibili dal lavoratore nel periodo di estromissione vanno (…) sottratte, con un semplice calcolo aritmetico, dall'ammontare complessivo del danno subito per effetto del recesso e pari, secondo il disposto normativo, alle retribuzioni spettanti per l'intero periodo dal licenziamento alla reintegra; se il risultato di questo calcolo è superiore o uguale all'importo corrispondente a dodici mensilità di retribuzione, l'indennità va riconosciuta in misura pari a tale tetto massimo>>.

Sicché, ove ad esempio il lavoratore avesse ricavato dall'attività effettuata “aliunde” l'importo di € 10.000, la detrazione, qualora la retribuzione globale di fatto ammontasse ad € 2.000 ed il periodo di estromissione fosse durato 24 mesi, opererebbe da un punto di vista meramente figurativo, poiché il danno complessivo è pari ad € 48.000, cui va sottratto l'importo di € 10.000, residuando così la somma di € 38.000 che è superiore a quella di € 24.000 riferita alle 12 mensilità risarcibili.

Rimanendo all'ipotesi illustrata, la detrazione avrebbe effetti concreti solo ove il lavoratore, ad esempio, avesse percepito “aliunde” l'importo di € 30.000, che andrebbe ad intaccare la misura dell'indennità risarcibile per legge pari ad € 24.000; nello specifico, la detrazione in questione dovrebbe essere limitata ad un importo di € 6.000, cui corrispondono in concreto 3 mensilità di retribuzione, con la conseguenza che al lavoratore finirebbe per spettare la somma di € 18.000 (risultante dalla differenza tra € 48.000 e 30.000).

In definitiva, in un sistema peculiare in cui il legislatore ha precluso la risarcibilità di una parte del danno subito dal lavoratore, le somme percepite (o percepibili) “aliunde” vanno ad elidere proprio la parte di danno in questione, con una sorta di effetto compensativo che, come subito vedremo, presenta indubbi profili di ragionevolezza.

Osservazioni

La (apparente) farraginosità della questione dipende, come sopra anticipato, dall'opzione del legislatore di impedire, nell'area della tutela reintegratoria attenuata, la risarcibilità del danno che si protragga oltre un certo lasso temporale, onde non legittimare poste risarcitorie ritenute evidentemente eccessive, stante l'assenza di prestazione lavorativa (benché cagionata dalla illegittima condotta datoriale).

Nella vigenza della precedente versione dell'art. 18 st.lav., il quale, per quanto qui interessa, non poneva un limite massimo al risarcimento dovuto nel periodo intercorrente tra licenziamento e reintegrazione (o altro evento che rendesse impossibile quest'ultima), la predetta questione non era percepita, nelle sue implicazioni, sino in fondo, giacché la completa risarcibilità della perdita patrimoniale subita dal lavoratore illegittimamente licenziato non determinava un problema di imputazione dei vantaggi economici derivanti dall'attività lavorativa svolta per terzi, ai fini della detrazione, ad una determinata “quota” di danno.

In quello scenario, l'intero pregiudizio subito dal lavoratore era assoggettato, quanto alla sua risarcibilità, ad un unitario trattamento, determinato per lo più in conformità agli ordinari principi civilistici.

Attualmente, invece, la detrazione finisce per incidere, in primo luogo, sulla quota di danno “non risarcibile”, agendo, quindi, in modo anomalo, poiché la “compensatio” non assolve alla sua ordinaria funzione di evitare al debitore di corrispondere una posta risarcitoria per il danno originario subito dal creditore, che sarebbe comunque qui irrisarcibile, ma finisce per sterilizzare gli effetti negativi che la previsione normativa determina sulla posizione del lavoratore.

Con il che può dirsi realizzato uno dei fini ipoteticamente perseguiti dal legislatore, ovvero quello di sollecitare il lavoratore medesimo ad attivarsi per trovare comunque una nuova occupazione (pur provvisoria) a seguito del licenziamento, senza adagiarsi nell'aspettativa di una pronuncia a lui favorevole che, peraltro, potrebbe tardare ad arrivare; ed infatti, quanto a quest'ultimo profilo, gli effetti della scelta normativa investono, ma in una apertura di prospettiva del tutto estranea ai rapporti tra le parti, anche la “tempistica” del processo, di cui il legislatore medesimo auspica un contenimento - entro i dodici mesi dall'intimazione del licenziamento - necessario ai fini della salvaguardia del principio di riparazione integrale del danno.

Potrebbe pertanto affermarsi che, nel nostro caso, la detrazione dell'“aliunde perceptum” o “percipiendum” diventa lo strumento per ricondurre, in qualche modo, a normalità o, quanto meno, ad equità il sistema.

In tal quadro, come sopra anticipato, sarebbe pertanto incongruo che quanto “aliunde” percepito dal lavoratore andasse ad intaccare in primo luogo le dodici mensilità risarcibili, giacché, in tal caso, la riparazione del danno rimarrebbe, in effetti, una formula vuota.

Del resto, la stessa piana lettura dell'art. 18, comma 4, st.lav., porta - come esattamente rilevato nella sentenza che si commenta - ad escludere tale eventualità.

Ed infatti il citato articolo dispone, in primo luogo, che la detrazione di quanto il lavoratore abbia percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di attività lavorative, nonché di quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione, va compiuta sull'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto “dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione”.

E nella norma non vi è un criterio di imputazione della detrazione a quote di danno; mentre la disposizione che il risarcimento non potrà superare le 12 mensilità è posta, significativamente, a chiusura del precetto normativo, a conferma che solo una volta compiuta l'operazione di detrazione viene in rilievo la posta “risarcibile”, che quindi può essere interessata dalla predetta operazione solo alla fine, sempre che ne ricorrano i presupposti.

In realtà, la soluzione oggi accolta dalla S.C. non sembrerebbe coincidere, almeno in astratto, con quella fornita da Cass. 13 dicembre 2018, n. 32330, ove è stata confermata la sentenza di merito che aveva detratto dalle dodici mensilità della retribuzione globale di fatto le quattro mensilità relative al periodo di occupazione presso altro datore di lavoro. Tuttavia, in quel caso, il lavoratore aveva iniziato a lavorare per terzi entro i primi dodici mesi decorrenti dal licenziamento e non pare che la situazione sia mutata al momento di emanazione della pronuncia; sicché è plausibile ritenere che anche applicando la soluzione oggi offerta dalla S.C. l'esito sarebbe stato lo stesso (in quanto il risultato della differenza tra danno totale e “aliunde perceptum” sarebbe stato comunque inferiore alle 12 mensilità).

La pronuncia della S.C., ovviamente, non può non rivitalizzare l'interesse dell'interprete sulla nuova versione dell'art. 18 st.lav., che, in tema di indennità risarcitoria associata alla reintegra, deviando dal sistema del diritto civile, correla il trattamento risarcitorio non tanto e solo al pregiudizio subito dal danneggiato, ma anche alla gravità della condotta serbata dal datore-danneggiante (il quale è tenuto a corrispondere l'integrale risarcimento solo nel caso di tutela reintegratoria piena di cui all'art. 18, comma 1, st.lav., concernente fattispecie di licenziamento ritenute particolarmente gravi).

Ma il tema più suggestivo rimane sempre quello della plausibilità della qualificazione normativa della posta patrimoniale in termini di risarcimento, che non solo legittima, in tale ambito, la previsione dell'operatività dell'“aliunde perceptum” o “percipiendum”, ma allontana il rischio di questioni di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 36 Cost.; permanendo, però, qui sempre il dubbio, in un'ottica sostanzialistica, che la posta risarcitoria da licenziamento illegittimo nell'ambito della tutela reale - nel momento in cui essa è ammessa dal legislatore, quale risultato di una valutazione evidentemente favorevole alla persistenza del rapporto - possa assolvere proprio alle funzioni di cui al parametro costituzionale.

Resta sullo sfondo la persistente disarmonia di sistema, che continua a vedere, nell'area della ricostituzione del rapporto, soluzioni diversificate (si pensi all'indennità omnicomprensiva riconoscibile in caso di accertata illegittimità di contratti a tempo determinato, sulla quale l'“aliunde perceptum” non può incidere).