Avvocato diffamato su Facebook e risarcimento del danno

Redazione Scientifica
30 Marzo 2022

Per integrare il reato di diffamazione aggravata a mezzo Facebook, non occorre che nel post sia indicato il nominativo del destinatario delle offese, essendo sufficiente che vi siano riferimenti specifici tali da consentire ad amici e conoscenti di capire a chi sono rivolti gli insulti.

Con la sentenza in esame, la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla responsabilità degli imputati ex art. 595, comma 3, c.p., per aver pubblicato sul proprio profilo Facebook post contenenti frasi ingiuriose nei confronti di un avvocato.

In particolare, gli imputati, nel ricorrere in Cassazione, rilevavano «l'erronea applicazione della legge penale, in ordine alla individualità del soggetto offeso quale elemento della fattispecie di cui all'art. 595, comma 3, c.p.».

A riguardo, la Corte di Cassazione ha chiarito che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma 3, c.p., sotto il profilo dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità" diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone (Cass. pen., n. 13979/2021). Inoltre, essendo il reato di diffamazione configurabile in presenza di un'offesa alla reputazione di una persona determinata, esso può ritenersi sussistente nel caso in cui vengano pronunciate o scritte espressioni offensive riferite a soggetti individuati o individuabili (Cass. pen., n. 3809/2017).

Pertanto, non osta all'integrazione del reato di diffamazione l'assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, qualora lo stesso sia individuabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell'offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali (Cass. pen., n. 2598/2021).

Principio che, rapportato al caso di specie, fa concludere per la condotta di diffamazione aggravata tenuta dagli imputati, essendo state rivolte alla persona offesa, affetta da nanismo, frasi denigratorie riferite a tale caratteristica fisica, le quali, unitamente alla sua professione, facevano ben comprendere a chi fossero destinate, quantomeno da parte di coloro che, come amici e conoscenti, fossero in grado di riconoscerla.

Per questi motivi, la Corte di Cassazione condanna i ricorrenti al risarcimento del danno a favore della persona offesa.

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