Segnali di superamento di una prospettiva carcerocentrica

Claudia Castelli
Claudia Castelli
25 Marzo 2022

Il presente contributo si occupa, anzitutto, di inquadrare l'operazione svolta dal collegio giudicante, allo scopo di comprendere se la stessa sia riconducibile a un fenomeno di interpretazione estensiva ovvero di interpretazione analogica in bonam partem dell'art. 51-ter ord. penit. Conseguentemente, si interroga sul significato assunto, a livello ordinamentale, da tale operazione ermeneutica e sulle sue possibili ricadute.
Massima

In caso di esito negativo dell'affidamento in prova al servizio sociale già concluso può applicarsi, per la parte di pena non dichiarata estinta, una misura alternativa diversa e più grave rispetto a quella il cui esito si sia rivelato negativo. A ciò non osta l'assenza di una disposizione normativa esplicita, potendosi applicare analogicamente il disposto di cui all'art. 51-ter ord. penit. (l. 26 luglio 1975, n. 354).

Il caso

Tizio, condannato a una pena detentiva di dieci mesi, viene ammesso alla misura dell'affidamento in prova al servizio sociale ai sensi dell'art. 47 ord. penit. Al termine del periodo di affidamento, il Tribunale di sorveglianza territorialmente competente dichiara la pena solo parzialmente estinta, in considerazione della mancata piena osservanza delle prescrizioni impartite al condannato in sede di concessione della misura. Emerge, infatti, dalla relazione redatta dall'UEPE (Ufficio per l'esecuzione penale esterna) la costante positività di Tizio all'uso di sostanze alcoliche e stupefacenti, nonostante la partecipazione ai programmi terapeutici predisposti dal Ser.D. (servizio per le dipendenze), secondo quanto prescritto nell'ordinanza di concessione della misura. Tizio viene altresì fermato, al di fuori degli orari consentiti, alla guida della sua autovettura, in violazione del divieto di guida dei veicoli a motore.

In ragione delle suddette violazioni il Tribunale di sorveglianza dichiara estinta la pena detentiva limitatamente al periodo in cui Tizio ha svolto attività di volontariato, rideterminando così la pena detentiva da espiare nella misura di quattro mesi.

Tizio, rappresentato dal suo difensore, presenta opposizione avverso tale provvedimento, ritenendo la mancata piena adesione al programma trattamentale riconducibile a un duplice ordine di fattori: la sottovalutazione del grado di dipendenza di Tizio da sostanze alcoliche e stupefacenti; la mancata considerazione del suo disturbo psichiatrico. Questi elementi, emersi solo a seguito dei contatti intercorsi con gli operatori del servizio sociale – dunque in un momento successivo alla concessione della misura –, avrebbero avuto un'influenza causale sul mancato rispetto del corredo prescrizionale imposto al condannato in sede di concessione della misura alternativa, rivelatasi a posteriori inadeguata rispetto alla sua situazione.

È per tali ragioni che il difensore di Tizio chiede – oltre a una preliminare perizia psichiatrica finalizzata ad accertare l'interferenza del disturbo psichiatrico dell'interessato sulla mancata adesione al trattamento – la sostituzione della misura in origine concessa con l'affidamento c.d. terapeutico ai sensi dell'art. 94 d.P.R. n. 309/1990, proponendo un'applicazione analogica dell'art. 51-ter ord. penit. Sarebbe, infatti, irrimediabilmente violato il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.) nell'ipotesi in cui il Tribunale di sorveglianza, ben potendo sostituire la misura originariamente concessa con una misura più restrittiva in costanza di svolgimento della stessa, non potesse assumere una decisione dello stesso tipo in un momento successivo, cioè a seguito della declaratoria di estinzione parziale della pena.

Il Tribunale di sorveglianza, muovendo dalla considerazione dei disturbi di personalità di Tizio e della loro probabile interrelazione con la mancata adesione al programma trattamentale, ritiene di dovere aderire a un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 51-ter ord. penit.: considerato che nel caso di specie l'ingresso in carcere non sarebbe conforme alle esigenze di risocializzazione dell'interessato anche in ragione dei suoi problemi sanitari, il collegio giudicante decide di applicare «fin da subito per la parte di pena non dichiarata estinta – sebbene non previsto da alcuna disposizione normativa – una misura alternativa diversa e più grave rispetto a quella il cui esito si sia rivelato negativo», analogamente a quanto avrebbe fatto se tale valutazione fosse stata fatta in costanza di espiazione della pena nell'ambito di un giudizio di revoca ex art. 51-ter ord. penit.

La questione

La decisione assunta nell'ordinanza in commento pone un duplice ordine di questioni. Si tratta, anzitutto, di inquadrare l'operazione svolta dal collegio giudicante, allo scopo di comprendere se la stessa sia riconducibile a un fenomeno di interpretazione estensiva ovvero di interpretazione analogica in bonam partem dell'art. 51-ter ord. penit. Conseguentemente, occorre interrogarsi sul significato assunto, a livello ordinamentale, da tale operazione ermeneutica e sulle sue possibili ricadute.

Le soluzioni giuridiche

L'art. 51-ter ord. penit. affida al Tribunale di sorveglianza nella cui circoscrizione è in esecuzione una misura alternativa alla detenzione il compito di decidere in ordine alla prosecuzione, sostituzione o revoca della stessa, nell'ipotesi in cui vengano posti in essere dal soggetto ammesso a beneficiare della misura comportamenti suscettibili di determinarne la revoca. La formulazione letterale della disposizione normativa ne circoscrive esplicitamente la latitudine applicativa al frangente temporale in cui la misura è in corso di esecuzione.

Quid iuris nel caso in cui, verificandosi il medesimo presupposto, sia già terminato il periodo di esecuzione della misura alternativa e il collegio giudicante non abbia ritenuto di poter dichiarare validamente espiata, e dunque estinta, la pena?

Con maggiore impegno esplicativo, si tratta di comprendere se il potere attribuito al Tribunale di sorveglianza di sostituire la misura alternativa già concessa con altra più grave a fronte di comportamenti che possano determinare la revoca della misura in origine concessa sia esercitabile solo in costanza di svolgimento della misura o anche nel successivo momento in cui il Tribunale si pronuncia sulla mancata estinzione – totale o parziale – della pena per l'esito negativo del periodo di prova (art. 47 ord. penit.).

In assenza di una disposizione normativa volta a disciplinare esplicitamente la fattispecie, gli scenari astrattamente prospettabili sarebbero due: la traduzione all'interno di un istituto penitenziario ovvero la concessione di altra misura alternativa, maggiormente restrittiva rispetto a quella già concessa.

L'argomento posto a sostegno della prima di tali opzioni trae fondamento da ragioni di carattere sistematico e letterale. L'art. 47 ord. penit., che contiene la disciplina dell'affidamento in prova al servizio sociale, è inserito nel capo dedicato alle “misure alternative alla detenzione”. Qualora l'alternativa alla detenzione si sia in concreto rivelata inidonea ad avviare un percorso di risocializzazione del condannato, si renderebbe necessaria un'espiazione intramuraria della pena: l'esito negativo del periodo di affidamento sarebbe sintomatico della mancata rivisitazione critica delle condotte devianti e della perdurante pericolosità sociale e renderebbe, dunque, necessario l'ingresso in istituto del soggetto.

Una tale impostazione non è, tuttavia, esente da critiche.

In primo luogo, inferire dall'esito negativo del periodo di prova una presunzione assoluta di pericolosità sociale, tale da imporre l'ingresso in carcere senza considerazione alcuna delle specificità del caso concreto, costituirebbe un automatismo sanzionatorio contrastante con la finalità rieducativa della pena (art. 27, comma 3, Cost.).

Peraltro, una tale impostazione sarebbe foriera di una irragionevole disparità di trattamento, con conseguente violazione dell'art. 3 Cost.: le conseguenze di un medesimo comportamento muterebbero drasticamente in base al frangente temporale in cui il collegio giudicante è chiamato a pronunciarsi. Se, infatti, la misura alternativa è ancora in corso di svolgimento, il giudice potrebbe sostituirla con altra più grave, secondo quanto previsto dall'art. 51-ter ord. penit.; se, invece, il periodo di affidamento si è concluso con esito negativo, il giudice sarebbe costretto a disporre la traduzione del soggetto in carcere, senza alcuna possibilità di vagliare la rispondenza della pena intramuraria alla situazione concreta. A voler intendere il silenzio del legislatore sul punto come una lacuna intenzionale, ci si troverebbe, dunque, di fronte a una norma incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza.

La questione va allora affrontata sul piano ermeneutico, fornendo una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 51-ter ord. penit. L'analisi del dato letterale lascia propendere per una collocazione dell'operazione ermeneutica nell'ambito dell'analogia in bonam partem. Considerato che l'art. 51-ter ord. penit. fa espresso riferimento alla “persona sottoposta alla misura alternativa”, non può ritenersi che nel perimetro applicativo della norma rientri direttamente anche la situazione del soggetto che ha concluso il periodo di affidamento con esito negativo e che, dunque, non è più sottoposto alla misura. Tale constatazione, che pare in sé tautologica, consente tuttavia di collocare la presente questione sul piano dell'interpretazione analogica (e non, invece, nell'ambito dell'interpretazione estensiva).

Segnatamente, trattandosi di un'ipotesi di analogia in bonam partem, essa non ricade nel divieto di cui all'art. 14 disp. prel. c.c, relativo, secondo l'opinione dominante, esclusivamente alle norme penali che producono effetti sfavorevoli per il reo. Né possono ritenersi operanti i limiti generali in materia di analogia: l'art. 51-ter ord. penit. non è, anzitutto, norma di carattere eccezionale; in secondo luogo, la lacuna non può considerarsi intenzionale, pena l'incostituzionalità della disposizione per violazione del principio di eguaglianza.

Sussistendo i presupposti per ricorrere al procedimento analogico – eadem ratio di tutela e somiglianza delle due fattispecie –, non v'è dunque ragione di non estendere il potere del giudice di sostituire la misura alternativa in origine concessa con altra meno grave anche al caso in cui il soggetto interessato non sia più attualmente sottoposto alla misura dell'affidamento in prova, conclusasi con esito totalmente o parzialmente negativo.

Osservazioni

La sentenza in commento si inscrive nel novero delle pronunce che, servendosi degli strumenti di interpretazione offerti dall'ordinamento, assumono come fondamento ideologico il superamento di una concezione carcerocentrica dell'esecuzione penale. Imponendo l'individualizzazione del trattamento penitenziario, l'ideale rieducativo scolpito nell'art. 27, comma 3, Cost. conduce i giudici – di sorveglianza, in particolare – a svolgere un ruolo di “supplenza ermeneutica” in tutte le ipotesi in cui un'interpretazione restrittiva delle disposizioni normative condurrebbe a esiti irragionevoli, in quanto non aderenti alla realtà del caso concreto.

Trattandosi sovente di decisioni dalla portata innovativa, poiché suscettibili di produrre rilevanti ricadute di sistema, pare lecito interrogarsi sull'opportunità di affidare il giudizio al sindacato accentrato della Corte costituzionale piuttosto che al sindacato diffuso dei giudici comuni, anche per scongiurare il rischio di irragionevoli disparità di trattamento sul territorio nazionale.

In ogni caso, il superamento dell'equazione pena-carcere, ivi sotteso all'operazione ermeneutica compiuta dal collegio giudicante, si pone in piena sintonia con lo spirito che anima la stagione di riforme inaugurata dalla ministra Marta Cartabia, tesa a valorizzare le alternative al carcere già nella fase di cognizione, in sede di irrogazione delle pene principali. La nuova rotta delle politiche legislative in materia penitenziaria, fondata sulla funzionalizzazione della sanzione penale all'effettivo reinserimento del reo nella società, mira, infatti, anch'essa a sradicare la convinzione che la reclusione intramuraria sia l'unica risposta effettiva al reato.