Legittimo impedimento dell'imputato: le Sezioni Unite sul rinvio per la traduzione del soggetto detenuto per altra causa

Wanda Nocerino
05 Aprile 2022

Le Sezioni Unite della Suprema Corte risolvono un annoso contrasto interpretativo insorto in dottrina e in giurisprudenza in relazione alla possibilità di qualificare la restrizione dell'imputato agli arresti domiciliari per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, quale legittimo impedimento a comparire, imponendo al giudicante il rinvio ad una nuova udienza e la traduzione in giudizio e ciò anche quando l'interessato avrebbe potuto informare preventivamente il giudice dello stato di detenzione.
Massima

La restrizione dell'imputato agli arresti domiciliari per altra causa, documentata o, comunque, comunicata al giudice procedente, in qualunque tempo, integra un impedimento legittimo a comparire che impone al medesimo giudice di rinviare ad una nuova udienza e disporne la traduzione.

Il caso

Il Tribunale di Crotone aveva ritenuto colpevole C. per reato di evasione, per essersi allontanato senza autorizzazione dal luogo ove era sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, e la condanna veniva confermata dalla Corte d'appello di Catanzaro.

Durante il giudizio di prima istanza, il difensore aveva rappresentato il sopravvenuto stato di privazione della libertà personale dell'imputato, ristretto, per altra causa, agli arresti domiciliari, richiedendo – in quella sede – il rinvio di udienza e la traduzione dello stesso per presenziare al suo processo.

Il Tribunale accoglieva l'istanza di rinvio senza invece disporre la traduzione dell'imputato, ritenendo che, in mancanza di una specifica richiesta da parte di quest'ultimo per presenziare all'udienza, la restrizione domiciliare per altra causa non integrasse ex se un legittimo impedimento.

Riproposta la questione durante il giudizio di secondo grado, la Corte territoriale rigettava l'eccezione di nullità della pronuncia di prima istanza, ritenendo insussistente il dovere del giudice di disporre la traduzione dell'interessato, dovendo l'imputato attivarsi presso il giudicante del diverso procedimento in cui era stata applicata la misura, al fine di ottenere l'autorizzazione a recarsi in udienza, pur in assenza di disposizioni di legge in tal senso.

Ricorreva per cassazione il difensore dell'imputato (ex art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p.), lamentando una violazione della legge penale con riferimento agli artt. 178, comma 1, lett. c) e 179 c.p.p., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto di rigettare l'eccezione di nullità della pronuncia di primo grado.

La VI sezione penale, investita della questione, rilevava un contrasto interpretativo sul tema de quo e ha rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione: «se la restrizione dell'imputato agli arresti domiciliari per altra causa, comunicata in udienza, integri comunque un'ipotesi di legittimo impedimento a comparire, così precludendo la celebrazione del giudizio in assenza, ovvero gravi sull'imputato il previo onere di richiedere al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare l'autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per presenziare a detta udienza».

La questione

Con la pronuncia in commento, le Sezioni Unite della Suprema Corte risolvono un annoso contrasto interpretativo insorto in dottrina e in giurisprudenza in relazione alla possibilità di qualificare la restrizione dell'imputato agli arresti domiciliari per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, quale legittimo impedimento a comparire, imponendo al giudicante il rinvio ad una nuova udienza e la traduzione in giudizio e ciò anche quando l'interessato avrebbe potuto informare preventivamente il giudice dello stato di detenzione.

Più precisamente, le questioni giuridiche sottoposte al vaglio delle Sezioni Unite possono essere così schematizzate:

  1. la restrizione dell'imputato per altra causa rappresenta un legittimo impedimento?
  2. il trattamento dei soggetti ristretti in carcere può essere equiparato a quello dei soggetti sottoposti alla misura degli arresti domiciliari?
  3. sussiste un dovere di comunicazione da parte dell'imputato ristretto per altra causa di informare l'autorità giudiziaria?
  4. entro quale termine il giudice deve essere reso edotto di tale condizione?

In questo senso, occorre chiarire su chi gravi l'onere di verificare la sussistenza del legittimo impedimento e, dunque, se sia l'interessato a dover fornire la prova richiesta, ovvero se il giudice possa o debba procedere d'ufficio al relativo accertamento.

Le soluzioni giuridiche

L'iter logico seguito dal Supremo Collegio per suffragare la tesi prescelta è alquanto complesso e, per comodità espositiva, compendiabile in tre macro-aree: la prima, relativa alla descrizione dello stato dell'arte; la seconda, nella quale i giudici prendono posizione sulla questione, procedendo a confutare le ragioni poste alla base delle differenti opzioni giurisprudenziali; la terza, volta a dimostrare la possibilità di parificare gli effetti delle forme di restrizione, carceraria o domiciliare, ai fini della valutazione dell'impedimento.

Con riferimento alla descrizione dello stato dell'arte, un primo orientamento – invero maggioritario –, nel richiamare i principi espressi dalla giurisprudenza pregressa (cfr. Cass. pen., sez. un., 26 settembre 2006, n. 37483 e da Cass. pen., sez. un., 24 giugno 2010, n. 35399), ritiene che l'imputato, già citato a giudizio in stato di libertà e successivamente tratto in arresto e detenuto per altra causa, versa in stato di legittimo impedimento, qualora non ne sia ordinata la traduzione. Di qui, non può procedersi in sua assenza, ove non vi sia espressa rinuncia a presenziare al giudizio, conseguendone altrimenti la nullità di tutti gli atti compiuti senza che egli abbia avuto modo di partecipare allo stesso. Secondo un diverso indirizzo esegetico, invece, è onere dell'imputato, regolarmente citato in stato di libertà e dichiarato assente, segnalare tempestivamente al giudice il suo sopravvenuto stato di detenzione e la sua volontà di prendere parte al giudizio.

Il contrasto evidenziato involge anche un ulteriore aspetto e, cioè, la possibilità di traslare tali principi anche nel caso in cui il soggetto sia ristretto agli arresti domiciliari (e non sia sottoposto alla custodia intramuraria).

Secondo talune decisioni, il sopravvenuto stato di detenzione, anche se non in carcere, integra comunque un'ipotesi di legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del giudizio anche quando risulti che l'imputato avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione. Tuttavia, l'indirizzo maggioritario propende per l'opposta soluzione, ossia che è onere dell'imputato agli arresti domiciliari per altra causa chiedere tempestivamente l'autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per il tempo necessario.

Ricostruito in tal modo lo stato dell'arte, le Sezioni Unite procedono a delineare la propria posizione sulla questione, dichiarando apertamente di aderire ai dettami delle Sezioni Unite Arena del 2000.

Dunque, a parere del Supremo Collegio, «in virtù della norma generale fissata dall'art. 420-ter c.p.p., qualora l'imputato non si presenti e in qualunque modo risulti (o appaia probabile) che l'assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito o forza maggiore o altro legittimo impedimento, spetta al giudice disporre, anche d'ufficio, il rinvio ad una nuova udienza, senza che sia necessaria una qualche richiesta in tal senso».

Poichè nei casi di limitazione della libertà personale (detenzione intramuraria o domiciliare) è in re ipsail legittimo impedimento, il giudice non può procedere in assenza, pena la violazione delle disposizioni codicistiche (artt. 420-bis e ss. c.p.p.) e dei principi sovranazionali (cfr. Corte Edu, 12 febbraio 1985, Colozza c. Italia; Corte edu, 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia; Corte Edu, 1 marzo 2006, Sejdovic c. Italia) e costituzionali (Corte cost., 1 febbraio 1982, n. 9; Corte cost., 15 luglio 1994, n. 301) che regolano il giusto processo in absentia.

D'altra parte, nessuna norma pone a carico dell'imputato, citato in condizioni di libertà e ristretto per altra causa, di attivarsi presso il giudice della cautela o il magistrato di sorveglianza competente sulla restrizione in atto.

Al fine di sostenere la tesi prescelta, i giudici si preoccupano di confutare le soluzioni offerte dalla giurisprudenza contraria.

In particolare, secondo la Corte, parte della giurisprudenza non considera il principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite già nel 2006, secondo cui l'impedimento di chi è sottoposto a restrizione della libertà diversa dalla detenzione in carcere è pur sempre legittimo ed assoluto e una differenziazione delle due situazioni sarebbe foriera di irragionevolezza, ove si consideri che il detenuto in carcere può più facilmente dialogare con l'autorità giudiziaria procedente tramite l'ufficio matricola, mentre non sempre l'imputato agli arresti domiciliari è in grado di veicolare le sue richieste, in assenza di strumenti adeguati o di persone in grado di agire in sua vece.

Proprio sulla base di tale assunto, le Sezioni Unite rimarcano l'impossibilità di discernere il trattamento degli imputati detenuti per altra causa in carcere da quelli ristretti agli arresti domiciliari. A parere della Corte, infatti, «[I]l giudice che procede, nell'ipotesi in cui emerga, in qualsiasi modo, dagli atti la circostanza che l'imputato, libero nel suo procedimento, sia in condizione di restrizione di qualsiasi natura per altra causa, deve attivarsi a disporre l'ordine di traduzione, ed il rinvio del procedimento, qualora tale ordine non sia eseguibile per l'udienza già fissata – nell'ipotesi in cui tale conoscenza sia acquisita nell'immediatezza della prima udienza e non sia possibile procedere utilmente all'emissione dell'ordine per quella data – con correlato obbligo di rinnovo dell'avviso. Nel caso in cui, invece, tale condizione non emerga dagli atti non può che farsi carico all'imputato correttamente citato, o al suo difensore, di comunicare la condizione di restrizione sopraggiunta, che abbia effetto impeditivo della libertà di accesso all'udienza».

Sulla base di tali indicazioni, le Sezioni Unite forniscono risposta (parziale) ai quesiti richiamati, statuendo che in ogni caso e indipendentemente dal “tempo” della comunicazione, la costrizione dell'imputato per altra causa agli arresti domiciliari o in carcere determina un legittimo impedimento che preclude la celebrazione del processo in absentia, gravando sul giudicante l'onere di rinviare ad una nuova udienza e disporne la traduzione.

Osservazioni

I principi espressi dalle Sezioni Unite risultano senz'altro condivisibili in relazione alla qualificazione dello status custodiae: la detenzione (sia intra che extra muraria) figura quale “ostacolo di natura giuridica” (Moscarini, p. 12) che determina un legittimo impedimento dell'imputato e, dunque, un'assoluta impossibilità a comparire in udienza, giustificandone, ex art. 420-ter, comma 1, c.p.p., il rinvio.

Deve, tuttavia, ammettersi che la Corte non si sofferma su un ulteriore aspetto che, invero, sembra nodale: proprio come nelle decisioni precedenti (Cass. pen., sez. un., 26 settembre 2006, n. 37483 e da Cass. pen., sez. un., 24 giugno 2010, n. 35399), le Sezioni Unite sembrano perdere l'occasione di dettare le coordinate di fondo per circoscrivere i casi del “legittimo impedimento”. Anche in questa circostanza, infatti, si propone la questione di diritto sul se la detenzione per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integri un legittimo impedimento anche quandol'imputato avrebbe potuto comunicare tempestivamente lo status custodiae, evitando così superflue (e meramente dilatorie) richieste di rinvio.

Messa in questi termini, la quaestio iuris inerirebbe non tanto al se la detenzione sia o meno causa di legittimo impedimento ma al se essa integri tale condizione anche quando risulti che l'imputato avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di limitazione della libertà personale in tempo utile per la traduzione.

Al fine di trovare una soluzione al quesito, sembra doveroso verificare la sussistenza di una fonte normativa che consacri il diritto/dovere di comunicazione dell'imputato del sopravvenuto stato di detenzione al giudice procedente.

A tal proposito, è necessario partire da un punto fermo: come anche ribadito a più riprese dalla Corte, nel codice di rito non sono contenute disposizioni atte a tipizzare un simile obbligo che, invero, è espressamente previsto per il difensore (art. 420-ter, comma 5, c.p.p.). E nemmeno la maxi riforma del 2014 (l. n. 67) ha colmato un simile vuoto; di qui, va constatata l'insussistenza di alcun dovere comunicativo a carico dell'imputato.

Tuttavia, secondo una parte della dottrina (Pansini, p. 84; Ponzetta, p. 3794. Contra Moscarini, p. 305), una siffatta lacuna potrebbe essere colmata ricorrendo all'interpretazione fornita al concetto di “assoluta impossibilità a comparire”: come precisato, «l'impossibilità è assoluta tutte le volte in cui non può essere superata in alcun modo, o comunque soltanto attraverso sacrifici o pericoli ragionevolmente inesigibili» (Ubertis,p. 3. In senso conforme la giurisprudenza di legittimità. Cfr. Cass. pen., sez. III, 5 dicembre 2018, n 11460; Cass. pen., sez. III, 26 giugno 2012, n. 47975).

Di qui, come precisato (Ponzetta, p. 3797), «la comunicazione di voler partecipare all'udienza [si può] tradurre in una semplice dichiarazione resa dall'imputato […], e costituisce, nella maggior parte dei casi, uno sforzo concretamente esigibile».

Altri Autori (Rombi, voce Processo in assenza, in Dig. disc. pen., Torino, 2021, p. 4) precisano che «qualora il giudice non ravvisi alcuna irregolarità delle notifiche occorre verificare se [l'imputato] abbia comunicato qualcosa all'autorità a giustificazione della sua assenza», così rimarcando la sussistenza di un dovere comunicativo in carico all'interessato.

In questo senso, si è detto che in assenza di forme di comunicazione da parte dell'imputato al giudice procedente, «la mancata traduzione per il giudizio non si risolve in un'assoluta impossibilità, di comparizione, giacché, con la dovuta diligenza, l'imputato avrebbe potuto fare in modo di presentarsi in giudizio» (Pansini, p. 84).

Secondo tali orientamenti, al fine di rintracciare il punto di equilibrio tra il diritto di difesa (di cui la partecipazione al processo è espressione. Cfr. Caprioli, p. 589) e ragionevole durata (da ultimo, Corte Edu, 11 maggio 2021, Penati c. Italia), si dovrebbe richiedere un livello minimo di diligenza all'imputato che consenta di eliminare qualsivoglia ostacolo alla sua partecipazione al giudizio.

Nel rispetto di tali posizioni – che valorizzano la necessità di un equilibrio tra i principi fondamentali richiamati – si potrebbe prevedere un onere a carico dell'interessato di fornire tempestivo avviso al direttore dell'istituto (nel caso di detenzione intramuraria) o al suo difensore (nel caso di arresti domiciliari) circa la sopravvenuta privazione della libertà personale, in modo da evitare superflui rinvii di udienza. Ma ciò solo a condizione che l'imputato venga ristretto per altra causa in un tempo assai lontano rispetto a quello dell'udienza: naturalmente, non è possibile richiedere un simile dovere nel caso in cui lo stato di restrizione sia intervenuto in prossimità della data fissata per la comparizione.

Seppur questa appare all'interprete l'opzione più confacente per non sacrificare eccessivamente il principio di ragionevole durata e, al contempo, non compromettere il diritto di partecipazione dell'interessato al suo processo, deve ammettersi che, in assenza di espresse previsioni normative, deve ritenersi che non può farsi gravare sull'imputato un simile dovere comunicativo in assenza di riferimenti normativi espressi. Il rischio potrebbe essere quello di consentire un aggiramento della disciplina – così come definita da ultimo con la riforma del 2014 – che attribuisce al giudice imponenti doveri accertativi sulla mancata partecipazione dell'interessato all'udienza di comparizione per consentire l'effettività del diritto di difesa.

In questo senso depone anche l'ultima riforma del processo in assenza: i criteri direttivi contenuti nella legge Cartabia (art. 1, comma 7, l. 134/2021) prevedono, tra l'altro, un rafforzamento delle garanzie partecipative dell'imputato, attraverso una ridefinizione dei casiper cui il soggetto può essere considerato assente, statuendo che il processo possa svolgersi senza la presenza dell'imputato solo quando vi sia la certezza del fatto che tale assenza sia volontaria consapevole.

Dunque, il rafforzamento dell'esigenza di certezza della conoscenza del processo e, ancor prima, dell'assenza di qualsivoglia forma impeditiva alla partecipazione (caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento), impediscono – allo stato – di ritenere sussistente un dovere di comunicazione a carico dell'imputato circa la sua restrizione per altra causa, fermo restando che tale impegno (tutt'altro che inesigibile) rappresenterebbe sicuramente un sintomo di diligenza per razionalizzare i tempi del processo.

Riferimenti
  • Balzarotti, voce Legittimo impedimento, in Enc. dir., Annali II, t. 1, Milano, 2008, p. 449;
  • Caprioli, “Giusto processo” e rito degli irreperibili, in Legislaz. pen., 2004, p. 589;
  • Moscarini, La contumacia dell'imputato, Milano, 1997;
  • Pansini, La contumacia nel diritto processuale penale, Napoli, 1963, p. 84;
  • Ponzetta, Sopravvenuto stato di detenzione dell'imputato e legittimo impedimento: le Sezioni Unite non sciolgono tutti i dubbi, in Cass. pen., 2007, p. 3794;
  • Ubertis, voce Contumacia (procedimento in), II) diritto processuale penale, in Enciclopedia giuridica, IX, Roma, 1988.