La presenza di una ragione giustificativa del licenziamento non ne esclude la possibile natura discriminatoria
03 Maggio 2022
Massima
“…in ipotesi di allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento e quindi di una domanda di accertamento della nullità del provvedimento datoriale per motivo illecito ai sensi dell'articolo 1345 c.c., occorre che l'intento ritorsivo del datore di lavoro, la cui prova è a carico del lavoratore (cfr. tra le più recenti, Cass. n. 26035/2018, Cass. n. 20742/2018), sia determinante, cioè tale costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all'applicazione della tutela prevista dallo st. lav. novellato, articolo 18, comma 1, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento (v. in particolare Cass. n. 9468 del 2019); la prova della unicità e determinatezza del motivo non rileva, invece, nel caso di licenziamento discriminatorio, che ben può accompagnarsi ad altro motivo legittimo ed essere comunque nullo (Cass. n. 28453 del 2018, Cass. n. 6575 del 2016) …” . Il caso
Una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento formalmente intimatole per superamento del periodo di comporto, sostenendone l'illegittimità in quanto la malattia sarebbe stata causata dalla condotta datoriale e, comunque, perché il recesso sarebbe stato mosso da un intento ritorsivo e discriminatorio, in quanto collegato all'attività sindacale svolta dalla ricorrente.
La Corte d'appello respingeva il ricorso, sul presupposto della rilevata esclusione della sussistenza del nesso causale tra la condotta datoriale e le assenze della lavoratrice (per essere queste ultime in esclusiva derivazione causale con la dissezione aortica di cui la stessa soffriva), provvedendo a sostenere l'irrilevanza della prova anche solo presuntiva del motivo ritorsivo (o comunque illecito) del recesso, che dovrebbe essere, in ogni caso, unico e determinante ex articolo 1345 c.c., in forza del rinvio operato dal medesimo codice sostanziale, precedente articolo 1324.
La questione veniva posta al vaglio della Suprema Corte, denunciando la ricorrente la sostanziale apparenza di motivazione, per la oggettiva impossibilità di ricostruire il percorso logico giuridico del giudice del reclamo con riferimento all'accertamento relativo al difetto di prova del carattere ritorsivo o discriminatorio dell'intimato licenziamento.
Secondo la lavoratrice, invero, risulterebbe errato desumere, dal fatto che il comportamento del datore di lavoro non si configuri quale causa o concausa delle assenze per malattia, la mancanza di prova dell'intento ritorsivo o del carattere discriminatorio del licenziamento intimato. La questione
La decisione in esame involge la tematica della nullità del licenziamento discriminatorio sotto l'angolo prospettico del rapporto di ipotizzata preclusione accertativa, in ragione dell'esistenza di un concomitante motivo di legittimo recesso datoriale. La soluzione giuridica
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso principale per quanto di ragione e dichiara inammissibile il ricorso incidentale, cassando la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione.
Secondo gli Ermellini, infatti, il Giudice del gravame è incorso in errore di diritto, laddove ha dimostrato di assimilare ogni ipotesi in cui si assuma la esistenza del motivo illecito del recesso datoriale, senza quindi distinguere quella in cui venga in rilievo un motivo ritorsivo e quella in cui si denunzi il carattere discriminatorio del licenziamento.
Per la Suprema Corte, invero, l'esistenza di un motivo legittimo alla base del recesso datoriale non esclude la nullità del provvedimento ove venga accertata la finalità discriminatoria dello stesso e, pertanto, in ipotesi di allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento e quindi di una domanda di accertamento della nullità del provvedimento datoriale per motivo illecito ai sensi dell'articolo 1345 c.c., occorre che l'intento ritorsivo del datore di lavoro, la cui prova è a carico del lavoratore, sia determinante, cioè tale da costituire l'unica effettiva ragione di recesso ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale.
Ne consegue, che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini dell'applicazione della tutela prevista dallo statuto dei lavoratori novellato, articolo 18, comma 1, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento, mentre la prova della unicità e determinatezza del motivo non rileva, invece, nel caso di licenziamento discriminatorio, che ben può accompagnarsi ad altro motivo legittimo ed essere comunque nullo. Osservazioni
La pronuncia in commento ci consente di avanzare alcune osservazioni in merito alla tematica del licenziamento discriminatorio, condotta risolutiva del rapporto di lavoro fortemente censurata a livello nostrano e comunitario, siccome direttamente involgente il principio cardine di eguaglianza e la classificazione di vari fattori di rischio a carattere oggettivo e soggettivo, tutti assolutamente meritevoli di tutela.
Come è noto, nel nostro ordinamento la definizione del concetto stesso di licenziamento discriminatorio è affidata, sostanzialmente, a tre previsioni normative che ne tratteggiano, a vario titolo, i principali connotati distintivi.
Pensiamo, invero, al disposto dell'art. 4 della legge n. 604/1966, per cui “il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali è nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”; consideriamo ancora l'art. 15 della legge n. 300/1970, che dispone come “è nullo qualsiasi patto od atto diretto a: […] b) licenziare un lavoratore […] a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero alla sua partecipazione ad uno sciopero”; approdiamo, infine, all'art. 3 della legge n. 108/1990, che sancisce come “il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell'art. 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dell'art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300 […] è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge”; tali disposizioni che si applicano anche ai dirigenti valgono anche per il licenziamento che avviene “a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso ”.
Da tale primo accenno normativo si comprende allora come, indubbiamente, il divieto di discriminazione rappresenti uno degli elementi dell'ordinamento più sfuggenti e di complessa applicazione, poiché esso comporta la valutazione di un dato differenziale in rapporto comparatistico e poiché il bene tutelato è, di fatto, uno status, da cui consegue che la catena dei richiami normativi, per quanto puntuale, permette di redigere un elenco ricco a carattere esemplificativo ma, certamente, non esaustivo né tassativo.
Senonché, prima di passare all'analisi del fondamento e della ripartizione probatoria in merito all'istituto in esame, appare opportuno evidenziare, se pur solo in via d'accenno stante le esigenza di contenimento della trattazione, come la fattispecie del licenziamento discriminatorio vada distinta da quella del licenziamento ritorsivo (o per rappresaglia), che si verifica quando la ragione posta alla base dell'opzione risolutiva del rapporto rappresenta la reazione del datore di lavoro ad un comportamento legittimo del lavoratore.
Inizialmente, parte della giurisprudenza aveva sovrapposto le due fattispecie al fine di estendere le tutele previste per il licenziamento discriminatorio anche all'ipotesi di licenziamento ritorsivo. Questa impostazione, tuttavia, è stata abbandonata dalla giurisprudenza più recente, sul presupposto della possibile riconnessione sostanziale dell'ipotesi del licenziamento ritorsivo al fondamento di tutela sancito dall'art. 1345 c.c., diversamente dal licenziamento discriminatorio che trova la sua collocazione nel quadro della normativa antidiscriminatoria interna ed europea.
E si badi che tale divisione operativa non è affatto speciosa, determinando una distinzione netta di operatività per quel che concerne la sussistenza e la prova dell'elemento intenzionale.
Ed invero, come meglio si vedrà nel prosieguo della trattazione, mentre nel licenziamento ritorsivo il lavoratore deve dimostrare non solo la sussistenza del motivo illecito che connota la punizione datoriale rispetto ad una condotta legittima del dipendente ma anche l'esclusività dell'intento ritorsivo; nel licenziamento discriminatorio, invece, non rileva affatto (quantomeno di recente) l'elemento soggettivo connesso alla volontà discriminatoria del datore di lavoro e la discriminazione inficia la validità del licenziamento anche nel caso in cui concorrono altri motivi o finalità lecite a giustificazione del medesimo recesso.
Le regole probatorie che governano l'ambito del licenziamento discriminatorio, invero, sono frutto di un complesso procedimento di adattamento funzionale registratosi in ambito nazionale e comunitario, che ha consentito di approdare ad una mitigazione sostanziale della normativa e ad un suo riassetto organico.
In prima battuta, infatti, l'approccio del legislatore appariva ancorato alle classiche regole civilistiche che disciplinano il riparto dell'onere probatorio, generalmente gravanti sul soggetto che agisce in giudizio.
Il carico probatorio, dunque, in tale contesto veniva quasi interamente addossato al lavoratore, il quale doveva dimostrare il fatto posto a fondamento della domanda, ovvero l'intervenuta discriminazione, in evidente antitesi rispetto alla regola dell'inversione sancita dall'art. 5 della legge 604/1966, che invece, in tema di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento, impone al datore di lavoro di provarne la sussistenza.
La presa d'atto della preoccupante tendenza disincentivante sulla proposizione di azioni di contrasto all'adozione di atti discriminatori a trazione datoriale, causata dalla effettiva difficoltà probatoria dei lavoratori in merito alla dimostrazione del fattore costitutivo, ha dunque comportato l'adozione, negli anni, di diversi interventi correttivi a carattere legislativo e giurisprudenziale volti ad alleggerire il carico probatorio del lavoratore in materia.
Un peso di rilievo, in tale ambito, assume certamente il disposto del decreto legislativo n. 150 del 2011, contenente le disposizioni complementari al Codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, il quale ha segnato indubbiamente un punto di svolta e di superamento delle frastagliate discipline previgenti in materia, consegnandoci un quadro chiaro delle “controversie in materia di discriminazione”.
L'art. 28, comma 4, di tale intervento normativo, infatti, sancisce il corretto riparto dell'onere probatorio in materia, evidenziando come quando il lavoratore fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, presuntivo o da meri fattori indizianti, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al datore di lavoro l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione.
Viene così sancito il sostanziale meccanismo di agevolazione probatoria garantito in favore del lavoratore, il quale può allegare e dimostrare le circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l'onere per il datore di lavoro di dimostrare l'insussistenza della discriminazione, in base a circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione.
Ma non è tutto.
Il legislatore comunitario, invero, per evitare il rischio di contrazione dell'efficacia della tutela discriminatoria conseguente all'imposizione, nei confronti del lavoratore, anche dell'onere di dimostrazione della intenzionalità lesiva della condotta, ha virato in senso favorevole all'adozione della tesi propensa alla affermazione della natura oggettiva del licenziamento discriminatorio, incentrando la sufficienza dell'indagine in merito alla mera esistenza di una discriminazione effettivamente posta in essere a prescindere dalla prova della consapevolezza ed intenzionalità della sua produzione in capo all'autore.
Tale impostazione, sebbene fatta propria dalle istituzioni dell'Unione europea, è stata negli anni non sempre condivisa dalla giurisprudenza nostrana, che spesso ha preteso finanche la verifica della sussistenza dell'elemento intenzionale in capo al datore di lavoro, al fine della configurabilità della discriminazione.
La decisone in commento, correttamente, conferma l'orientamento di derivazione comunitaria, ribadendo la Cassazione come la prova della unicità e determinatezza del motivo non rileva nel caso di licenziamento discriminatorio, che ben può accompagnarsi ad altro motivo legittimo ed essere comunque nullo.
Per tali ragioni la Suprema Corte censura la decisione della Corte di merito, evidenziane l'errore di diritto commesso nell'operata assimilazione di ogni ipotesi in cui si assuma la esistenza del motivo illecito del recesso datoriale, senza quindi distinguere quella in cui venga in rilievo un motivo ritorsivo e quella in cui si denunzi il carattere discriminatorio del licenziamento, siccome comportane una diversa indagine oggettiva, che prescinde dalla valutazione dell'esistenza ostativa e tranciante di un concomitante motivo legittimo di giustificazione datoriale. |