Criticità del divieto di dichiarare il fallimento nel corso della composizione negoziata

Filippo Lamanna
29 Marzo 2022

L'Autore si sofferma sulle criticità che possono evidenziarsi nel contesto di una norma come l'art. 6, comma 4, D.L. 118/2021, che inibisce la declaratoria di fallimento (o di insolvenza) dell'imprenditore dal giorno della pubblicazione dell'istanza con cui viene chiesta l'applicazione delle misure protettive e fino alla conclusione delle trattative o all'archiviazione dell'istanza di composizione negoziata.

Il modo – notoriamente alquanto approssimativo - con cui sono state scritte le norme in materia di composizione negoziata è destinato a creare prossimamente seri problemi applicativi sotto diversi profili.

Criticità si nascondono, ad esempio, anche nel contesto di una norma apparentemente semplice come l'art. 6, comma 4, D.L. n. 118/2021, che inibisce la declaratoria di fallimento (o di insolvenza) dell'imprenditore dal giorno della pubblicazione dell'istanza con cui egli chiede l'applicazione delle misure protettive e fino alla conclusione delle trattative o all'archiviazione dell'istanza di composizione negoziata.

La lacunosità del dettato normativo, infatti, può dar luogo ad insidiose questioni.

Secondo l'interpretazione finora più accreditata, l'inibitoria riguarda solo la dichiarazione di fallimento, e non la possibilità di istruire i procedimenti prefallimentari già pendenti o successivamente promossi, ma è un effetto che si verifica (“a cascata”) solo quando venga presentata dall'imprenditore, appunto, e venga altresì tempestivamente pubblicata, l'istanza di applicazione delle misure protettive.

Tali misure hanno immediata attuazione a partire dalla pubblicazione dell'istanza e da quel momento scatta anche automaticamente l'inibitoria alla dichiarazione di fallimento, che, in tal modo, sembra essa stessa avere funzione di (aggiuntiva) misura protettiva.

Stante l'automatismo con cui scatta l'inibitoria alla declaratoria di fallimento a seguito della pubblicazione dell'istanza di applicazione delle misure protettive, sembra esservi un rapporto di necessaria connessione tra l'operatività delle misure protettive e l'inibitoria. Da questo punto di vista si tende quanto meno ad escludere che, in difetto della presentazione e pubblicazione dell'istanza di applicazione delle misure protettive, l'inibitoria possa applicarsi.

Ma – ci si chiede in aggiunta – il rapporto di connessione/implicazione tra le misure protettive e l'inibitoria alla dichiarazione di fallimento che si realizza al momento in cui viene pubblicata l'istanza di applicazione delle prime permane anche successivamente?

Qui, in effetti, nascono i primi problemi, poiché l'applicazione delle misure protettive scatta sì immediatamente per effetto della pubblicazione dell'istanza, ma è soggetta ad una successiva conferma da parte del tribunale.

Infatti, come prevede l'art. 7, comma 1, D.L. n. 118/2021, quando l'imprenditore formula l'istanza di applicazione delle misure protettive deve chiederne la conferma o la modifica con ricorso presentato al tribunale competente lo stesso giorno della pubblicazione dell'istanza e dell'accettazione dell'esperto.

Se non provvede a tale adempimento o vi provvede in ritardo, le misure diventano ipso facto inefficaci.

Inoltre, entro trenta giorni dalla pubblicazione dell'istanza di applicazione delle misure protettive, l'imprenditore ha l'onere di chiedere la pubblicazione nel registro delle imprese del numero di ruolo generale del procedimento di conferma delle misure instaurato innanzi al tribunale. Se il termine decorre inutilmente, l'iscrizione dell'istanza viene cancellata dal registro delle imprese.

Le misure protettive possono, di conseguenza, diventare inefficaci sia in caso di mancata o tardiva presentazione del ricorso al tribunale, sia in caso di mancata richiesta entro 30 giorni della pubblicazione del numero di ruolo del procedimento di conferma.

Sennonché nè l'art. 6, né l'art. 7 chiariscono se, in tali ipotesi, l'inibitoria alla dichiarazione di fallimento, che nel frattempo ha iniziato ad operare, segua le sorti delle altre misure protettive.

Ci si chiede, in particolare, se la dichiarazione di fallimento continui o meno ad essere impedita nonostante il venir meno delle (altre) misure protettive.

La questione, in effetti, è seria, poiché, come abbiamo visto sopra, l'art. 6, comma 4, prevede l'operare dell'inibitoria fino alla conclusione delle trattative o all'archiviazione dell'istanza di composizione negoziata, con implicita esclusione di altre ipotesi, e quindi, in apparenza, indipendentemente dalla sorte delle (altre) misure protettive, e non solo – come appar chiaro – a prescindere dalla sorte dell'inefficacia sopravvenuta causata dalla mancata proposizione e pubblicazione del ricorso o del numero di iscrizione a ruolo, poiché anche quando, presentato e pubblicato il ricorso e il numero di iscrizione a ruolo, il giudice non confermi le misure protettive (o le confermi solo parzialmente o ne fissi la durata per un tempo breve), non è precisato dalla suddetta norma se l'inibitoria segua le sorti di tali decisioni (e anzi, ancor più significativamente, non è previsto che il giudice, nel decidere sulla conferma delle misure protettive, possa pronunciarsi anche – o in modo autonomo - sulla sorte dell'inibitoria alla dichiarazione di fallimento, e ciò appunto perché l'art. 6 prevede specificamente la durata dell'inibitoria fino al termine delle trattative o al momento dell'archiviazione dell'istanza di composizione negoziata, il che preclude al giudice anche la possibilità di fissarne una diversa durata, in coincidenza – come sarebbe stato giusto – con la durata delle altre misure protettive).

Se però prendesse piede l'interpretazione restrittiva e letterale della norma, ne seguirebbe anche in tal caso la possibilità di porre in atto una delle tante forme di abuso cui può dare luogo l'accesso alla composizione negoziata, poiché le imprese interessate solo a bloccare la dichiarazione di fallimento potrebbero limitarsi semplicemente a presentare l'istanza di applicazione delle misure protettive, senza curarsi di chiederne contestualmente la conferma con ricorso al tribunale (e ovviamente non avrebbe senso, e andrebbe comunque dichiarato de plano inammissibile se fosse proposto, un ricorso con cui il debitore chiedesse semplicemente la conferma…dell'inibitoria alla dichiarazione di fallimento, anziché delle altre misure protettive).

Rischio certamente paradossale, questo, visto che, mentre potrebbe restare inibita la sentenza di fallimento, invece i creditori potrebbero continuare indisturbati ad aggredire - e per di più al di fuori della parità di trattamento - il patrimonio del debitore proseguendo o proponendo azioni esecutive.

Il puntello logico per un'alternativa interpretazione anti-abusiva può forse rinvenirsi nel Codice della crisi (sempre che entri finalmente in vigore ed in concreta applicazione), alla luce della versione di cui alla bozza correttiva licenziata dalla Commissione Pagni e approvata dal Consiglio dei ministri lo scorso 17 marzo.

Infatti, allo scopo di adeguare il Codice della crisi alla Direttiva Insolvency n. 1023/2019 (la quale all'art. 7, comma 2, dispone che “La sospensione delle azioni esecutive individuali conformemente all'art. 6 sospende, per la durata della sospensione, l'apertura, su richiesta di uno o più creditori, di una procedura di insolvenza che potrebbe concludersi con la liquidazione delle attività del debitore”, facendo in tal modo chiaramente dipendere la sospensione della possibilità di aprire una procedura di insolvenza dalla sospensione – e per la relativa durata - delle azioni esecutive individuali), l'art. 18, comma 4, della suddetta bozza inibisce sì – come fa l'art. 6, comma 4, D.L. n. 118/2021 -, l'apertura della liquidazione giudiziale (che – forse è superfluo ricordarlo – è la procedura che andrà a sostituire il fallimento “classico”) dal giorno della pubblicazione dell'istanza di applicazione delle misure protettive e fino alla conclusione delle trattative o all'archiviazione dell'istanza di composizione negoziata, ma aggiungendo l'inciso limitativo “salvo che il tribunale disponga la revoca delle misure protettive”.

Vero è che tale inciso lascia intendere che l'inibitoria può venir meno (soltanto) quando il tribunale disponga la revoca delle misure protettive, lasciando scoperte le altre ipotesi di scollegamento dell'una con le altre (come i casi, visti sopra, di omessa o tardiva presentazione e pubblicazione del ricorso o del numero di iscrizione a ruolo, riprodotti a loro volta tali e quali nell'art. 19 della bozza correttiva del Codice), ma potrebbe appunto ritenersi, con interpretazione logico-estensiva, che la medesima soluzione della caducazione dell'inibitoria debba e possa valere, per coerenza sistematica, anche per ogni altro caso in cui venga meno l'effetto protettivo delle misure.

In alternativa, non resterebbe che auspicare una rapida correzione migliorativa della norma in questione, con esplicita previsione del collegamento biunivoco della inibitoria con le misure protettive sia nella fase genetica, che in quella funzionale, con riferimento ad ogni altra ipotesi in cui comunque non avrebbe motivo di perdurare l'inibitoria quando fossero venute meno le misure protettive.

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