Qualifica di amministratore di società di capitali e lavoratore subordinato: compatibilità ai fini della deducibilità dei compensi percepiti
04 Aprile 2022
Massima
“Sussiste l'assoluta incompatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa, in quanto il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell'ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni che è necessaria perché sia riscontrabile l'essenziale ed indefettibile elemento della subordinazione, con conseguente indeducibilità dal reddito della società del relativo costo da lavoro dipendente.
La compatibilità della qualità di socio amministratore, membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, con quella di lavoratore dipendente della stessa società deve essere invece accertata in concreto mediante la sussistenza o meno del vincolo di subordinazione gerarchica, del potere direttivo e di quello disciplinare e, in particolare, lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita". Il caso
L'Agenzia delle Entrate contestava alla società contribuente, ai fini Ires, una indebita deduzione di costi non inerenti, recuperando a tassazione le spese sostenute a titolo di lavoro subordinato nei confronti dei due soci nonché amministratori, in assenza delle caratteristiche proprie di tale tipologia di rapporto. In particolare, con riferimento al socio ed amministratore componente del consiglio di amministrazione della società accertata, questi godeva di autonomia decisionale e, nello svolgimento delle sue mansioni, non rispondeva del suo operato ad alcun superiore gerarchico.
Quanto al presidente del consiglio di amministrazione, essendo munito della rappresentanza generale della società, non poteva assumere la contemporanea presenza dell'attività di lavoro subordinato.
La società presentava ricorso avverso l'avviso di accertamento; allo stesso tempo i soci nonché amministratori coinvolti ricorrevano contro il silenzio rifiuto formatosi sulle rispettive istanze di rimborso delle imposte versate per i loro rapporti di lavoro subordinato (Irpef). La Commissione Tributaria Provinciale rigettava in entrambi i casi.
La società presentava ricorso in appello, parzialmente accolto dalla Commissione Tributaria Regionale, la quale annullava la parte relativa all'indebita deduzione di costi ritenuti quindi inerenti. Difatti, per la Commissione Tributaria adita sussisteva il requisito della inerenza dei costi trattandosi di compensi erogati dalla società ai soci per le operazioni di ordinaria e straordinaria gestione prestata a favore della società di appartenenza.
Il caso sottoposto al vaglio della Corte riguardava il ricorso presentato dall'Agenzia delle Entrate avverso la suddetta sentenza che si era limitata, a detta dell'Ufficio, ad affermare l'inerenza dei costi, senza preoccuparsi della diversità delle mansioni svolte dai soci nella duplice qualità di amministratori e lavoratori subordinati. L'Agenzia delle Entrate contestava, da un lato, la mancanza del vincolo di subordinazione tra datore di lavoro e dipendenti, dall'altro, la mancanza del requisito della diversità delle mansioni tra il soggetto amministratore e il lavoratore subordinato.
La Corte di Cassazione affermava così che i giudici di secondo grado avrebbero errato nell'applicazione dei principi giurisprudenziali sanciti in materia, poiché la qualità di amministratore di società di capitali, membro del consiglio di amministrazione, sarebbe stata compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, laddove fosse stato in concreto accertato lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica rivestita, permettendo in siffatta maniera la deducibilità degli emolumenti percepiti. La questione
La questione che si pone è la seguente: per quanto riguarda il trattamento fiscale dei compensi corrisposti agli amministratori di società di capitali, sono o non sono deducibili i costi del lavoro riferiti ai soggetti che rivestono tale carica?
E se sì, a quali condizioni? Le soluzioni giuridiche
Al fine di pervenire ad una soluzione, la Corte di Cassazione muove dalla premessa che la deducibilità dei costi dell'amministratore di una società di capitali può essere riconosciuta solo qualora lo stesso assuma la posizione di lavoratore subordinato. Ciò in quanto, in caso di mansioni proprie della carica di amministratore non riconducibili allo svolgimento di un rapporto di lavoro subordinato, non vi sarebbe alcuna possibilità di deducibilità dei costi.
E tanto lo si evincerebbe dal d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (art. 62, oggi art. 60) che escluderebbe l'ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l'opera svolta dall'imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone.
La posizione dell'amministratore unico di società di capitali verrebbe di conseguenza equiparata a quella dell'imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l'assoggettamento all'altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, requisito tipico della subordinazione (cfr. Cass., 13 novembre 2006, n. 24188). Ciò detto e premesso, al fine di rendere deducibili i costi relativi agli emolumenti dell'amministratore, la Corte prosegue, ancorandosi ad un orientamento giurisprudenziale granitico che rende sovrapponibile la qualifica di amministratore alla posizione di lavoratore subordinato, a determinate condizioni.
Di norma, gli amministratori, esprimendo la volontà propria della società, così come i poteri di controllo, di comando e di disciplina, in veste di lavoratori sarebbero subordinati di sé stessi, circostanza non giuridicamente permessa. Secondo la Corte di Cassazione, per verificare che la qualità di amministratore di una società di capitali sia compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, occorre accertare in concreto che vengano svolte mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con l'assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare (Cass., 26 ottobre 1996, n. 9368; Cass., 25 maggio 1991, n. 5944; Cass., 11 novembre 1993, n. 11119; Cass., 28 aprile 2021, n. 11161).
Ed allora che si deve procedere ad analizzare i singoli casi: a) per la Corte è assolutamente incompatibile la posizione di socio di società di capitali e amministratore unico, presidente del consiglio di amministratore o socio “sovrano” e quella di lavoratore subordinato (cfr. Cass., sez. 5, 28 aprile 2021, n. 11161); b) la qualità di socio ed amministratore di una società di capitali composta da due soli soci, entrambi amministratori, è invece compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, anche a livello dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio dirigente alle direttive ed al controllo dell'organo collegiale amministrativo formato dai medesimi due soci (Cass., sez. L., 21 maggio 2002, n. 7465; Cass., 21 gennaio 1993, n. 706; Cass., sez. L, 25 maggio 1991, n. 5944; Cass., sez. L, 13 novembre 1989, n. 4781).
Se le mansioni non sono differenti dalla carica, la nullità del rapporto di lavoro avente ad oggetto tali funzioni non esclude il compenso eventualmente pattuito in favore degli amministratori (Cass., sez. L., 12 gennaio 2002, n. 329), ma i relativi costi non possono essere deducibili. Osservazioni
La qualificazione giuridica del rapporto che intercorre tra società di capitali e i propri amministratori è un problema che riguarda diversi rami dell'ordinamento e la sua soluzione impatta direttamente sul diritto del lavoro e sul diritto tributario.
In breve, alcune considerazioni in ordine ad entrambi gli ambiti.
Per gli amministratori di società l'accesso alla disciplina del lavoro subordinato, precluso dalla norma sulle collaborazioni etero-organizzate, può avvenire, sulla scorta delle concrete modalità di svolgimento della funzione gestoria, qualificando come subordinata la collaborazione secondo i “tradizionali” criteri desunti dall'art. 2094 c.c. ;
Ma, stabilita la compatibilità giuridica astratta tra le funzioni del lavoratore dipendente e quelle di amministratore, la sussistenza di un simile rapporto deve essere necessariamente verificata in concreto.
In questo caso incombe a carico dell'amministratore che invochi la subordinazione l'onere di dimostrare che, nonostante la formale qualifica di amministratore societario, egli sia in realtà un lavoratore subordinato e che, pertanto, sia sottoposto alle direttive ed al controllo altrui, svolgendo attività estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico e, a carico della società, la quale intende evitare i costi derivati dall'indeducibilità della retribuzione da lavoro dipendente, l'onere di dimostrare l'attribuzione di mansioni diverse dalle funzioni proprie della carica sociale rivestita.
Si badi che non è a ciò sufficiente l'osservanza di un determinato orario di lavoro e la percezione di una regolare retribuzione (cfr. Cass., 15 febbraio 1985, n. 1316).
Una deduzione particolare deve poi riguardare la dibattuta vicenda dell'ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato nell'ambito della compagine societaria.
Secondo l'impostazione della Corte di Cassazione i compensi degli amministratori non riconducibili allo svolgimento di un rapporto di lavoro subordinato sono tout court indeducibili. E ciò, sulla base della disciplina prevista a proposito dell'imprenditore che sembra costituire l'enunciato normativo dal quale trarre vincoli e limiti a proposito dei compensi spettanti a soggetti titolari dei poteri di gestione, decisionali e di rappresentanza nelle società.
In realtà, la tesi non convince del tutto, in quanto, in assenza di un'espressa previsione normativa che vieti la deducibilità dei compensi degli amministratori delle società di capitali, deve rilevarsi che, in ogni caso, i compensi corrisposti agli amministratori rappresentano dei costi inerenti all'attività d'impresa che dovrebbero essere deducibili a prescindere dall'esistenza o meno di un vincolo di subordinazione. D'altronde, l'art. 95, comma 5, del d.P.R. del 22 dicembre 1986, n. 917 (c.d. T.U.I.R.), si limita a stabilire un vincolo di natura intertemporale, ossia la deduzione per cassa dei compensi corrisposti agli amministratori, considerati comunque costi che concorrono a formare l'imponibile da cui devono essere considerati deducibili, in virtù e secondo le regole del principio di inerenza.
L'effetto distorsivo che potrebbe derivare dalla posizione assunta dalla Suprema Corte è quello di determinare una “doppia imposizione”, in quanto la medesima ricchezza potrebbe essere tassata una prima volta nell'ambito del reddito di impresa, in conseguenza della indeducibilità dei costi, e, una seconda volta, quale reddito di lavoro in capo all'amministratore. Minimi riferimenti bibliografici
- G. Fransoni, L'indeducibilità dei compensi degli amministratori, le sentenze … “cieche” e l'autoreferenzialità della Cassazione, in Rass. Trib., 2010, 2854. |