I criteri per stabilire la natura del concordato preventivo: la normativa attuale, le novità del Codice della crisi e l'analisi di alcuni casi pratici

Nicola Manzini
04 Marzo 2022

L'attuale disciplina dettata dalla legge fallimentare lascia irrisolti alcuni temi, il più rilevante dei quali è il criterio per stabilire, ai fini della determinazione della natura della proposta concordataria, se via sia un'effettiva continuità aziendale. Ciò in quanto la legge fallimentare stabilisce che nel concordato in continuità, sia diretta che indiretta, sia possibile prevedere la liquidazione di beni non strategici e, quindi, non funzionali all'attività d'impresa (c.d. concordato “misto”).
La disciplina attuale del concordato preventivo in continuità: l'art. 186 bis l. fall.

L'art. 33 (“Revisione della legge fallimentare per favorire la continuità aziendale”) comma 1, lettera h), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (il c.d. Decreto Sviluppo) ha introdotto nella legge fallimentare l'art. 186-bis (Concordato con continuità aziendale) la cui disciplina si applica alle fattispecie in cui piano di concordato di cui all'art. 161, comma 2, lett. e), l.fall. preveda:

(i) la prosecuzione dell'attività di impresa da parte del debitore, il quale prosegue a gestire l'impresa - seppur nei limiti del principio dello spossessamento attenuato - anche a seguito del deposito della domanda di concordato (continuità c.d. diretta);

(ii) la cessione dell'azienda in esercizio, che quindi fuoriesce dal patrimonio del debitore, senza interruzione dell'attività (continuità c.d. indiretta mediante cessione d'azienda); ovvero

(iii) il conferimento dell'azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione (continuità c.d. indiretta mediante conferimento, destinata eventualmente anche ad attribuire al ceto creditorio quote o azioni della conferitaria).

Secondo una tesi oggi sempre più accreditata, lo spartiacque fra il concordato liquidatorio e quello in continuità deve, pertanto, essere individuato non nella soggettiva bensì nell'oggettiva prosecuzione del complesso produttivo, sia direttamente da parte dell'imprenditore, sia indirettamente da parte di un terzo (affittuario, cessionario, conferitario) (cfr. Trib. Bolzano 10 marzo 2015).

L'art. 186 bis stabilisce che il piano di concordato può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa. È invero sovente nella prassi imbattersi in proposte di concordato atipiche o con causa “mista” che prevedano il concorrere di due anime, l'una in continuità e l'altra liquidatoria, entrambi concorrenti alla soluzione della crisi d'impresa (cfr. Trib. Torre Annunziata 29 luglio 2016).

Orbene, la qualificazione della natura del concordato non è una questione meramente accademica, ma ha rilevanti effetti nella prassi, quali, a titolo di mero esempio, l'esclusione nel caso di concordato preventivo in continuità dell'obbligo della percentuale minima di pagamento dei creditori chirografari nella misura del venti per cento.

Le diverse nature del concordato preventivo: il criterio della “prevalenza” quale criterio discretivo tra concordato “liquidatorio” e in “continuità”

L'attuale disciplina dettata dalla legge fallimentare lascia irrisolti alcuni temi, il più rilevante dei quali è il criterio per stabilire se via sia un'effettiva continuità aziendale. Ciò in quanto la legge fallimentare stabilisce che nel concordato in continuità, sia diretta che indiretta, sia possibile prevedere la liquidazione di beni non strategici e, quindi, non funzionali all'attività d'impresa (c.d. concordato “misto”).

In altre parole, non viene chiarito a quali condizioni l'attività liquidatoria prevista all'interno del piano (e, inversamente, la rilevanza del complesso aziendale che prosegue l'attività) sia di tale portata da escludere un'effettiva continuità e imporre la qualificazione del concordato preventivo come liquidatorio, con le ricadute applicative che conseguono.

Tra queste si annoverano (i) il soddisfacimento minimo da assicurare ai creditori ai sensi dell'art. 160, comma 4, l.fall., (ii) la necessità di nomina di un liquidatore giudiziale ai sensi dell'art. 182 l. fall. e (iii) l'impossibilità di differire oltre l'anno dall'omologazione il pagamento dei creditori privilegiati, prevista invece per il concordato in continuità dall'art. 186 bis, comma 2, lett. c) l. fall.

La giurisprudenza ha elaborato diversi criteri qualificanti la natura della proposta concordataria al fine di individuare la disciplina applicabile nel caso di concordati c.d. “misti”.

Da registrare a detto proposito un orientamento, minoritario, secondo cui il semplice mantenimento in esercizio anche di un solo ramo d'azienda - per quanto essa sia ridotta rispetto al perimetro originario - è sufficiente a determinare l'integrale applicazione della disciplina prevista dall'art. 186 bis, assorbendo ciò ogni necessità di indagine comparativa circa la preminenza quantitativa della componente liquidatoria su quella riguardante la continuità dell'impresa (cfr. Trib. Massa, 29 settembre 2016, v. anche Trib. Busto Arsizio 1° ottobre 2014).

Un secondo orientamento, che aveva trovato maggior diffusione ma che ormai pare essere tramontato, era quello della c.d. “combinazione”, ai sensi del quale al concordato misto dovrebbe essere applicata la disciplina di volta in volta più confacente con la porzione di piano concordatario che viene in esame, a seconda della causa concreta perseguita dal debitore, con possibilità di applicazione congiunta delle due discipline ove non incompatibili secondo il criterio dell'integrazione (cfr. ex multis Trib. Roma 22 aprile 2015, v. Trib. Forlì, 24 dicembre 2014).

Secondo un terzo orientamento - ormai consolidato nella prassi giurisprudenziale - al fine di comprendere quale sia la disciplina applicabile è invece necessario analizzare in concreto quale delle due anime - liquidatoria o continuità - prevalga sull'altra (vedi, ex multis, Trib. Monza 25 ottobre 2017, Trib. Alessandria 18 gennaio 2016, Trib. Pistoia 29 ottobre 2015).

Due diverse visioni di fondo si sono affermate in ordine alla distinzione fra concordati in continuità in quest'ottica da quelli che invece non lo sono.

La prima si concentra sul momento del soddisfacimento dei creditori e ritiene la prevalenza in termini quantitativi, verificando se le risorse da destinare ai creditori provengano essenzialmente dalla liquidazione dei surplus asset, ovvero, dalla prosecuzione dell'attività e con essa dai flussi finanziari prodotti dalla continuità aziendale.

La seconda si concentra, invece, sull'azienda e intende la prevalenza in termini qualitativi o funzionali per cui, indipendentemente dalle modalità di soddisfacimento dei creditori, ove esista un'azienda vitale - e ciò non rechi pregiudizio alle ragioni dei creditori - il principio di conservazione dei valori economici impone la conservazione dell'impresa.

In questo contesto, la giurisprudenza deve tener conto del favor per la continuità aziendale espresso:

(i) dalla Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio, ai sensi della quale “la ristrutturazione dovrebbe consentire alle imprese in difficoltà finanziarie di continuare a operare, in tutto o in parte [...]” (v. Considerando n. 2) e “Qualora gli Stati membri scelgano di procedere a una valutazione del debitore in regime di continuità aziendale, il valore di continuità aziendale dovrebbe prendere in considerazione il valore a lungo termine dell'impresa del debitore, contrariamente al valore di liquidazione. Il valore di continuità aziendale è, di norma, superiore al valore di liquidazione, poiché si basa sull'ipotesi che l'impresa continua la sua attività con il minimo di perturbazioni, ha la fiducia dei creditori finanziari, degli azionisti e dei clienti, continua a generare reddito e limita l'impatto sui lavoratori” (v. Considerando n. 49);

(ii) dal D.lgs. del 14 febbraio 2019, n. 14 recante il Codice della Crisi e dell'Insolvenza (“CCII”), ed in particolare dal suo art. 84 che, come si vedrà infra al paragrafo 3, manifesta l'intento di incentivare la conservazione del valore aziendale, favorendo la prosecuzione dell'attività d'impresa e la salvaguardia dei livelli occupazionali.

La disciplina del concordato preventivo contenuta nell'art. 84 CCII. Analisi del cosiddetto criterio quantitativo attenuato

Il criterio della prevalenza quantitativa sembrerebbe, quanto meno a prima lettura, accolto dall'art. 84 comma 3 CCII, ai sensi del quale: “Nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta. La prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso […]”.

Analizzando la norma ci si accorge che il legislatore, utilizzando la parola “soddisfatti” anziché “pagati” al primo periodo del comma 3 dell'art. 84 CCII, lascerebbe intendere che vi possa essere un concordato in continuità aziendale anche nel caso in cui vi sia un soddisfacimento dei creditori diverso da quallo monetario, se tale soddisfacimento, complessivamente inteso, abbia un valore superiore rispetto a quello ricavato dalla liquidazione dei beni destinati alla vendita.

Il secondo periodo del comma 3 introduce una presunzione di continuità assoluta stabilendo che “La prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso”, e ciò a prescindere dalla quantità di ricavi prodotti dalla liquidizione di beni aziendali.

Ci si chiede dunque se, così facendo, il legislatore abbia subordinato le ragioni dei creditori a vedersi riconosciuta una percentuale di soddisfacimento almeno del 20% con l'interesse della salvaguardia dei posti di lavoro dell'azienda in crisi.

Infine, gli ultimi due periodi dell'art. 84 CCII stabiliscono che: “A ciascun creditore deve essere assicurata un'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile. Tale utilità può anche essere rappresentata dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa”.

Con tale ultimo periodo, il legislatore ha statuito che, al fine di stabilire la “prevalenza”, devono essere considerati all'interno del ricavato prodotto dalla continuità aziendale anche il valore dei rapporti contrattuali in essere che saranno conservati dall'impresa nell'arco del piano di concordato preventivo, e ciò al fine di salvaguardare il tessuto produttivo in cui l'impresa è inserita.

In detto contesto, si innesta l'introduzione della clausola occupazionale di cui all'art. 84, comma 2, CCII, che sta facendo sorgere agli addetti ai lavori alcuni dubbi interpretativi, tra cui quali possano esserele conseguenze della violazione di tale precetto, sia in capo al debitore sia in capo al terzo al quale il debitore abbia eventualmente trasferito l'azienda.

Ora, merita particolare attenzione la sintesi effettuata dal Tribunale di Milano tra il sistema vigente e quello del CCII mediante l'identificazione di un comune criterio distintivo tra continuità e liquidazione, espresso nei decreti del 28 novembre 2019 e del 13 febbraio 2020 che verranno analizzati nel successivo paragrafo, individuato nel c.d. “criterio quantitativo attenuato”.

Il Tribunale meneghino ha definito il principio stabilito dal CCII per determinare la qualificazione giuridica del concordato preventivo come criterio di prevalenza “quantitativa attenuta”. Sebbene, infatti, il CCII consideri come discrimine quello della prevalenza dei ricavi prodotti dalla continuità rispetto a quelli prodotti dalla liquidazione dei beni non strumentali alla prosecuzione dell'attività, dall'altro lato amplia lo spettro di voci di cui è necessario tener conto all'interno del ricavato prodotto dalla continuità aziendale, facendovi rientrare i rapporti contrattuali che proseguiranno o verranno rinnovati nell'arco del periodo di piano nonché il mantenimento dei posti di lavoro.

Il CCII sembrerebbe quindi incentivare, mitigando il principio della prevalenza quantitativa, il ricorso allo strumento del concordato preventivo in continuità aziendale, e ciò al fine di salvaguardare i livelli occupazionali ed il tessuto produttivo all'interno del quale opera la società in crisi.

E ciò al precipuo fine di salvaguardare al meglio le attività produttive nonché le finanze pubbliche (vedi il risparmio sugli ammortizzatori sociali che si otterrebbe mediante un concordato preventivo in continuità che preveda il mantenimento dei livelli occupazionali previsti dall'art. 84, comma 3, CCII rispetto ad un fallimento).

In questo senso, si pensi quali pregiudizi potrebbe comportare il fallimento della società capo-filiera sulle realtà ad essa subordinate. Questi effetti negativi potrebbero essere evitati, per esempio, valorizzando i rapporti contrattuali che proseguono tra le società operanti nella filiera produttiva all'interno del ricavato della continuità aziendale.

I criteri di soddisfacimento dei creditori all'interno del CCII

L'attuale formulazione dell'art. 160, comma 2, l. fall. dispone che la proposta di concordato preventivo possa “prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purchè il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'art. 67, comma 3, lettera d)”.

L'art. 160, comma 2, l. fall. riconosce pertanto ai creditori titolari di privilegio, pegno o ipoteca, il diritto di ottenere una soddisfazione almeno pari a quella realizzabile nell'alternitiva liquidatoria, mentre impone al debitore l'obbligo di garantire a tali creditori tale soddisfazione minima, pena l'inamissibilità della proposta.

Tale disposizone stabilisce al tempo stesso (i) la soddisfazione minima spettante ai creditori vantanti un privilegio, sia speciale che generale e, di riflesso, (ii) il surplus che il debitore può distribuire liberamente tra i creditori.

In generale, una proposta di concordato preventivo, per essere considerata ammissibile, deve prevedere:

- per i titolari di garanzia reale o privilegio speciale, una soddisfazione pari a quella realizzabile dalla liquidazione dei beni su cui vantano tale diritto;

- per i titolari di privilegio generale mobiliare, invece, una soddisfazione pari a quella ricavabile dalla liquidazione dell'intero patrimonio mobiliare e, in via sussidiaria, immobiliare del debitore;

- per i creditori chirografari, infine, una soddisfazione pari a quella realizzabile dal patrimonio esistente, al netto degli importi spettanti ai creditori privilegiati speciali e generali.

Tuttavia, ciò non esclude che i creditori chirografari possano essere soddisfatti pur in presenza di beni oggetto del privilegio generale, che risultino insufficienti ad assicurare il soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati. Ciò accadrà ove essi abbiano la possibilità di concorrere su beni immobili oppure in presenza della c.d. finanza esterna, così come definita secondo l'orientamento consolidato della Corte di Cassazione (cfr. ex multis, le sentenze n. 9373 dell'8 giugno 2012 e n. 10884 dell'8 giugno 2020), secondo cui si è in presenza di finanza “esterna” allorquando “l'apporto del terzo risulti neutrale rispetto allo stato patrimoniale della società, non comportanto né un incremento dell'attivo patrimoniale della società debitrice, sul quale i crediti privilegiati dovrebbero in ogni caso essere collocati secondo il loro grado, né un aggravio del passivo della medesima, con il riconoscimento di ragioni di credito a favore del terzo, indipendentemente dalla circostanza che tale credito sia stato postergato o no”.

Dello stesso tenore dell'art. 160, comma 2, l. fall., è l'art. 180, comma 4, l. fall. che prevede che, in caso di contestazioni in merito alla convenienza della proposta in sede di omologa, il tribunale possa comunque “omologare il concordato qualora ritenga che il credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili”.

A tale principio generale, la legge fallimentare ne affianca uno particolare applicabile esclusivamente all'ipotesi di concordato liquidatorio, ovvero la soddisfazione minina dei creditori chirografari nella misura del venti per cento del valore nominale del credito.

Nel CCII vengono mantenuti il criterio generale e quello particolare sopra indicati, a cui si aggiunge, ai sensi dell'art. 84, comma 4, CCII, un'ulteriore requisito per i concordati preventivi liquidatori, ovvero che “l'apporto di risorse esterne deve incrementare di almeno il dieci per cento, rispetto all'alternativa della liquidazione giudiziale, il soddisfacimento dei creditori chirografari”.

Nell'intenzione del legislatore, tale maggior apporto dovrebbe compensare i minori ricavi conseguibili in una procedura di concordato preventivo rispetto alla liquidazione giudiziale, rinvenibili, ad esempio, dall'esperimento di azioni revocatorie.

Tale disposizione non impone, tuttavia, la cessione integrale del patrimonio del debitore, ma dispone il conferimento alla massa dei creditori dell'intero valore dell'attivo patrimoniale al momento della domanda, con l'aggiunta di risorse esterne atte ad incrementare la soddisfazione dei creditori chirografari rispetto all'alternativa della liquidazione giudiziale.

Nella nozione di risorse esterne, come si evince dall'orientamento della Cassazione sopra citato, rientra ogni utilità che non sia già ricompresa nel patrimonio del debitore al momento della domanda, o sia da esso ricavabile. Tali risorse esterne potrebbero derivare, a titolo esemplicifativo, da apporti a fondo perduto, o dalla rinuncia o dalla postergazione volontaria del proprio credito da parte di uno o più creditori.

In conclusione, ai fini della verifica dell'ammissibilità della proposta, nel CCII permane la necessità di un confronto tra il concordato preventivo e le soluzioni alternative concretamente praticabili.

Per tutti i creditori che vantino un privilegio, che sia speciale o generale, le disposizioni previste nel CCII non comportano alcuna modifica rispetto a quanto previsto nell'attuale legge fallimentare, mentre per i creditori chirografari, alla percentuale di soddisfacimento minima del venti per cento, si aggiunge l'apporto di risorse esterne nella misura prevista dall'art. 84, comma 4, CCII, che deve consentire un miglior soddisfacimento di tali creditori, non più rispetto al generico parametro della liquidazione, ma rispetto alla specifica procedura della liquidazione giudiziale.

Alcuni casi pratici che anticipano l'applicazione dei criteri stabiliti dal CCII

Come anticipato, il Tribunale di Milano ha dato ampia e motivata applicazione “anticipata” al nuovo art. 84 CCII, mediante due decreti (uno del 28 novembre 2019 e l'altro del 13 febbraio 2020) che presentano numerosi punti in comune.

Il Tribunale meneghino, infatti, nonostante le vigenza dell'attuale legge fallimentare, doveva decidere in entrambi i casi in merito alla qualificazione come concordato in continuità di un piano che, pur prevedendo la continuità e il mantenimento della forza lavoro nella misura minima per i primi due anni di attuazione prevista dall'art. 84, comma 3, CCII, ad avviso dei Commissari Giudiziali prevedeva la prevalenza dei ricavi derivanti dalla liquidazione di beni non strumentali alla prosecuzione dell'attività aziendale rispetto ai flussi derivanti dall'esecuzione del piano industriale.

Nella vigenza del CCII, che - si ricorda – dovrebbe entrare in vigore solo il prossimo 16 maggio 2022, tale fattispecie rientrerebbe nella presunzione iuris et de jure di continuità aziendale conseguente al mantenimento della forza lavoro, sufficiente di per sé ad escludere la natura liquidatoria del concordato preventivo anche in caso di soddisfazione dei creditori in prevalenza con il ricavato dalla dismissione di beni aziendali.

Il Tribunale di Milano ha verificato la fattispecie anche sotto il profilo dell'utilità specificamente individuata per ciascun creditore, che, ai sensi del comma 3, ultimo periodo, dell'art. 84 CCII, può essere rappresentata anche “dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa”, affermando che “il Codice della Crisi ha adottato un criterio di prevalenza che potrebbe definirsi “quantitativa attenuata” che se concentra, da una parte, il proprio orizzonte sulle modalità di creazione delle risorse da destinare ai creditori (liquidazione o ricavi della continuità) dovendo sempre “i ricavi attesi” essere superiori ai valori della liquidazione, dall'altra parte, amplia l'area semantica del “ricavato prodotto dalla continuità”, facendovi rientrare il magazzino, nonché i rapporti contrattuali già in essere o già risolti nel passato, ma che proseguiranno o verranno rinnovati e, infine, i rapporti di lavoro”.

In entrambe le fattispecie esaminate il Tribunale di Milano ha ammesso la domanda delle concordatarie, considerando ad ogni effetto il concordato proposto in continuità anche a seguito della verifica che i ricavi attesi dalla continuità nell'arco di piano derivassero da un'attività d'impresa alla quale fossero addetti un numero di dipendenti superiori alla metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso ex art. 161, comma 6, l.fall.

Nel decreto del 13 febbraio 2020 il Tribunale di Milano si è altresì soffermato sulla sentenza, apparentemente in contrasto con l'indirizzo seguito in tale decreto, della Corte di Cassazione n. 734 del 15 gennaio 2020, in cui la Suprema Corte si era pronunciata in merito all'applicazione dell'art. 186 bis l. fall. ad un piano che prevedeva una limitatissima prosecuzione dell'attività finalizzata al completamento della costruzione di immobili già oggetto di preliminari di vendita. La questione da dirimere consistenva nel decidere se si trattasse di un concordato in continuità o liquidatorio, con previsione di una sorta di “esercizio provvisorio” per un tempo limitato e in funzione della successiva liquidazione.

In particolare, con tale sentenza la Corte di Cassazione ha affrontato organicamente il tema della qualificazione giuridica di un concordato che abbia un contenuto sia liquidatorio sia di continuità, ossia un c.d. concordato “misto”, adottando una decisione non condivisa appieno dal Tribunale di Milano, per l'evidente possibilità di abusi che una tale interpretazione potrebbe generare.

La Corte di Cassazione ha infatti stabilito con tale sentenza che non esiste tout court la categoria del concordato c.d. “misto” e che pertanto, ogni qual volta in un concordato (i) residuino dei beni sottratti alla liquidazione organizzati in funzione della continuazione dell'attività in qualsiasi percentuale e (ii) sussista una dichiarazione attestante la migliore soddisfazione per i creditori rispetto all'alternativa fallimentare, anche in misura poco rilevante, il concordato preventivo dev'essere sempre qualificato come in continuità, salvi i casi di abuso.

Sul punto, i Giudici del Tribunale di Milano si sono così espressi: “il best interest per i creditori che è certamente la condizione di liceità della procedura in continuità, in casi di continuazione minima diviene difficilmente argomentabile e soprattutto fortemente opinabile, cosicché il tutto resta legato alla capacità argomentativa dell'attestatore e soprattutto ad una sorta di fideistica accettazione del suo elaborato, il che in definitiva vuol dire che pesa sulle spalle spesso inesperte e mal informate dei creditori l'autonomia del giudizio, che spesso sarà riscontrabile solo ex post…” e, pertanto, hanno ritenuto “maggiormente rispondente alla evoluzione che il diritto sta subendo, in forza della vicinissima entrata in vigore del CCI, adottare una soluzione che sia in sintonia coll'art. 84 del medesimo”.

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