"Spazzacorrotti": mancata sospensione dell'ordine di esecuzione e diritto all'equa riparazione per ingiusta detenzione

13 Aprile 2022

Ammesso il ricorso per equa riparazione dell'ingiusta detenzione anche nel caso di mancata sospensione dell'ordine di carcerazione emesso per reati commessi o accertati prima dell'entrata in vigore della l. 9 gennaio 2019, n. 3 (cd. “spazzacorrotti”).
Massima

Tra i casi in cui, in applicazione della sentenza n. 310/1996 della Corte costituzionale, si è riconosciuta la sussistenza del diritto alla equa riparazione anche nel caso di detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., e violazione dell'art. 5 della Convenzione EDU che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta, rientra anche, naturalmente ove ricorrano le condizioni di cui agli artt. 314 e 315 c.p.p., l'ipotesi di mancata sospensione della esecuzione della pena detentiva, pari o superiore a tre anni di reclusione, inflitta per fatto commesso e con accertamento avvenuto prima dell'entrata in vigore della l. 9 gennaio 2019, n. 3 (recante "Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici"), il cui art. 1 comma 6 lett. b) è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32/2020 in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all'art. 4-bis comma 1 l. 26 luglio 1975, n. 354, (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 3/2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della l. n. 354/1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 c.p. e del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione previsto dall'art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p.).

Il caso

Con sentenza del 7 luglio 2014, il Tribunale di Salerno ha condannato l'imputato, per il reato di peculato, alla pena di anni tre di reclusione; pena confermata dalla Corte d'appello di Salerno con sentenza divenuta irrevocabile in data 11 luglio 2017.

In data 19 luglio 2017, il Pubblico Ministero emetteva l'ordine di esecuzione, contestualmente sospeso ex art. 656, comma 5 c.p.p., a seguito del quale l'imputato presentava tempestiva istanza di affidamento in prova al servizio sociale o di detenzione domiciliare.

Nelle more tra l'udienza fissata davanti al Tribunale di sorveglianza, svoltasi in data 20 marzo 2019, e la relativa ordinanza, emessa a seguito di scioglimento di riserva, depositata in data 25 marzo 2020, era entrata in vigore, in data 1° gennaio 2020, la legge n. 3/2019, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”).

Secondo il Tribunale di sorveglianza, il reato commesso, rientrando ora nell'elenco, di cui all'art. 4-bis ord. penit., dei reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari, e in assenza di specifica allegazione, da parte del condannato, di situazioni in deroga previste dagli artt. 58-ter ord. penit. o 323-bis comma 2 c.p., quali la collaborazione con la giustizia - attraverso previa instaurazione del relativo procedimento - rigettava l'istanza, sul presupposto che tali norme, in quanto relative alle sole modalità di esecuzione della pena dovessero trovare immediata applicazione anche ai fatti e alle condanne pregresse all'entrata in vigore della novella legislativa, secondo il principio tempus regit actum.

Pertanto, il giorno seguente, il p.m. revocava il decreto di sospensione dell'ordine di esecuzione già emesso e il condannato entrava in carcere per l'espiazione della pena, dove vi restava per 111 giorni (ovvero sino al 10 luglio 2020, data di emissione del provvedimento della concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale – dep. 15 luglio 2020 - emesso a seguito di istanza ex art. 58-ter ord. penit.).

Con ordinanza del 3 febbraio 2021,oggetto di ricorso per cassazione, la Corte d'appello di Salerno, ha rigettato la richiesta di riparazione, ex art. 314 c.p.p., per tale ingiusta detenzione.

Come si legge nella sentenza in commento, a fronte di corposa ed argomentata istanza ex art. 314 c.p.p., la motivazione dell'ordinanza impugnata si sostanzia nei seguenti passaggi argomentativi:

  • l'errata interpretazione della norma costituzionalmente illegittima (art. 1, comma 6, lett. b) l. n. 3/2019) avrebbe determinato solo la scelta di una delle modalità di esecuzione della pena, che però è pur sempre rimasta collegata ad un titolo di esecuzione valido e legittimo poiché fondato sulla sentenza di condanna a tre anni di reclusione;
  • è stato ritenuto applicabile in via analogica alla situazione in esame il meccanismo di cui all'art. 314, comma 4 c.p.p., e, dunque, corretto, ad avviso della Corte di appello, il già avvenuto "scomputo" dalla durata della pena da espiarsi in affidamento in prova il periodo presofferto in carcere, calcolato dal 26 marzo 2020 al 10 luglio 2020, dovendosi anzi - è stato comunicato dalla Corte di appello al Tribunale di sorveglianza - detrarre gli altri cinque giorni intercorrenti tra l'assunzione della riserva (10 luglio 2020) e lo scioglimento della stessa (15 luglio 2020, giorno della scarcerazione); con la precisazione che diversamente opinando, il condannato «riceverebbe, per la stessa situazione, un doppio beneficio giuridico in quanto quel periodo gli è già stato sottratto dal computo della pena residua da espiare, ed economico perché sarebbe pure indennizzato».

Il ricorso della difesa, affidato a due articolati motivi, ha lamentato, in estrema sintesi, violazione di legge con riferimento a:

  • Violazione ed erronea applicazione degli artt. 314 e 125 comma 3 c.p.p., per avere il provvedimento impugnato negato l'accesso alla disciplina della riparazione per ingiusta detenzione, ponendosi in contrasto con i principi espressi dalla Corte costituzionale n. 310/1996, che ha esteso il diritto all'equa riparazione anche alla “detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione”. L'imputato era stato, infatti, condannato a pena “eseguibile fuori dal carcere”, sia con riguardo alla data del fatto commesso (2005-2011), sia a quello in cui è stata applicata la pena (7 luglio 2014), sia a quello in cui è divenuta definitiva la sentenza (11 luglio 2017), sia a quello in cui è stato emesso e contestualmente sospeso l'ordine di esecuzione (19 luglio 2017), sia a quello in cui è stata avanzata istanza di misura alternativa (7-11 settembre 2017). L'ordine di esecuzione che aveva determinato la carcerazione doveva considerarsi erroneamente emesso specie a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32/2020 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 comma 6 lett. b) l. 9 gennaio 2019, n. 3, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all'art. 4-bis, comma 1 l. 26 luglio 1975, n. 354, (“Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3/2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, l. n. 354/1975, alla liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 C.p. e del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione previsto dall'art. 656, comma 9, lett. a) c.p.p. L'effetto di tale pronuncia si sarebbe inevitabilmente dovuto ripercuotere sul provvedimento del Pubblico Ministero del 26 marzo 2020 di revoca del decreto di sospensione dell'ordine di esecuzione e ripristino dell'ordine medesimo, essendovi il p.m., quale organo promotore dell'esecuzione, tenuto.

Secondo la difesa, nel momento in cui è stata acclarata la natura sostanziale di vere e proprie pene alternative alla detenzione dell'affidamento in prova ai servizi sociali e della detenzione domiciliare, l'unica opzione "interpretativa" consentita, nel caso di specie, al Tribunale di sorveglianza di Salerno, che ebbe ad affrontare la richiesta ex art. 47 ord. penit., sarebbe stata quella di scegliere, in ossequio al principio del favor libertatis, per l'inapplicabilità della novella legislativa ai fatti posti in essere antecedentemente la sua entrata in vigore: invece, l'opzione fatta propria dal Tribunale di sorveglianza ha violato il divieto di analogia in malam partem in materia di sanzioni penali e, quindi, gli artt. 12 e 14 preleggi, artt. 1 e 199 c.p. e artt. 24,25 e 112 Cost., prima ancora dell'accertamento da parte della Consulta del contrasto della l. n. 3/2019 con l'art. 25 Cost. (Corte cost. n. 32/2020).

  • Violazione degli artt. 314 comma 4 c.p.p. e 657 c.p.p. per avere - il provvedimento impugnato - ravvisato in maniera errata l'avvenuta declaratoria di fungibilità della pena e, dunque, il verificarsi della causa di esclusione ex lege (art. 314 comma 4 c.p.p.) dell'indennizzo successivamente richiesto nella individuazione da parte del Tribunale di sorveglianza del termine di scadenza della pena. Secondo la richiamata Giurisprudenza: «Nel procedere alla revoca della misura dell'affidamento in prova al servizio sociale, il tribunale di sorveglianza è competente a stabilire la quantità di pena da ritenersi espiata per effetto del tempo trascorso in regime di affidamento in prova, ossia il "presofferto", ma non può indicare la data nella quale il condannato deve essere rimesso in libertà per avere espiato l'intera pena, in quanto la determinazione della pena ancora da espiare spetta al pubblico ministero, il quale deve provvedere al cumulo di altri eventuali titoli di esecuzione sopraggiunti, ovvero spetta al giudice, in sede di incidente di esecuzione» (Cass. pen., sez. I, n. 9287/2006, p.m. in proc. Mazzotta, Rv. 236234).

Ad avviso del ricorrente, nel caso di specie non si sarebbe avverata la condizione prevista dall'art. 314 c.p.p., comma 4, non essendo stato adottato un provvedimento dichiarativo della fungibilità da parte del Pubblico Ministero, né potendosi considerare tale la determinazione della pena ancora da espiare effettuata dal Tribunale di sorveglianza in luogo del p.m.

Il Procuratore Generale e l'Avvocatura dello Stato, nelle rispettive requisitoria e memoria scritte, hanno chiesto il rigetto del ricorso.

La Corte di cassazione, prendendo le mosse dalla fondamentale sentenza della Corte cost. n. 310/1996, con cui è stato riconosciuto la sussistenza del diritto alla equa riparazione anche nel caso di detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione, ha accolto il ricorso, annullando con rinvio l'ordinanza impugnata.

La questione

La questione affrontata riguarda l'individuazione dei presupposti per il riconoscimento del diritto all'equa riparazione nei casi di emissione di erroneo ordine di esecuzione, relativamente ai quali la sentenza n. 310/1996 della Corte costituzionale non si è pronunciata, rimettendo all'interprete il relativo compito (cfr. Cass. pen., sez. IV, n. 25092/2021, Iorio, Rv. 281735 citata, che ricostruisce puntualmente - sub nn. 3-5 del "considerato in diritto" - l'evoluzione della giurisprudenza di legittimità successiva al richiamato intervento della Consulta).

Le soluzioni giuridiche

Per dare risposta alla questione, la Corte di cassazione ha, previamente, ripercorso le statuizioni delle sentenze di legittimità più significative in materia, in parte richiamate anche dal ricorrente, secondo le quali:

  • «In tema di ingiusta detenzione, il diritto alla riparazione è configurabile anche ove l'ingiusta detenzione patita derivi da vicende successive alla condanna, connesse all'esecuzione della pena, purché sussista un errore dell'autorità procedente e non ricorra un comportamento doloso o gravemente colposo dell'interessato che sia stato concausa dell'errore o del ritardo nell'emissione del nuovo ordine di esecuzione recante la corretta data del fine dell'espiazione della pena» (Cass. pen., sez. IV, n. 57203/2017, ric. P.G. in proc. Paraschiva e altro, Rv. 271689).
  • «Il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione è configurabile anche ove quest'ultima derivi dall'illegittimità, originaria o sopravvenuta, dell'ordine di esecuzione, sempre che la stessa non dipenda da un comportamento doloso o colposo del condannato» (Cass. pen., sez. IV, n. 1718/2021, ric. Marinkovic, Rv. 281151, nella cui motivazione si legge: «La sentenza n. 57203/2017 cit. ha chiarito l'ampia portata della sentenza n. 310/1996 della Corte costituzionale, evidenziando il rilievo ai fini del riconoscimento del diritto previsto dall'art. 314 c.p.p. a tutte le ipotesi di detenzione illegittimamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione e la distinzione tra pena definita da pronuncia irrevocabile e pena definitiva, dovendosi intendere per tale - alla luce dell'ampio spazio lasciato agli interventi del giudice dell'esecuzione e della magistratura di sorveglianza - solo quella determinata all'esito della complessiva gestione giudiziale del trattamento sanzionatorio. Essa, inoltre, ha effettuato un'ampia ricognizione della casistica delle pronunzie della Corte Europea dei diritti dell'uomo in tema di detenzione ingiusta - soprattutto in tema di liberazione anticipata- tutte convergenti nel senso della più ampia tutela in caso di ingiusta detenzione per errore nella fase dell'esecuzione della pena»).

Il problema verificatosi nel caso di specie, ha tratto origine dalla mancanza di una normativa transitoria delle modifiche introdotte dalla l. n. 3/2019 (cd. “Spazzacorrotti”) all'art. 4-bis comma 1 l. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), cui ha posto rimedio la Consulta con la sentenza interpretativa di accoglimento n. 32/2020, dichiarando la illegittimità costituzionale della interpretazione retroattiva delle limitazioni alle misure alternative alla detenzione introdotte.

Secondo la citata pronuncia «il carattere deteriore della disciplina sopravvenuta non può, infatti, che essere condotta secondo criteri di rilevante probabilità: e ciò con riferimento tanto ai benefici accessibili per il condannato sulla base della disciplina previgente, quanto alle conseguenze deteriori che derivano dall'entrata in vigore della nuova disciplina». Di fatto, i condannati per reati contro la pubblica amministrazione, secondo la disciplina previgente, avrebbero potuto contare di accedere, con elevata probabilità, a misure alternative alla detenzione - laddove i relativi limiti di pena da scontare o i requisiti anagrafici lo avessero permesso – mentre la normativa sopravvenuta «rende significativamente meno probabile la concessione degli stessi, anche in considerazione delle incertezze, ancora non affrontate dalla giurisprudenza, sulla precisa estensione dell'obbligo collaborativo in capo ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione (...)».

Evidenzia, poi, la Corte di cassazione come le sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale esplichino efficacia retroattiva, essendosi riconosciuto che, in forza del combinato disposto di cui all'art. 136 Cost. e all'art. 30, comma 3 l. 11 marzo 1953, n. 87, (recante "Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale"), le ricadute di una declaratoria di illegittimità travolgono tanto i rapporti futuri quanto quelli passati o, meglio, pendenti. Pertanto, se in forza della disposizione costituzionale di cui all'art. 136 Cost., la norma dichiarata illegittima non è più valida né efficace e, dunque, a causa del vizio da cui risulta affetta, cessa di appartenere all'ordinamento, per effetto dell'art. 30 comma 3 l. n. 87/1953, di essa non può farsi applicazione. Ne è conseguito il riconoscimento della retroattività alla declaratoria di incostituzionalità, ad eccezione dei soli rapporti esauriti, quelli cioè ormai risolti in via definitiva e stabile, e, pur con un'eccezione in materia penale in forza del favor rei, sia i rapporti ancora pendenti sia quelli futuri vengono irrimediabilmente travolti dall'accertamento dell'illegittimità.

Dopo aver, quindi, ricordato alcuni principi espressi dalle Sezioni Unite in materia (Cass. pen. sez. un., n. 7232/1984, Cunsolo, Rv. 165563 - fattispecie relativa alla dichiarata illegittimità costituzionale dell'art. 513 c.p.p., con sent. C. Cost. n. 224/83, nella parte in cui escludeva il diritto dell'imputato a proporre appello avverso la sentenza di proscioglimento per amnistia; Cass. pen., sez. un., n. 3/1998, Budini ed altri, Rv. 210258; Cass. pen., sez. un., n. 27614/2007, P.C. in proc Lista, Rv. 236535), gli stessi vengono ritenuti validi anche nei casi in cui la Corte costituzionale, come avvenuto con la sentenza n. 32/2020, adotti una sentenza interpretativa di accoglimento, poiché, quanto agli effetti, ogni interpretazione difforme da quella fatta propria dal Giudice delle leggi è da ritenersi costituzionalmente illegittima.

La Corte di cassazione, stante le premesse e convenendo con l'impostazione del ricorrente, ha ritenuto, pertanto, che il Tribunale di sorveglianza, prima, e la Corte di appello, poi, abbiano gravemente errato nel ritenere immediatamente applicabile una disciplina che, invece, già alla luce del chiaro portato delle preleggi (essendo preclusa l'applicazione analogica in malam partem) e del pacifico principio di irretroattività in peius in materia penale, avrebbe dovuto operare esclusivamente per il futuro.

Al fine di sconfessare, poi, l'equiparazione, cui accenna la Corte di appello di Salerno nell'ordinanza impugnata, tra modalità di esecuzione della pena (da un lato, la detenzione in carcere; dall'altro, l'affidamento ai servizi sociali) la cui concreta afflittività per il destinatario è vistosamente differente, la Corte di cassazione riporta l'inequivoco principio enunciato anche nel "comunicato stampa" ufficiale della Corte costituzionale del 26 febbraio 2020, relativo alla sentenza n. 32/2020, secondo il quale «Se al momento del reato è prevista una pena che può essere scontata "fuori" dal carcere ma una legge successiva la trasforma in una pena da eseguire "dentro" il carcere, quella legge non può avere effetto retroattivo. Tra il "fuori" e il "dentro" vi è infatti una differenza radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa, perché è profondamente diversa l'incidenza della pena sulla libertà personale».

La Corte conclude ritenendo che la situazione verificatasi nel caso di specie debba rientrare nell'ipotesi contemplata dalla sentenza della Consulta n. 310/1996, con cui è stata riconosciuta la sussistenza dei diritto alla equa riparazione anche nel caso di detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., e violazione dell'art. 5 della Convenzione EDU, che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste, senza distinzione di sorta.

A seguito dell'annullamento della ordinanza impugnata, la Corte d'appello di Salerno dovrà, pertanto, attenersi al principio indicato in “massima”, tenendo, altresì, conto come espressamente precisato dalla Corte costituzionale nella motivazione della sentenza n. 32/2020, che nell'assetto normativo antecedente alla l. n. 3/2019 esisteva una legittima aspettativa da parte dei condannati per reati contro la pubblica amministrazione, come il ricorrente, di poter accedere, con rilevante probabilità, sulla base della disciplina vigente sia al momento del fatto sia al momento della condanna sia al momento della sospensione dell'ordine di esecuzione, a misure alternative alla pena detentiva, e che tale aspettativa è stata illegittimamente frustrata nella vicenda in esame.

La Corte di appello dovrà anche valutare l'eventuale sussistenza di un comportamento doloso o gravemente colposo nell'interessato (cfr. Cass. pen., sez. IV, n. 25092/2021, Iorio, cit.; Cass. pen., sez. IV, n. 17118/2021, Marinkovic, cit.; Cass. pen., sez. IV, n. 57203/2017, P.G. in proc. Paraschiva e altro, cit.).

Osservazioni

La pronuncia in esame riveste particolare interesse in quanto interviene a seguito della sentenza della Consulta n. 32/2020, facendo buon governo dei principi ivi espressi.

All'indomani di tale sentenza, ci si era chiesti, infatti, cosa sarebbe accaduto alle istanze di riparazione per ingiusta detenzione avanzate dai detenuti che, a causa della illegittima disciplina non avessero potuto attendere da “liberi sospesi” la decisione del tribunale di sorveglianza sull'eventuale applicazione in loro favore di misure alternative al carcere (cfr. Spazzacorrotti: la Consulta si esprime sulla natura delle norme attinenti la fase esecutiva della pena, in ilpenalista.it, 9 marzo 2020).

La Cassazione risponde esaustivamente al quesito, arricchendo il quadro interpretativo successivo alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 310/1996, in materia di riparazione per ingiusta detenzione, patita a seguito di ordine di carcerazione illegittimo.

Come evidenziato in motivazione, infatti, la Corte Costituzionale ha rimesso all'interprete la individuazione dei presupposti per l'individuazione, di volta in volta, dei presupposti per il riconoscimento del diritto all'equa riparazione nei casi di emissione di erroneo ordine di esecuzione, di cui alla questione affrontata.

Già le sentenze Cass. pen., sez. IV, n. 57203/2017 e Cass. pen., sez. IV, n. 25092/2021, richiamate, hanno effettuato un'ampia ricognizione della casistica in cui l'ordine di esecuzione è stato riconosciuto illegittimo - o divenuto tale successivamente - per fattori non ascrivibili a comportamento doloso o colposo del condannato. E' stato riconosciuto il diritto alla riparazione:

  • a chi abbia patito una pena per la quale era stato legittimamente emesso l'ordine di esecuzione ma che, a causa del lungo arco temporale intercorso tra l'emissione del titolo e la sua esecuzione, si era poi estinta ex art. 172 c.p., senza che rilevasse l'assenza di un'espressa declaratoria di estinzione della pena (Nel caso di specie l'ordine di carcerazione era stato emesso nell'anno 2003 ed era stato del tutto legittimo; ma la sua concreta esecuzione era sopraggiunta solo nel 2013, dopo che la pena si era estinta per decorso del tempo, anche se non formalmente dichiarata. Cass. pen., sez. IV, n. 45247/2015, Myteveli, Rv. 264895; in tema si segnala la recente sentenza Cass. pen., sez. un., n. 46387/2021, p.m. Scott Uhuwamango, secondo la quale la pena si estingue, ex art. 172 c.p. per il decorso del termine di dieci anni dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna, senza che la notifica dell'ordine di esecuzione e del contestuale decreto di sospensione dell'esecuzione, nonchè la mancata formulazione di istanza di misura alternativa alla detenzione nel termine previsto dalla legge possano incidere sul decorso del termine stabilito dall'art. 172 comma 1 c.p.);
  • a colui che aveva patito una pena che era stata computata nell'ordine di esecuzione nonostante fosse estinta per indulto, e ciò anche se il giudice dell'esecuzione non l'aveva ancora applicato (Cass. pen., sez. IV, n. 30492/2014, Riva, Rv. 262240);
  • a colui che aveva subito un periodo di detenzione eccedente a quello risultante dall'applicazione della liberazione anticipata, in conseguenza di un ordine di esecuzione non ancora aggiornato al nuovo fine pena (Cass. pen., sez. IV, n. 18542/2014, Truzzi, Rv. 259210);
  • a colui che era stato scarcerato con oltre un mese di ritardo per la tardiva comunicazione al collegio procedente per la rideterminazione della pena dell'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza che aveva concesso quarantacinque giorni di riduzione della pena per liberazione anticipata. (Cass. pen., sez. IV, n. 47993/2016, Pittau, Rv. 268617);
  • a colui che aveva espiato una pena di durata superiore a quella che avrebbe dovuto scontare che, per effetto della riconosciuta liberazione anticipata, era rimasta sine titulo (Cedu, sentenza 24 marzo 2015, Messina c. Italia, causa n. 39824/07).

Ora, anche la mancata sospensione della esecuzione della pena detentiva, pari o superiore a tre anni di reclusione, inflitta per fatto commesso e con accertamento avvenuto prima dell'entrata in vigore della l. 9 gennaio 2019, n. 3, potrà dare diritto, nel rispetto dei presupposti richiesti dagli artt. 314 e 315 c.p.p. all'equa riparazione per ingiusta detenzione.

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