Mobbing, bossing, demansionamento e atti persecutori nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione

19 Aprile 2022

Due recentissime pronunce della Corte di Cassazione, rispettivamente della sezione lavoro e della quinta sezione penale, intervengono nuovamente sul tema delle condotte ostili e vessatorie sul posto di lavoro...
Premessa

Due recentissime pronunce della Corte di Cassazione, rispettivamente della sezione lavoro e della quinta sezione penale, intervengono nuovamente sul tema delle condotte ostili e vessatorie sul posto di lavoro, a testimonianza del fatto che si tratta di fenomeni non solo – e purtroppo – molto frequenti negli ambienti lavorativi ma anche controversi sul piano giuridico.

Come noto, la cronica assenza di un intervento legislativo in materia – nonostante diversi disegni di legge siano tutt'oggi pendenti in Parlamento (1) – non è stata di ostacolo all'evoluzione del diritto vivente, che ha dato vita a specifiche ed autonome fattispecie regolanti da almeno due decenni la materia in questione.

Sarà dunque il caso, prima di esaminare le due pronunce, riprendere brevemente i fili di questo articolato percorso giurisprudenziale.

Le condotte persecutorie sul posto di lavoro: mobbing, bossing, bullying, straining, stalking occupazionale.

E' opportuno precisare sin d'ora come il cammino della giurisprudenza nella disciplina e nel contrasto dei fenomeni persecutori sui luoghi di lavoro abbia seguito il percorso tracciato dalle scienze psicologiche, che tra la fine degli anni novanta e l'inizio del nuovo millennio hanno contribuito ad identificare le categorie e a definire le modalità di accertamento delle condotte lavorative ostili (2).

Nei limiti del presente contributo, si possono distinguere nella giurisprudenza intervenuta negli ultimi due decenni le seguenti fattispecie di persecuzioni lavorative, enucleate attraverso un'opera di “elaborazione creativa” dell'art. 2087 c.c.:

- mobbing

- bossing

- bullying

- straining

- stalking occupazionale.

Si tratta peraltro di fattispecie caratterizzate da un denominatore comune: la sussistenza di una volontà, di una intenzionalità persecutoria diretta nei confronti della vittima delle condotte; esaminiamole partitamente.

Mobbing (3)

Viene identificato nella condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (ex plurimis, Cass. 4 giugno 2015, n. 11547; Cass. 6 agosto 2014 n. 17698; Cass. 17 febbraio 2009, n. 3785; Cass. 9 settembre 2008, n. 22893; Cass. 6 marzo 2006, n. 4774).

In particolare, la fattispecie giurisprudenziale del mobbing è composta dai seguenti quattro elementi fondamentali (ex multis, Cass. 2 dicembre 2021, n. 38123; Cass., ord., 4 marzo 2021, n. 6079; Cass., ord. 29 dicembre 2020, n. 29767; Cass., ord. 11 dicembre 2019, n. 32381):

a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, Corte Cost. 19 dicembre 2003, n. 359; Cass. 12 dicembre 2018, n. 32151; Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 24 novembre 2016, n. 24029; Cass. 6 agosto 2014, n. 17698) che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;

b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso eziologico (4) tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;

d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi;

Dal punto di vista oggettivo, gli attacchi devono protrarsi per un lasso di tempo ragionevole, individuato da una parte della giurisprudenza – su indicazione della psicologia del lavoro - in almeno 6 mesi (ex multis Cass. 9 settembre 2008, n. 22858, Cass. 17 settembre 2009, n. 20046; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 10 febbraio 2015, cit.; Tribunale Roma 9 luglio 2020).

Il requisito della durata è ridotto ad almeno 3 mesi solo allorché sia ravvisabile il quick mobbing (Trib. Roma 2 giugno 2020; Trib. Ascoli Piceno 18 maggio 2018) o lo straining sportivo (H. EGE, D.TAMBASCO, Il lavoro molesto, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2021, pp. 21-22). Tuttavia, un orientamento giurisprudenziale più flessibile ed aperto al caso concreto rifugge da parametri temporalmente determinati, avendo coniato la formula della condotta sistematica e protratta nel tempo(Cass. 31 maggio 2011, n. 12048; Trib. Bologna 15 dicembre 2011, n. 1068; Trib. Firenze 7 luglio 2016), specificando in alcune pronunce la necessità della permanenza per un apprezzabile lasso di tempo(Cass. 17 settembre 2009, n. 20046; Cass. 9 settembre 2008, n. 22858; Trib. Milano 30 settembre 2006, n. 2949).

Sul parametro del lasso di tempo ragionevole, da ultimo il Tribunale di Monza 19 ottobre 2021, est. Rotolo, ha stabilito che la rilevanza della durata va di volta in volta esaminata alla luce del caso concreto, che può caratterizzarsi per atti di maggiore aggressività psicologica tali da determinare i medesimi effetti anche in periodi di tempo inferiore o viceversa, aprendo dunque al principio della valutazione case by case, affermato anche da una recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'uomo del 9 novembre 2021 (5).

Nell'accertamento dell'elemento oggettivo della fattispecie, inoltre, la giurisprudenza opera da tempo la distinzione tra conflitto e vessazione, con rilevanti ricadute sul piano pratico. Più precisamente, nella prassi giurisprudenziale è stata individuata una differenza ontologica tra conflitto e vessazione, operante con riguardo al grado di inermità ed incapacità di difendersi del soggetto vessato: se nel conflitto ci può essere e talvolta c'è uno sconfitto, nella vessazione c'è soltanto una vittima sostanzialmente non in grado di difendersi o di difendersi con un minimo di adeguatezza (Trib. Bologna 28 aprile 2010).

Sulla base di questo rilievo, si è giunti nella pratica a disconoscere l'esistenza di condotte mobbizzanti o strainizzanti allorché sia stata accertata l'esistenza tra le parti di una situazione conflittuale protrattasi per lungo tempo, non riferibile in via esclusiva a comportamenti tenuti dal solo datore di lavoro ma al contrario originata da un complesso contenzioso che aveva inasprito gli animi, tale da condurre all'irrogazione di molteplici sanzioni disciplinari – riconosciute legittime in sede giudiziale- dovute alla situazione di tensione accentuatasi a causa delle condotte disciplinarmente rilevanti tenute dal lavoratore (Cass. 5 dicembre 2018, n. 31485; conf. Tribunale Pavia, sez. lav., 22 maggio 2020; Cass. 28 agosto 2013, n. 19814).

Tuttavia, è da registrarsi un recente orientamento difforme della Corte di Cassazione, che nega recisamente il principio secondo cui per configurare il mobbing (o lo straining) quale vessazione nei confronti del dipendente sia necessario che non ricorra conflittualità reciproca.

Infatti, pur a fronte di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non è certamente legittimato ad indursi a comportamenti vessatori. Egli può infatti senza dubbio esercitare i propri poteri direzionali ex art. 2104 c.c., comma 2 (come nel caso del potere disciplinare), ma nei limiti stabiliti dalla legge e comunque nel rispetto di un canone generale di continenza, espressivo dei doveri di correttezza propri di ogni relazione obbligatoria, tanto più se destinata ad incidere continuativamente sulle relazioni interpersonali.

Canone che è certamente e comunque superato allorquando i comportamenti datoriali - ovverosia proprio della parte che nell'ambito del rapporto si pone in posizione di supremazia in quanto titolare del potere di dirigere i propri dipendenti - ricevano una qualificazione in termini di oggettiva vessatorietà (Cass. 12 luglio 2019, n. 18808).

Sul piano del soggetto agente, invece, il mobbing è definito “dall'alto verso il basso” o “verticale”, allorché sia realizzato dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico (ex plurimis Cons. Stato, sez. III, 27 febbraio 2019, n. 1371; da ultimo Tribunale Roma, sez. lav., 23 agosto 2021, n. 6313, est. Falato); diametralmente opposto è il mobbing dal basso verso l'alto o “ascendente”, che si configura allorché siano i sottoposti a porre in essere le condotte vessatorie nei confronti del superiore gerarchico (Trib. Pescara 15 gennaio 2016, n. 31).

Nell'ipotesi di condotte mobbizzanti realizzate dal dipendente o preposto, anche il datore di lavoro potrà rispondere in concorso con l'autore materiale delle condotte, alternativamente ai sensi dell'art. 2087 c.c. se colpevolmente inerte (Cass., sez, lav., 4 dicembre 2020, n. 27913; Cass., sez. lav., 22 marzo 2018, n. 7097; Trib. Aosta, sez. lav., 30 settembre 2014) o in via oggettiva ex art. 2049 c.c. in presenza dei presupposti della fattispecie civilistica (rapporto di preposizione, fatto illecito e nesso di occasionalità necessaria tra fatto illecito e rapporto di lavoro, ex multis Cass. sez. lav., 15 maggio 2015, n. 10037; Cass. sez. lav., 4 gennaio 2017, n. 74).

Infine, è definita “tra pari” o “orizzontale” la condotta mobbizzante attuata dai colleghi della vittima (ex plurimis, Cass. 4 dicembre 2020, n. 27913).

L'elemento qualificante della fattispecie è, secondo la giurisprudenza ormai consolidata (ex plurimis Cass. 20 gennaio 2020, n. 1109; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 24 novembre 2016, n. 24029), l'intento persecutorio che deve unificare i singoli atti o comportamenti.

L'esame delle innumerevoli pronunce intervenute in materia evidenzia come sul punto la giurisprudenza richieda al ricorrente il rigoroso adempimento dell'onus probandi dell'intento persecutorio (Cass., ord., 4 marzo 2021, n. 6079; Cass., ord., 20 gennaio 2020, n. 1109; Cass. 20 novembre 2017, n. 27444; Cass. 24 novembre 2016, n. 24029), in alcuni casi addirittura con l'aggiunta dell'elemento del dolo specifico (per la presenza dell'animus nocendi, si veda Trib. Palermo 18 gennaio 2008; conf. Trib. Udine 17 marzo 2017; Trib. Como 22 maggio 2001).

In altri casi, tuttavia, si è fatto largo nel diritto vivente un criterio più flessibile, volto a valorizzare l'utilizzo della prova per presunzioni (Cons. Stato, sez. IV, 1° luglio 2019, n. 4471; conf. TAR Lazio, sez. III-bis, 12 gennaio-5 aprile 2004), che consentirebbe di desumere l'elemento soggettivo dall'obiettiva vessatorietà delle condotte.

Ne deriva, secondo tale orientamento, che l'elemento soggettivo non necessiterebbe di una puntuale dimostrazione dell'elemento psicologico, potendo invece desumersi in via presuntiva, ad esempio,dall'uso abnorme del potere direttivo e di conformazione della prestazione, nella concatenazione temporale degli interventi e nelle loro modalità concrete, quando possa evincersi che esso è indirizzato a fine diverso da quello tutelato dalla norma, assumendo quindi carattere di illiceità (Cass. 4 gennaio 2017, n. 74).

In concreto, l'intento persecutorio è stato dedotto presuntivamente anche dalla palese pretestuosità di tre sanzioni disciplinari e dalla complessiva condotta della dirigente scolastica, oggettivamente espressiva non di un contrasto momentaneo ed episodico, ma frutto di un risentimento maturato nel tempo e reiteratamente manifestatosi (Cass., sez. VI, 3 maggio 2019, n. 11739; conf. Cass. 4 dicembre 2020, n. 27913).

La giurisprudenza consolidata, inoltre, richiede quale presupposto indefettibile per l'accertamento dell'elemento soggettivo la specifica indicazione degli autori delle condotte asseritamente vessatorie, affermando che ai fini dell'accertamento del mobbing e del conseguente diritto al risarcimento del danno, il lavoratore deve individuare nominativamente gli autori degli attacchi (Cass. 23 febbraio 2012, n. 2711). In particolare, la condotta persecutoria deve essere riconducibile a specifici soggetti che siano identificabili come portatori di un comune intento persecutorio (Corte d'Appello Catanzaro, sez. lav., 16 settembre 2021, est. Murgida).

Corollario di questo orientamento è il principio secondo cui nel caso di vicende manifestatesi nel corso di vari anni e poste in essere da un gran numero di soggetti diversi si deve allegare e provare, per riconoscere la ricorrenza di una condotta volontariamente lesiva nei riguardi del lavoratore (ovverosia l'intento persecutorio), l'esistenza di una stabile organizzazione creatasi all'interno dell'Amministrazione scolastica con l'unico fine di perseguitare il ricorrente: diversamente, l'elemento soggettivo non è verosimilmente plausibile (Cass. 11 marzo 2021, n. 6913).

Bossing

Considerato come species della più ampia categoria del mobbing, il bossing è menzionato raramente dalla giurisprudenza peraltro con diversità di sfumature, a seconda del fatto che venga esaminato soltanto dal punto di vista del soggetto attuatore delle condotte vessatorie (il datore di lavoro o il superiore gerarchico, nel qual caso sarà un sinonimo del cosiddetto mobbing “verticale discendente” o “dall'alto”, Cons. Stato, sez. III, 27 febbraio 2019, n. 1371; conf. Tribunale Roma, sez. lav., 23 agosto 2021, n. 6313, est. Falato; Trib. Foggia 26 febbraio 2014, n. 1847; Trib. Pescara 15 gennaio 2016, n. 31; TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 20 giugno 2012, n. 300) o che invece sia riguardato anche sotto il profilo dello scopo del soggetto agente, connotato dalla precisa strategia aziendale finalizzata all'estromissione del lavoratore dall'azienda (Trib. Pinerolo 3 marzo 2004; Trib. Bologna 13 aprile 2010, n. 250) o dalla specifica finalità di ridurre il personale, ringiovanire o riorganizzare uffici o reparti (Trib. Milano 23 luglio 2004).

Bullying

Nelle rarissime pronunce in cui è citato i contorni sono incerti, lontani dalla definizione coniata dalla psicologia del lavoro (6) e, spesso, si confondono con quelli del bossing (Trib. Forlì 15 marzo 2001, est. Sorgi; Corte dei Conti, sez. giur. Reg. Emilia Romagna, 22 novembre 2018, n. 267), differenziandosi unicamente per la circostanza dell'abuso della posizione gerarchica (come nel caso di un dirigente che aveva recato molestie a sfondo sessuale alle dipendenti approfittando della sua posizione gerarchica, Trib. Napoli 22 aprile 2002, est. Santangelo).

Straining

Lo straining è costituito da una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un'azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata da una durata costante.

La vittima è rispetto alla persona che attua lo straining in persistente inferiorità. Pertanto, mentre il Mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili e frequenti nel tempo, per lo Straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso tipico del demansionamento).

E' questa la prima definizione della fattispecie dello straining rinvenibile nella giurisprudenza di merito, enunciata nell'ormai nota sentenza del Tribunale di Bergamo, sez. lav., 20 giugno 2005, n. 286, est. Bertoncini (nella giurisprudenza di merito conf., ex multis, Trib. Sondrio 7 giugno 2007, est. Azzolini; Trib. Aosta 30 settembre 2014; Corte Appello Brescia 8 gennaio 2021; Trib. Vibo Valentia 26 maggio 2021, n. 346, est. Nasso).

Il fenomeno dello straining è stato per la prima volta individuato nell'ambito delle scienze psicologiche dal noto studioso HARALD EGE (Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità lavorativa, Milano, Franco Angeli, 2005).

Tale precisa nozione ha consentito alla giurisprudenza italiana (evidenziamo infatti come si tratti di un unicum del nostro ordinamento, che non ha riscontro nel panorama internazionale) di attrarre nell'alveo dell'art. 2087 c.c., e conseguentemente nell'ambito della responsabilità contrattuale risarcitoria, anche quelle condotte -quali ad esempio i demansionamenti, i trasferimenti, l'inattività lavorativa forzosa - che, pur risolvendosi in un singolo atto, hanno tuttavia una rilevante incidenza sulla professionalità, sulla personalità e sull'integrità fisica dei lavoratori e delle lavoratrici, a causa degli effetti lesivi permanenti.

Condotte che, difettando del requisito oggettivo della reiterazione e della sistematicità, non sarebbero state pertanto ricomprese nella fattispecie del mobbing, generando dunque un grave vuoto di tutela.

Nella prassi lo straining si associa spesso ai fenomeni di dequalificazione professionale (cfr., ex plurimis, Trib. Vibo Valentia 26 maggio 2021, n. 346, est. Nasso).

Anche la giurisprudenza di legittimità, analogamente a quella di merito, ha da tempo incanalato lo straining nell'alveo dell'art. 2087 c.c., definendolo una forma attenuata di mobbing (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164; Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977; Cass. 4 novembre 2016, n. 3291), così risolvendo la questione processuale sul rapporto tra mobbing e straining: per il principio di continenza non integra violazione dell'art. 112 c.p.c. la condanna al risarcimento del danno da straining in luogo dell'originaria domanda di condanna risarcitoria per mobbing.

Secondo la Corte di Cassazione, pertanto, lo straining è una species del più ampio genus del mobbing.

L'evoluzione giurisprudenziale tuttavia ha portato ad un mutamento di senso della nozione di straining, che nel diritto vivente ha iniziato ad assumere contorni differenti rispetto a quelli individuati dalla psicologia del lavoro; a partire infatti dalla pronuncia della Cass. 29 marzo 2018, n. 7844, è venuto meno l'elemento soggettivo dell'intento persecutorio, requisito fondante della fattispecie, attraverso la definizione del fenomeno come una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato tale da provocare nella vittima una modificazione lavorativa in negativo, costante e permanente, atta ad incidere sul diritto alla salute, e ravvisabile anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio.

Secondo questo orientamento, pertanto, lo straining quale stress forzato non si manifesterebbe soltanto in singole condotte vessatorie con effetti permanenti intenzionalmente realizzate dal datore di lavoro ai danni della vittima ma può anche derivare, tout court, dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo con conseguente violazione da parte datoriale del disposto di cui all'art. 2087 c.c. (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844; conf. Cass. 4 ottobre 2019, n. 24883; Trib. Pavia 22 maggio 2020, n. 85; Trib. Tivoli 6 ottobre 2020; Trib. Milano 24 luglio 2019; Trib. Milano 23 luglio 2019, n. 1047).

Tuttavia, per una recente riaffermazione della necessaria presenza nello straining anche dell'intento vessatorio, si veda Cass., ord., 4 febbraio 2021, n. 2676 e da ultimo Corte d'Appello Milano 22 marzo 2021, n. 475, secondo cui lo straining “è un mobbing in cui le condotte non sono caratterizzate da continuità, ma che, in quanto appartenente alla fattispecie del mobbing, deve appunto manifestare lo stesso intento persecutorio.

Stalking occupazionale

Si tratta di fenomeno affrontato in una pronuncia del Trib. Bari 26 settembre 2019, n. 3677, est. Vernia, che in un caso di molestie sessuali realizzate da un collega ai danni di una lavoratrice delle Poste, iniziate sul lavoro e sconfinate nella vita privata, ha individuato la fattispecie dello stalking occupazionale, ossia di quei comportamenti che si collocano in una zona di confine tra le fattispecie del mobbing, dello straining e dello stalking.

Secondo il giudice barese, in particolare, lo stalking occupazionale può essere descritto, mutuando espressioni proprie della scienza medico-legale, come un fenomeno di stalking che inizia sul posto di lavoro per poi penetrare invasivamente nella vita privata della vittima.

Nello stalking occupazionale, infatti, l'attività persecutoria può essere esercitata non solo sul lavoro, ma può pervadere anche la vita privata della vittima, fermo restando il fatto che la motivazione proviene dall'ambiente di lavoro dove lo stalker ha realizzato, subito o desiderato una situazione di conflitto, persecuzione o mobbing.

Ne deriva che, dal punto di vista dell'inquadramento sistematico, lo stalking occupazionale identifica comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro:secondo questo orientamento di merito, pertanto, la fattispecie “ombrello” dell'art. 2087 c.c. sarebbe idonea a ricomprendervi anche i fenomeni di work stalking.

L'ordinanza della Corte di Cassazione, sez. lav., 8 aprile 2022, n. 11521: differenza tra demansionamento e bossing (o mobbing verticale).

L'ordinanza in esame (Cass. 8 aprile 2022, n. 11521) conferma la pronuncia della Corte d'Appello di Catania che aveva negato la sussistenza del mobbing verticale (o bossing) lamentato da un dipendente nei confronti del proprio diretto superiore, in un caso di asserita dequalificazione per effetto dello spostamento del lavoratore tra settori di pari livello (nel caso di specie, da quello “acque” a quello “farine”), e relativo altresì ad una pluralità di procedimenti disciplinari (sei) attivati nei confronti del ricorrente, derivati da comportamenti irriguardosi del funzionario nei confronti del superiore gerarchico, e chiusi con l'archiviazione per tre procedimenti su cinque e con l'irrogazione dei provvedimenti disciplinari per gli altri due, da cui derivava - per uno di essi - anche un procedimento penale, conclusosi con la condanna del lavoratore.

La pronuncia, in primo luogo, conferma l'orientamento giurisprudenziale che tende ad identificare il bossing con il “mobbing verticale” o dall' alto verso il basso.

In secondo luogo, si ribadisce in motivazione il carattere distintivo della fattispecie del mobbing enucleabile dall'elaborazione dell'art. 2087 c.c., ovverosia la sussistenza dell'intento persecutorio; infatti, “se è vero che in linea astratta, come sostiene il ricorrente, pure comportamenti leciti possono, se del caso, assumere connotati vessatori, nondimeno nel caso in oggetto i giudici di merito hanno positivamente escluso che vi sia stato intento vessatorio, persecutorio od emulativo nelle condotte datoriali per cui è causa”.

Ciò che rileva pertanto nel caso di specie, ai fini dello scrutinio giudiziale negativo, è l'esclusione da parte della Corte territoriale che “le condotte datoriali siano state finalizzate alla mortificazione ed alla emarginazione del lavoratore”.

La parte più rilevante del provvedimento è tuttavia quella in cui vengono nitidamente tratteggiati i caratteri distintivi del demansionamento rispetto alle condotte persecutorie, sebbene lo specifico riferimento operato nella pronuncia alla fattispecie del mobbing possa risultare fuorviante, essendo noto che la dequalificazione in sé e per sé, ove non accompagnata da altre tipologie di condotte ostili sistematicamente connesse, può tutt'al più integrare il diverso fenomeno dello straining.

Ciò che interessa, in questa sede, è l'individuazione dell'elemento psicologico dell'intento persecutorio quale carattere discretivo tra la mera dequalificazione professionale, che rileva oggettivamente ai sensi dell'art. 2103 c.c. (o dell'omologo art. 52 d.lgs. 165/2001 per il pubblico impiego) e tutte le altre tipologie di condotte persecutorie, le quali ai sensi dell'art. 2087 c.c. - nell'invalsa ermeneutica del diritto vivente - necessitano indefettibilmente anche dell'elemento soggettivo, vero e proprio quid pluris della fattispecie: “A tal riguardo devesi evidenziare che è proprio l'elemento psicologico dell'intento persecutorio il tratto distintivo tra le ipotesi di mera dequalificazione e quelle di mobbing in cui, sul piano strutturale, la dequalificazione costituisce solo il momento oggettivo dell'illecito datoriale, che va corroborato, sul piano soggettivo, da una volontà datoriale persecutoria”.

La sentenza della Corte di Cassazione penale, sez. V, 5 aprile 2022, n. 12827: mobbing ed atti persecutori ex art. 612-bis c.p.

La seconda sentenza oggetto di analisi (Cass. pen, sez. V, 5 aprile 2022, n. 12827) affronta, in ambito penale, la questione della sussumibilità delle condotte mobbizzanti nel paradigma normativo degli atti persecutori, codificato dal legislatore attraverso l'art. 612-bis c.p. che, originariamente, era stato ideato per la repressione del diverso fenomeno dello stalking.

Nel caso di specie, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia della Corte d'Appello di Salerno, che a sua volta aveva riconosciuto colpevole del reato di atti persecutori il presidente di una società di servizi, reo di aver reiteratamente minacciato anche di licenziamento alcuni dipendenti, recapitando altresì una pluralità di ingiustificate e pretestuose contestazioni disciplinari, ingenerando nelle vittime un duraturo e perdurante stato d'ansia e di paura, così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita.

La pronuncia rientra a pieno titolo nell'alveo di quell'orientamento giurisprudenziale (inaugurato proprio della quinta sezione penale della Corte di Cassazione) che tende a ravvisare la fattispecie degli atti persecutori ex art. 612-bis c.p. nella condotta mobbizzante del datore di lavoro, il quale ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione e al suo isolamento nell'ambiente di lavoro, tali da determinare un "vulnus" alla libera autodeterminazione della vittima (Cass. pen., sez. V, 14 settembre 2020, n. 31273, caso in cui il lavoratore era stato esposto a molteplici atti vessatori, quali il forzoso impedimento a lasciare la sede di lavoro e l'abuso del potere disciplinare, culminati in un licenziamento pretestuoso e ritorsivo; cfr. Cass. pen., sez. II, 28 settembre 2020, n. 26957, caso di un dipendente che reiteratamente disturbava e minacciava i colleghi di lavoro ritenuti colpevoli di condotte negative nei suoi confronti in ambito sindacale, provocandone uno stato di ansia e paura).

Rispetto all'ormai consolidato orientamento, la pronuncia in esame aggiunge una inedita considerazione sull'elemento soggettivo, essendo sufficiente per la sussistenza del delitto di cui all'art. 612-bis c.p. il dolo generico, “con la conseguenza che è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, mentre non occorre che tali condotte siano dirette ad un fine specifico”.

Su questo piano, la giurisprudenza penale si pone in chiave persino più garantista rispetto a quella parte di giurisprudenza civile che, come abbiamo visto, richiede addirittura la presenza del dolo specifico, ovverosia dell'animus nocendi.

Infine, sebbene nella pronuncia si parli di “stalking occupazionale”, in realtà il caso trattato rientra interamente nella fattispecie del mobbing.

E' opportuno precisare, a tal proposito, come il work stalking sia “una forma di stalking in cui l'effettiva attività persecutoria si esercita nella vita privata della vittima, ma la cui motivazione proviene invece dall'ambiente di lavoro, dove lo stalker ha realizzato, subito o desiderato una situazione di conflitto, persecuzione o mobbing” (H.EGE, Oltre il mobbing, cit., p. 109).

Nel mobbing, al contrario, tanto la genesi del progetto persecutorio quanto la sua concreta attuazione hanno sede nell'ambiente di lavoro, dovendosi pertanto escludere “deviazioni” nella vita privata.

Note

(1) Si rimanda a EGE H., TAMBASCO D., Il processo di codificazione delle disposizioni in materia di mobbing, straining e molestie sul lavoro: breve viaggio tra dogmi, intuizioni del singolare e nuovi orizzonti internazionali, Labor, 3/2021, p. 277-300.

(2) Si veda, in particolare, il contributo a livello internazionale di HEINZ LEYMANN e a livello italiano di HARALD EGE. In particolare, LEYMANN H., GUSTAFSSON A., Mobbing at Work and the Development of Post-traumatic Stress Disorders, in Mobbing and Victimization at Work, European Journal of Work and Organizational Psychology, 1996, vol. 5, n. 2; LEYMANN H., Mobbing and psychological terror at workplaces, in Violence and Victims, 1990, 5 (2), pp. 119-126; LEYMANN H., Mobbing. Psychoterror am Arbeitsplatz und wie man sich dagegen wehren kann, Reinbek, Rowohlt, 1993; LEYMANN H., The content and development of mobbing at work, in European Journal of Work and Organizational Psychology, 1996, 5, pp. 165-184; LEYMANN H., The Content and Development of Mobbing at Work, in Mobbing and Victimization at Work, European Journal of Work and Organizational Psychology, 1996, vol. 5, n. 263; EGE H., La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, Giuffrè, 2002; EGE H., Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Milano, Franco Angeli, 2005.

(3) Nella sterminata letteratura sul tema, si citano H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e straining, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2019; M. BONA, P.G. MONATERI, U. OLIVA, Mobbing. Vessazioni sul luogo di lavoro, Milano, Giuffrè, 2000; M. BONA, P.G. MONATERI, U. OLIVA, La responsabilità civile nel mobbing, Milano, Ipsoa, 2007; B. TRONATI, Mobbing e Straining nel rapporto di lavoro, Roma, Ediesse, 2007; B. TRONATI, Il disagio lavorativo – Mobbing, Straining e stress lavoro correlato nel rapporto di lavoro, Roma, Ediesse, 2016; TOSI (a cura di), Il mobbing, Torino, Giappichelli, 2004; R. DEL PUNTA, Il mobbing: l'illecito e il danno, in Scritti in onore di Giuseppe Suppiej, Padova, Cedam, 2005, pp. 287-320; R. DEL PUNTA, Diritto del lavoro, Milano, Giuffrè Lefebvre, 2020, pp. 614 e ss.; S. MAZZAMUTO, Il mobbing, Milano,Giuffrè, 2004; A.a. V.v., Mobbing, Organizzazione, Malattia professionale, in Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni Industriali, 2006, n. 29; M. MEUCCI, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, Roma, 2013.

(4) Sulla sufficienza dell'“elevata probabilità del collegamento causale tra il fatto umano scatenante e la successiva persistenza dello squilibrio psichico, e che non sia stato provato l'intervento di un fattore successivo tale da disconnettere la sequenza causale così accertata”, si veda Cass., sez. III, 11 giugno 2009, n. 13530; conf. Cass. 17 giugno 2011, n. 13356; Trib. Civitavecchia 16 novembre 2006; Trib. Milano 28 febbraio 2003.

(5) D. TAMBASCO, La giustizia “case-by-case” nell'accertamento delle condotte violente e moleste sul lavoro: analisi di tre recenti pronunce giurisprudenziali, in IlGiuslavorista, 22 dicembre 2021.

(6) Bullying è termine coniato per la prima volta con riferimento all'ambito scolastico per indicare i fenomeni di violenza di gruppo riscontrabili tra i bambini a scuola (HEINEMANN P., Mobbing, gruppvåld bland barn och vuxna, Stockholm, Natur och Kultur, 1972). Con il tempo e con l'evoluzione degli studi il termine è venuto ad assumere un significato più ampio, essendo esteso a tutti i comportamenti aggressivi tra adulti che nascono dall'intenzione di causare un disturbo fisico o psicologico ad altri (P. RANDALL, Adult Bullying, Londra e New York, 1997), fino ad essere utilizzato, soprattutto in ambito internazionale, come sinonimo del mobbing (ZAPF, D.; COOPER, C.L. (eds.) 2011. Bullying and Harassment in the Workplace: Development in Theory, Research, and Practice, Boca Raton, CRC Press, p. 22). Soprattutto nei paesi anglosassoni, infatti, bullying è accompagnato alla specificazione del contesto lavorativo con il medesimo significato del mobbing: si parla infatti di “workplace bullying” o alternativamente di “bullying at work”.

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