Una nuova definizione per la crisi d'impresa: bisogna che tutto cambi perché tutto resti com'è ora

Danilo Galletti
21 Aprile 2022

Le modifiche che verrebbero apportate alla nozione di “crisi” contenuta nel Codice della Crisi, da parte della bozza di decreto legislativo “attuativo” della Direttiva Insolvency, non sono state rese necessarie dal testo unionale, non costituiscono alcun miglioramento sul piano del perseguimento del fine primario della prevenzione, ed anzi si coordinano con norme di nuovo conio, alla luce delle quali le “soglie di allarme”, ormai praticamente destinate al solo imprenditore, restano molto (troppo) elevate.

La bozza di decreto legislativo “attuativa” della Direttiva, recentemente pubblicata, è intervenuta a rimodellare persino la nozione di “crisi” contenuta nell'art. 2 CCII; non si tratta tuttavia di certo di una necessità che derivi dall'attuazione della Direttiva, poiché quest'ultima si limita a definire la “crisi” come “probabilità di insolvenza”, lasciando esplicitamente la definizione del contenuto di entrambi i concetti ai singoli diritti nazionali.

Nemmeno potrebbe giustificarsi l'interpolazione, parrebbe, immaginando che il provvedimento in bozza costituisca anche un “decreto correttivo” del CCII; nella premessa dell'atto, infatti, non si scorgono riferimenti espliciti né alla Legge Delega, né appunto alla volontà di porre in essere “correzioni” (è soltanto citato, ma come mero fatto storico, il primo decreto correttivo, d. lgs. n. 147/2020).

Non resterebbe allora che concludere, in apparenza, nel senso per cui il Legislatore delegato avrebbe inteso adattare il concetto codicistico di “crisi” al fine unionale di approntare un sistema concorsuale idoneo a prevenire o quantomeno ad affrontare in modo “precoce” le crisi d'impresa. Peccato però che l'analisi del testo del CCII che uscirebbe da tale (contro)Riforma non possa che condurre ad una conclusione diametralmente opposta.

Nel testo “attuale” (per non dire “vigente”) dell'art. 2 CCII la “crisi” si trova sicuramente al centro di un difficile “condominio” di discipline, che orbita intorno ai concetti fra di loro contigui di “insolvenza attuale”, “insolvenza prospettica”, e appunto “crisi”.

Una lettura funzionalmente orientata del sistema normativo introdotto dal CCII nel 2019 sembrava dover condurre, a mio avviso, a ritenere che residuasse uno spazio, infatti, anche per l'insolvenza “prospettica”, che focalizza uno stato di insolvenza destinato a rendersi visibile all'esterno solo nel futuro, stato tuttavia ricavato da indici oggi oggettivamente percepibili, e la cui verificazione sarebbe stata misurabile nei classici termini del paradigma causale giuridico: “più probabile che non”. In queste situazioni il debitore sarebbe stato comunque attualmente “insolvente”, sia pure sulla base di una prospezione futura.

La crisi, da intendere come “probabilità di insolvenza”, ma che esclude dunque l'esistenza attuale dell'insolvenza (anziché ricomprenderla, come accade invece nel sistema concorsuale odierno, pre-riforma), sarebbe rimasta esclusiva di situazioni meno connotate sotto il profilo probabilistico (ma comunque pur sempre caratterizzate da un livello di probabilità “rilevante”).

In tal modo fenomeni di deterioramento aziendale già “gravi”, anche se non ancora manifestati “esteriormente” nella dinamica dei pagamenti, avrebbero legittimato richieste di trattamento concorsuale da parte dei vari legittimati (creditori, PM), anche a prescindere da iniziative del debitore, e persino in modo da “vincere” l'inerzia di quest'ultimo. Ne sarebbe risultata amplificata la idoneità “preventiva” dell'ordinamento concorsuale, un ordinamento che comunque contemplava (allora) ampi spazi residui di intervento “pubblico” ed officioso sulla crisi del debitore (grazie alle misure di allerta, ed al ruolo degli OCRI).

Imprenditore che è stato indotto peraltro a dotarsi di idonei strumenti preventivi, ancor prima dell'entrata in vigore del CCII, sì da creare presupposti favorevoli al fine di assicurarne l'efficienza, in forza dell'art. 2086, comma 2, c.c., disposto quest'ultimo fatto entrare in vigore immediatamente, proprio al fine di “arare” il terreno con anticipo, gettandovi il giusto “lievito” culturale.

Tale stato di cose, tuttavia, non poteva certo non generare “ansia” in capo ai fiancheggiatori di quell'imprenditoria italiana “neghittosa”, riottosa rispetto a qualsiasi idea di innovazione o istituzione non direttamente ed immediatamente orientata alla produzione del lucro, che purtroppo spesso riscontriamo.

Va detto comunque che l'ansia appunto di provocare un eccesso di casi applicativi dell'istituto dell'allerta, almeno nelle fasi iniziali dell'entrata in vigore del CCII, aveva prodotto da un lato il differimento (quasi a “babbo morto”) delle modifiche che avrebbero imposto l'istituzione dell'organo di controllo interno in molte realtà societarie “piccole” o “medio piccole”; dall'altro la redazione di norme, primarie e secondarie, che avevano individuato “indici” ed “indicatori” della crisi (distinzione questa un po' pedante, e che non verrà certo rimpianta) tipici di situazioni connotate da insolvenza conclamata, anziché da crisi, ed insolvenza già in atto, nemmeno ancora “in potenza” (argg. ex artt. 13, 14, 15, 24 CCII e Documento ONDCEC sugli “indicatori” della crisi, tardivamente elaborato e poi rimasto peraltro chiuso, ormai definitivamente, in un cassetto ministeriale).

Un celebre provvedimento milanese (caso “Moby”) aveva cercato di interpretare il sistema vigente nell'ottica di quello futuro, pervenendo tuttavia al non condivisibile risultato di “schiacciare” l'insolvenza prospettica sulla crisi: dunque questa forma di manifestazione dell'insolvenza sarebbe stata equipara alla crisi, e per di più destinata ad essere apprezzata entro un arco temporale semestrale a partire dal punto di osservazione (laddove si ricorderà che lo stesso Tribunale meneghino, dieci anni prima, aveva proiettato l'arco temporale tipico dell'insolvenza “prospettica” in un futuro annuale: caso “Risanamento”).

Il risultato finale appariva così nel complesso ampiamente insoddisfacente, posto che, fra l'altro, anche gli “assetti organizzativi” preventivi della crisi (art. 2086 c.c.) sarebbero stati ragionevolmente impostati sul concetto di “crisi”, e così anch'essi “schiacciati” su un modello predittivo tuttavia settato per un orizzonte cognitivo assai breve, tipico di situazioni ormai prossime all'insolvenza, e comunque di scarsa lungimiranza (anche a causa del quasi esclusivo riferimento ad un paradigma di stampo quantitativo, fondato sull'idea dominante della “misurabilità” dei fatti connotanti l'impresa).

Non per caso, quando si introduceva un “percorso” funzionale (almeno nelle intenzioni dichiarate) al trattamento “precoce” della crisi, si doveva estrarre dal cilindro un prima inedito concetto di “probabilità di crisi” (art. 2 DL n. 118/2021), che suonava come una sorta di “pre-crisi”, suscitando persino dubbi di compatibilità con il testo unionale.

Sarebbe stato allora opportuno, anzi necessario, nel momento in cui si attuava una Direttiva che vede nel proprio codice genetico l'idea essenziale della prevenzione della crisi, e solo ove ciò non si realizzi, del trattamento precoce della stessa, rimuovere gli elementi normativi che inquinavano il concetto giuridico di crisi, schiacciandolo appunto sull'insolvenza; tantopiù allorquando si attenuava non poco l'impatto delle misure di early warning, condannando all'oblio la “allerta”, e sostituendola con il ben più friendly “percorso” della composizione negoziata. L'abolizione dell'allerta, con la soppressione degli obblighi di segnalazione all'OCRI, consegnerebbe infatti alla sola insolvenza il novero degli strumenti che possono costringere l'imprenditore ad affrontare proattivamente la propria crisi, ove egli non aderisca a tale prospettiva spontaneamente.

La bozza di decreto recentemente pubblicata, invece, sembra guardare in tutt'altra direzione.

Talune modifiche sembrano recepire più che altro alcune critiche un po' pedanti: ad es. la sostituzione del termine “squilibrio” con quello di “stato” (certo più consono alla tradizione storica dell'art. 5 l.fall.), pare assecondare quei rilievi per cui non sempre i fattori “critici” di un'impresa si risolvono in uno “squilibrio”.

E' lecito tuttavia dubitare della rilevanza di tale osservazione, ed anzi c'è da domandarsi se la modifica non rischi di allontanare la definizione di crisi dal contesto del restante tessuto sistematico del CCII.

Allarmante invece è l'eliminazione dei termini “regolarmente” e “pianificate” (riferito alle obbligazioni).

Quanto al primo termine, detta eliminazione forse asseconda le critiche espresse da chi si doleva proprio del rischio di un “appiattimento” del concetto giuridico della crisi su quello dell'insolvenza; ma francamente non si comprende come una fattispecie, che dovrebbe anticiparne un'altra eventuale, possa essere configurata dal punto di vista giuridico senza mediare gli elementi caratteristici della seconda. La soppressione va ritenuta, a mio avviso, irrilevante; anche perché fatico a pensare che l'applicazione del concetto di crisi, e la relativa portata “predittiva”, possa negare razionalmente rilevanza a situazioni, anche prospettiche, ove l'attività nei pagamenti sia alimentata da mezzi “irregolari”, estranei alla ordinaria dinamica finanziaria ed economica dell'impresa.

Il riferimento alle obbligazioni “pianificate” è stato pure espunto; ciò indebolisce l'apparato preventivo, e controagisce in modo deciso rispetto alla finalità dichiarata di favorire una maggiore efficienza organizzativa in funzione preventiva della crisi: la modifica infatti sottrae spazio alla tesi per cui crisi ed insolvenza costituiscono disfunzioni della pianificazione finanziaria dell'impresa; pianificazione che denuncia uno stato “critico” ove appunto essa manchi, oppure si presenti ab origine o comunque allo stato attuale come ormai incongrua rispetto alle previsioni più aggiornate e concrete che è doveroso operare.

La specificazione, nel contesto definitorio della crisi, della prospettiva temporale “annuale” (dodici mesi) sembrerebbe in apparenza voler restaurare uno spazio applicativo effettivo per quegli stati critici ormai “acuti”, ove l'insolvenza è ormai praticamente certa, “imminente”; di essi si potrebbe allora operare il “ritaglio” dalla sfera di influenza della crisi, per consegnarli al dominio della insolvenza, mentre gli stati meno “acuti” andrebbero ad arricchire la fenomenologia della sola crisi.

Vi è però, a mio avviso, e purtroppo, un fraintendimento di fondo: nella maggior parte dei casi una crisi, uno squilibrio, “gravi”, anche “acuti”, legittimano la previsione per cui l'imprenditore diverrà insolvente in un tempo “breve”; ma in realtà il discrimine dovrebbe farlo piuttosto la intensità della probabilità che si verifichi l'evento “tragico” (cioè l'insolvenza), e non tanto l'arco della previsione temporale.

La riscrittura dell'art. 2 alimenta invece e piuttosto il preconcetto per cui ciò che si proietta al di là dei dodici mesi non ha rilevanza ai fini dell'applicazione degli istituti del diritto concorsuale; la “pre-crisi”, al limite ancorata ad uno spettro previsionale più dilatato, consentirebbe allora (solo) il ricorso alla composizione negoziata; ma che incentivi effettivi in tal senso può davvero avvertire l'imprenditore, a fronte di una situazione, di uno “stato”, che il sistema non considera ancora evidentemente abbastanza “grave”?

Ma soprattutto, la “sapiente” riscrittura delle norme prima consacrate all'allerta, ed oggi invece a ciò che rimane delle “misure preventive”, non ha affatto rimosso, ed anzi ha aggravato, quello “schiacciamento” della crisi sulla vera e propria insolvenza: si ponga mente alle nuove disposizioni introdotte nell'art. 3, ove il dichiarato proposito di “specificare” gli obblighi di istituzione degli assetti organizzativi in funzione preventiva della crisi, ha invece sostanzialmente importato i canoni contenuti nell'art. 24 CCII, nel testo antecedente; si valutino i ”segnali di allarme” di cui al comma 4, che evidentemente visualizzano una situazione di insolvenza già grave e conclamata, comunque ormai più che “imminente” (con la sola parziale eccezione di talune circostanze “recuperate” dall'allerta “esterna” in forza del rinvio all'art. 25-novies).

Il risultato finale è un sistema modificato che è riuscito persino nel difficile intento di “disinnescare” la portata già precettiva del novellato art. 2086 c.c., ristretto ora in un ambito ove la condotta predittiva mette a fuoco quasi esclusivamente situazioni connotate da una criticità ormai intensa e da nessuno ignorabile. Perché il messaggio che perverrà agli operatori (non necessariamente coincidente con l'interpretazione che daranno in futuro i Giudici) conterrà l'idea che ciò non che “attiva” i “segnali di allarme” non è rilevante, con una intensa spinta alla deresponsabilizzazione.

Cosa resti dell'insolvenza “prospettica” è allora difficile dirlo, ma la sensazione è che lo spazio residuo sia assai limitato, se non nullo.

Rimane invece spazio, parrebbe, soprattutto per la nozione di “continuità aziendale”, che tuttavia, pur basandosi su di un armamentario tecnico assai “arato”, non risulta affatto semplice da maneggiare, anche a causa della sottile distinzione fra “perdita” della continuità e insorgere di un “dubbio significativo”, e questo proprio e soprattutto nella prospettiva della “prevenzione” dell'insolvenza.

Prospettiva, dunque, che risulta ancora un miraggio, posto che le nuove norme nulla fanno per incentivarla, in un contesto economico che è invece abituato ormai da lungo tempo ad ignorarla; il già visto “schiacciamento” della crisi sull'insolvenza, con la conseguente compressione dell'insolvenza “prospettica”, lascia in sostanza il solo debitore arbitro assoluto della scelta se ricercare una soluzione regolatoria, ed in quale momento.

Si vorrebbe allora spacciare l'idea che la misura della “segnalazione” dell'organo di controllo di cui all'art. 15 sia sufficiente ad assicurare i fini del sistema, ma non si vede proprio perché uno strumento che già esiste (i Tribunali delle Imprese non dubitano certo che il ritardo nell'adottare soluzioni “in discontinuità” rispetto alle pregresse, in caso di crisi, costituisca “irregolarità” rilevanti ex art. 2409 c.c.), e che non ha mai funzionato in modo efficiente in tale direzione, diventi improvvisamente funzionale allo scopo, senza che il sistema disegni un adeguato sistema di incentivi e di sanzioni a ciò destinate. Senza considerare che nella maggior parte delle società italiane, soprattutto di piccole e medie dimensioni (proprio quelle cui guarda maggiormente la Direttiva) lo stesso organo di controllo manca, e le disposizioni per aumentare il gradiente di doverosità della sua introduzione sono state collocate quasi su di un “binario morto”.

Non solo non meglio di prima, dunque, ma addirittura peggio, e non era facile. Nulla di più consono all'adagio gattopardesco.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.