Il socio non può recedere quando viene ridotta la durata della società

06 Aprile 2022

La deliberazione di riduzione della durata della società che comporti il passaggio dalla durata a tempo indeterminato a quella a tempo determinato non attribuisce al socio un autonomo diritto di recesso ex lege...
Massima

La deliberazione di riduzione della durata della società che comporti il passaggio dalla durata a tempo indeterminato a quella a tempo determinato non attribuisce al socio un autonomo diritto di recesso ex lege, alla stregua della disciplina dettata dall'art. 2437, comma 1, lett. e), c.c., perché tale effetto consegue solo nel caso di eliminazione delle cause di recesso derogabili previste ex lege e di eliminazione delle ulteriori clausole di recesso specificamente previste dallo statuto, ove consentito.

Il caso

Il socio di una società per azioni non quotata in un mercato regolamentato incardinava un procedimento arbitrale perché fosse accertata la legittimità del recesso operato in conseguenza della delibera, assunta in occasione di un'assemblea alla quale egli non aveva partecipato, con cui era stata ridotta la durata della società e venisse, di conseguenza, liquidata la sua partecipazione sociale.

A fondamento delle proprie domande, il socio assumeva che la delibera in questione, riducendo la durata della società dal 2100 al 2040 e rendendola, in questo modo, compatibile con la vita media dell'uomo, a differenza di quanto originariamente previsto dallo statuto, aveva comportato la sostanziale eliminazione della facoltà di recesso ad nutum prevista dall'art. 2437, comma 3, c.c. in caso di società costituita a tempo indeterminato, sicché, a suo dire, doveva ritenersi integrata l'ipotesi contemplata dall'art. 2437, comma 1, lett. e), c.c., a mente del quale il socio ha diritto di recedere quando venga eliminata una causa di recesso.

Il lodo che aveva dato torto al socio, respingendo le sue domande, era stato fatto oggetto di gravame innanzi alla Corte d'appello di Palermo, che, tuttavia aveva rigettato l'impugnazione, con sentenza contro cui veniva, quindi, proposto ricorso per cassazione, assumendosi la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2437 c.c.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Con la sentenza che si annota, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso, reputando corretta l'esegesi della norma operata dagli arbitri prima e dalla Corte d'appello di Palermo poi.

La motivazione posta a fondamento della decisione assunta si articola nei seguenti passaggi:

1) poiché lo statuto delle società per azioni è modificabile a maggioranza, quando si verifica una sostanziale ed effettiva modifica degli elementi essenziali del contratto sociale l'ordinamento, a tutela della posizione dei soci dissenzienti, attribuisce loro – quale strumento di contemperamento dei loro interessi – il diritto di recedere;

2) l'art. 2437 c.c. prevede il diritto del socio di recedere solo quando la durata della società venga prorogata (salvo che non sia diversamente previsto dallo statuto), ovvero quando la società sia costituita a tempo indeterminato;

3) la situazione prevista dall'art. 2437, comma 1, lett. e), c.c. ricorre solo nel caso in cui sia stata eliminata una facoltà di recesso specificamente prevista dalla legge o dallo statuto;

4) nessuna delle predette ipotesi si era verificata nel caso di specie.

Osservazioni

La pronuncia annotata si fa carico di illustrare il meccanismo di operatività della norma che consente al socio di una società per azioni di recedere quando venga deliberata la modifica della durata della società, ponendosi in contrasto con un precedente arresto, risalente al 2013, che era pervenuto a una conclusione opposta a quella ora patrocinata.

Il punto di partenza da cui muove il ragionamento dei giudici di legittimità è rappresentato dalla considerazione per cui, in deroga ai principi comuni valevoli in materia di contratti, lo statuto delle società per azioni è modificabile a maggioranza (e la medesima regola vale anche per l'atto costitutivo delle società a responsabilità limitata, per effetto del combinato disposto degli artt. 2479-bis e 2480 c.c., salvo che esso non disponga diversamente, prescrivendo l'unanimità), sia pure con i più rigorosi quorum previsti per l'assemblea straordinaria, dal momento che il contratto sociale, avente carattere programmatico, deve poter essere adeguato in conseguenza delle esigenze dettate dall'esercizio dell'attività d'impresa e non può, di converso, porsi come cristallizzazione di una composizione d'interessi.

Da questa notazione, traspare quella che, secondo la dottrina, rappresenta una delle caratteristiche peculiari del tipo sociale in questione, vale a dire l'assenza del carattere personale che normalmente informa, invece, le partecipazioni nelle società a base ristretta, visto che le società per azioni – di norma – si distinguono per una base sociale eterogenea e per il numero elevato di soci, tendenzialmente capitalisti e poco interessati alla vita sociale.

Per bilanciare la modificabilità a maggioranza dello statuto, in particolare quando si determini una sostanziale ed effettiva variazione degli elementi essenziali del contratto sociale, la legge ha introdotto degli strumenti di tutela dei diritti dei soci non consenzienti: in questo contesto, si inscrive la facoltà di recesso (tradizionalmente qualificato come strumento di armonizzazione dell'interesse del singolo socio a non vedere mutate le condizioni alle quali ha inteso partecipare alla società e il diritto della maggioranza di modificarne l'ordinamento), la cui disciplina, tuttavia, è stata conformata in modo tale da assicurare, nel contempo, la stabilità dell'aggregazione societaria e delle risorse, al fine di evitare il depauperamento del patrimonio sociale e, conseguentemente, della garanzia che esso integra per i creditori sociali.

La norma di riferimento, a tale proposito, è rappresentata dall'art. 2437 c.c., che, da un lato, ha ampliato le cause di recesso normativamente previste e, dall'altro lato, riconosce all'autonomia statutaria la facoltà di individuarne di ulteriori, qualora si tratti di società che non fanno ricorso al capitale di rischio (come previsto dal comma 4) e che non godono del pieno e inderogabile diritto alla libera trasferibilità delle azioni (rispetto alla quale il recesso si pone come strumento alternativo).

Così, sono individuabili tre categorie di cause di recesso: una prima, che comprende quelle necessarie e non eliminabili per via statutaria; una seconda, in cui rientrano quelle che, sebbene previste in via ordinaria, sono eliminabili mediante previsione statutaria; una terza, infine, nella quale si inscrivono le cause di recesso che possono essere introdotte dallo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.

A fronte di ciò, secondo la giurisprudenza, le disposizioni che riconoscono la facoltà di recesso debbono essere considerate di stretta interpretazione, in ragione del fatto che, perlomeno in via tendenziale, al recesso dev'essere sottesa una causa che si concreti in una modificazione statutaria di particolare gravità, che risulti tale da provocare un'alterazione profonda del rischio originariamente assunto da chi abbia deciso di partecipare all'operazione societaria.

L'ultimo comma dell'art. 2437 c.c., peraltro, sancisce la nullità di ogni patto volto a escludere o a rendere più gravoso l'esercizio del diritto di recesso nelle ipotesi previste dal primo comma.

Tra le fattispecie di recesso disciplinate dalla norma, due sono quelle che hanno per oggetto la durata della società e che, per la peculiarità della vicenda portata all'esame dei giudici di legittimità, sono state sottoposte a scrutinio.

In primo luogo, il comma 2 dell'art. 2437 c.c. attribuisce al socio il diritto di recedere quando la durata della società venga prorogata, salvo che lo statuto disponga diversamente.

In secondo luogo, il comma 3 dell'art. 2437 c.c. attribuisce al socio di società per azioni statutariamente costituita a tempo indeterminato e le cui azioni non siano quotate in un mercato regolamentato il diritto di recedere ad nutum, a prescindere dall'adozione di una qualsivoglia deliberazione da parte dell'assemblea; a differenza dell'ipotesi prevista dal comma 2, la facoltà di recesso non può essere eliminata dallo statuto, cui è consentito soltanto ampliare il termine (di 180 giorni) di preavviso fissato in via ordinaria dal legislatore, peraltro in misura non superiore a un anno.

In entrambi i casi, le disposizioni perseguono l'intento di tutelare il socio, onde evitare che questi sia costretto dal vincolo sociale oltre un tempo ragionevole contro la sua volontà.

Alla luce di tali considerazioni, nella sentenza che si annota è stato evidenziato che la situazione da cui era originato il contenzioso (riduzione della durata della società e conseguente esercizio del recesso da parte del socio che non aveva partecipato alla relativa deliberazione, né vi aveva prestato assenso) non rientrava in alcuna delle due ipotesi considerate dal legislatore, sicché non se ne poteva invocare l'operatività, non ricorrendo alcuna delle esigenze sottese alle norme recate dai commi 2 e 3 dell'art. 2437 c.c., per la semplice ragione che non si trattava di prolungare il vincolo sociale o di estenderlo temporalmente in modo indefinito, ma, al contrario, di delimitarlo rispetto alla previsione originaria: delimitazione da cui non scaturisce alcun pregiudizio per il socio, nel senso inteso dal legislatore (che, come detto, mira a evitare che il socio sia costretto dal vincolo sociale oltre un tempo ragionevole contro la sua volontà).

Non può condurre a diversa conclusione, secondo i giudici di legittimità, il riferimento alla fattispecie considerata, sub lett. e), dal comma 1 dell'art. 2437 c.c., in virtù della quale il socio ha diritto di recedere quando venga eliminata una delle cause di recesso previste dal comma 2 (che si riferisce alla proroga e non alla riduzione della durata della società) o dallo statuto; sotto questo profilo, che era quello su cui faceva leva la tesi patrocinata dal ricorrente e reputata infondata, l'eliminazione di un'ipotesi di recesso rileva solo se si tratti di un caso specificamente previsto dalla legge o dallo statuto, mentre sono da escludere altre situazioni che possono, al limite, essere il frutto di una lettura estensiva del dato normativo (che, tuttavia, non può reputarsi consentita, dovendosi optare per un'interpretazione restrittiva delle disposizioni che disciplinano il diritto di recesso del socio).

Come non si è mancato di sottolineare nella sentenza che si annota, “lo spazio operativo riconosciuto all'autonomia privata, in punto di diritto di recesso, si colloca nello stretto solco tracciato dal legislatore, che da un lato ha enucleato un ristretto numero di cause di recesso ineliminabili ed inderogabili ed ha circoscritto le cause di recesso derogabili e, dall'altro, ha espressamente previsto che la facoltà di introdurre “ulteriori” clausole di recesso sia veicolata all'interno dello statuto, nel chiaro obiettivo di coniugare la maggiore autonomia privata normativamente riconosciuta alle società che non fanno ricorso al capitale rischio con le esigenze di trasparenza e di conoscibilità anche da parte dei terzi delle ulteriori ipotesi di fuoriuscita del socio, potenzialmente atte ad incidere sull'assetto patrimoniale della società”.

Conclusioni

La pronuncia in esame si pone nel solco dell'orientamento che propugna una lettura restrittiva delle norme che disciplinano il recesso del socio nelle società di capitali e, in questo modo, giunge a conclusioni opposte rispetto a quelle alle quali era pervenuta Cass. civ., sez. I, 22 aprile 2013, n. 9662.

In quel caso, infatti, i giudici di legittimità avevano affermato che il passaggio da un regime di durata a tempo indeterminato della società (cui, per ragioni di carattere sistematico, può assimilarsi una durata fissata in epoca così lontana da oltrepassare qualsiasi orizzonte previsionale, non solo della persona fisica, ma anche di un soggetto collettivo), con corrispondente diritto del socio di recedere ad nutum, a un regime di durata a tempo determinato, che un tale diritto esclude, equivale a un'ipotesi di eliminazione di una causa di recesso, senza che ciò comporti un'indebita estensione dell'ambito di applicabilità della relativa disciplina.

Secondo la giurisprudenza più recente, invece, anche quando si tratti di interpretare e applicare la disposizione che legittima il recesso ad nutum nel caso in cui la società sia costituita a tempo indeterminato, deve escludersi che la previsione di una prolungata durata della società, largamente superiore alle aspettative di vita dei soci, sia equiparabile alla fattispecie considerata dal comma 3 dell'art. 2437 c.c. (e dal comma 2 dell'art. 2473 c.c. per le società a responsabilità limitata), ovvero che possa ricadere sotto la disciplina dettata dall'art. 2285 c.c. per le società di persone e ispirata dalla prevalente considerazione dell'intuitus personae (si vedano, in tale senso, Cass. civ., sez. I, 29 marzo 2019, n. 8962 e Cass. civ., sez. I, 21 febbraio 2020, n. 4716, nonché, da ultimo, Trib. Milano, 8 settembre 2021). Da questo punto di vista, la comparazione tra l'interesse del socio di società di capitali a dismettere il suo investimento, quello della compagine societaria a portare avanti il progetto imprenditoriale (facendo affidamento sulle risorse presenti e sulla loro certezza) e quello dei terzi creditori (che, a loro volta, confidano nella garanzia costituita dall'intero patrimonio sociale, non potendo contare, a differenza di quanto è a dirsi con riguardo alle società di persone, su quella rappresentata dal patrimonio personale dei soci), non legittima l'estensione di regole (quale quella dettata dall'art. 2285 c.c.) che sottendono una logica del tutto diversa, rendendo non assimilabili fattispecie solo in apparenza omologhe.

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