Davvero negativa non sunt probanda?

10 Maggio 2022

In tema di prova testimoniale, la formulazione del capitolo di prova sotto forma di interrogazione negativa non costituisce, di per sé, causa di inammissibilità della richiesta istruttoria.
Massima

In tema di prova testimoniale, la formulazione del capitolo di prova sotto forma di interrogazione negativa non costituisce, di per sé, causa di inammissibilità della richiesta istruttoria.

Il caso

Tizia conveniva in giudizio il Comune di Milano chiedendone la condanna ex art. 2051 c.c. al risarcimento dei danni subiti a seguito della caduta dal proprio motociclo, avvenuta a causa di numerose buche non visibili presenti sul manto stradale.

Il tribunale adito, dopo aver rigettato tutte le richieste istruttorie formulate dall'attrice, respingeva la domanda, ritenendo non dimostrata la sussistenza del nesso di causalità fra le condizioni della strada ed il sinistro.

Il gravame proposto da Tizia veniva rigettato dalla corte d'appello di Milano.

L'istante proponeva allora ricorso per cassazione, deducendo, tra i vari motivi, che il giudice di merito aveva rigettato la domanda risarcitoria, perché ritenuta non provata, dopo aver erroneamente reputato “generiche e valutative” le prove testimoniali richieste, dirette proprio a dimostrare il nesso di causalità tra le condizioni della strada ed il danno. In particolare, in primo grado, l'istante aveva chiesto di provare per testimoni la seguente circostanza: “vero che allo scattare del verde (semaforico) l'esponente riavviava la marcia, ma dopo pochi metri la ruota anteriore del motorino veniva intercettata da una buca non visibile sul manto stradale che causava lo sbandamento del mezzo e la successiva caduta a terra del motorino in prossimità della suddetta buca e della conducente stessa”. Il tribunale aveva reputato inammissibile siffatto mezzo istruttorio e la corte d'appello aveva confermato tale statuizione, osservando che la prova verteva “su circostanze valutative negativamente formulate, e comunque non rilevanti”, aggiungendo che il capitolo era anche “generico”.

La questione

Nella pronuncia in esame la Suprema Corte ha colto l'occasione per ritornare sulla questione processuale, di estremo interesse anche pratico, dell'ammissibilità della formulazione di capi di prova testimoniale in termini negativi.

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione ha ritenuto erronea in punto di diritto l'affermazione del giudice di merito secondo cui la prova per testi formulata dall'attrice era inammissibile perché avente ad oggetto circostanze “formulate negativamente”.

Invero, per consolidata giurisprudenza di legittimità, nessuna norma di legge e nessun principio desumibile in via interpretativa impedisce di provare per testimoni che un fatto non sia accaduto o non esista (Cass. civ., 17 luglio 2019, n. 19171; Cass. civ., 13 giugno 2013, n. 14854; Cass. civ., 11 gennaio 2007, n. 384; Cass. civ., 15 aprile 2002, n. 5427).

In particolare, secondo la pronuncia in esame, “L'inaccettabile opinione che il capitolo di prova testimoniale debba essere formulato in modo positivo, spesso ripetuta come un Mantra, oltre che erronea in diritto è anche manifestamente insostenibile sul piano della logica…”, in quanto “chiedere…a taluno di negare che un fatto sia vero equivale, sul piano della logica, a chiedergli di affermare che quel fatto non sia vero. Sicchè l'opinione che non ammette la possibilità di formulare capitoli di prova testimoniale in modo negativo perviene al paradosso di ammettere o negare la prova non già in base al suo contenuto oggettivo, ma in base al tipo di risposta che si sollecita dal testimone”.

Infatti, tornando al capo di prova sulla “non visibilità della buca”, ritenuto inammissibile dal giudice di merito, seguendo la tesi prospettata da quest'ultimo sarebbe inibito chiedere al teste di affermare se un determinato fatto non esiste (rispondendo “sì” alla domanda “vero che la buca non era visibile”), mentre sarebbe consentito chiedere di negare che il medesimo fatto esista (rispondendo “no” alla domanda “vero che la buca era visibile”). Pertanto, la valutazione di inammissibilità operata dalla corte d'appello “urta…contro il millenario canone logico della reciprocità, secondo cui affermare che A non esiste è affermazione equivalente a negare che A esista”.

Altresì erronea risulta, secondo la Suprema Corte, l'affermazione per cui chiedere di provare per testimoni che una buca non sia visibile sarebbe un'istanza “valutativa”, ossia tesa a sollecitare dal testimone un giudizio. In senso contrario si osserva che riferire se un oggetto reale fosse visibile o non visibile non è un giudizio, bensì una percezione sensoriale, e non si dubita in giurisprudenza che i testi possano essere ammessi a deporre su circostanze “cadenti sotto la comune percezione sensoria”, essendo loro precluso solo di esprimere apprezzamenti di natura tecnica o giuridica (Cass. civ., 9 dicembre 1974, n. 4120), e ben potendo invece il testimone esprimere anche il convincimento che del fatto, e delle sue modalità, gli sia derivato per sua stessa percezione (Cass. civ., 19 settembre 1980, n. 5322), soprattutto quando si tratta di apprezzamenti di assoluta immediatezza, praticamente inscindibili dalla percezione dello stesso fatto storico.

Pertanto, come la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto ammissibile, in un giudizio di inibitoria di immissioni intollerabili, la possibilità di chiedere al testimone se un rumore fosse udibile dall'interno di un appartamento con le finestre chiuse (Cass. civ., 31 gennaio 2006, n. 2166), nonché, in un giudizio di risarcimento del danno ex art. 2051 c.c., se un pavimento fosse o no scivoloso (Cass. civ., 22 aprile 2009, n. 9526), allo stesso modo riferire se una buca fosse visibile o meno non costituisce né un'interpretazione soggettiva, né un apprezzamento tecnico o giuridico, ma esprime un “convincimento derivato al testimone per sua stessa percezione”.

Resta ovviamente ferma la possibilità per il giudice, all'esito della prova, di reputarne irrilevante il contenuto, quando la deposizione testimoniale non abbia saputo indicare i dati obiettivi e le modalità specifiche della situazione concreta, che possano far uscire la percezione sensoria da un ambito puramente soggettivo e trasformarla in un convincimento scaturente obiettivamente dal fatto (Cass. civ., 22 agosto 1983, n. 5460, che ha reputato corretta la decisione del giudice del merito il quale - in un giudizio diretto al risarcimento del danno conseguito ad una caduta dovuta all'assunta difettosa illuminazione - non aveva riconosciuto valore decisivo alle deposizioni dei testi, i quali si erano limitati ad una generica affermazione circa la non sufficienza dell'illuminazione; conf. Cass. civ., 5 febbraio 1994, n. 1173). Questo, però, ex post, dopo avere raccolto la deposizione, e non già ex ante, in sede di valutazione dell'ammissibilità della prova.

Inoltre, diversamente da quanto statuito dal giudice di merito, il capo di prova sulla non visibilità della buca si presentava, nel caso di specie, rilevante ai fini della decisione, in quanto volto a dimostrare il nesso di causalità tra la cosa ed il danno, e per nulla generico, posto che lo stesso indicava con esattezza data, ora e luogo del sinistro.

In conclusione, la Suprema Corte, nel cassare la sentenza impugnata con rinvio al giudice d'appello, ha affermato i seguenti principi di diritto:

A) la circostanza che un capitolo di prova per testimoni sia formulato sotto forma di interrogazione negativa non costituisce, di per sé, causa di inammissibilità della richiesta istruttoria;

B) nel giudizio avente ad oggetto una domanda di risarcimento del danno causato da un evento della circolazione stradale, in mancanza di altre e decisive prove, non può di norma negarsi rilevanza alla prova testimoniale intesa a ricostruire la dinamica dell'evento;

C) chiedere ad un testimone se una cosa reale fosse visibile o non visibile è una domanda che non ha ad oggetto una “valutazione”, ed è dunque ammissibile; fermo restando il potere-dovere del giudice di valutare, ex post, se la risposta fornita si basi su percezioni sensoriali oggettive o su mere supposizioni;

D) costituisce vizio di nullità della sentenza la decisione con cui la domanda venga rigettata per difetto di prova, dopo che erano state rigettate le istanze istruttorie formulate dall'attore ed intese a dimostrare il fatto costitutivo della pretesa.

Osservazioni

La pronuncia in commento è certamente condivisibile laddove afferma che una formulazione della prova testimoniale effettuata in maniera negativa non è di per sé inammissibile. Nello sfatare il falso mito del negativa non sunt probanda, che non costituisce un principio assoluto, occorre, però, ben intendersi sul significato, non privo di rilievo, da attribuire comunque a tale brocardo. Sostenere, invero, che la formulazione della prova testimoniale in forma negativa non è tout court inammissibile non significa che la stessa sia sempre ammissibile.

Già da tempo la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire che l'antico brocardo negativa non sunt probanda è da intendere nel senso che, non potendo essere provato ciò che non è, la prova dei fatti negativi deve essere fornita mediante la prova di fatti positivi, e non già che la negatività dei fatti escluda od inverta l'onere della prova (Cass. civ., 16 luglio 1969, n. 2612).

Si è così arrivati a sostenere, da parte della stessa giurisprudenza di legittimità citata (impropriamente, a dire il vero) nella pronuncia in commento, che l'onere probatorio gravante, a norma dell'art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l'estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto “fatti negativi”, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, tanto più se l'applicazione di tale regola dia luogo ad un risultato coerente con quello derivante dal principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova, riconducibile all'art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio. Tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo (Cass. civ., 22 marzo 2021, n. 8018; Cass. civ., 17 luglio 2019, n. 19171; Cass. civ., 6 giugno 2012, n. 9099; Cass. civ., 15 aprile 2002, n. 5427).

Da tali principi si desume che il problema della prova dei fatti negativi è stato tradizionalmente risolto dalla giurisprudenza di legittimità con l'affermazione, da un lato, della non incidenza della negatività del fatto sul riparto dell'onere probatorio, e con la necessità, dall'altro, di superare la difficoltà materiale di dimostrare ciò che non è materialmente avvenuto con l'articolazione di una prova positiva di segno contrario. Infatti, anche nei casi in cui è lo stesso legislatore ad aver previsto tra le condizioni dell'azione una circostanza di segno negativo, come, in tema di prelazione nei rapporti agrari, la mancata vendita di fondi rustici nel biennio precedente (ai sensi dell'art. 7 l. n. 817/71), si è sostenuto che la prova della sussistenza di tale condizione negativa, che continua a gravare su chi eserciti il relativo diritto, non comporta una inversione dell'onere della prova ma solo la necessità di allegare fatti positivi contrari, anche per mezzo di testimoni o di presunzioni (Cass. civ., 20 agosto 2015, n. 17009).

E' opportuno, a questo punto, precisare che lo “specifico fatto positivo contrario” non consiste nel fatto negativo (che si intende dimostrare) formulato in termini positivi (equivoco nel quale sembra essere caduta la pronuncia in esame), bensì in una circostanza diversa dal fatto negativo e con questo incompatibile (anche in via presuntiva): ad es., se si intende dimostrare che non è stata attuata la manutenzione di un impianto, il capo di prova non può essere articolato nel senso di chiedere al teste “se è vero che l'impianto x è stato oggetto di regolare manutenzione” (perché, così facendo, si chiederebbe al teste di confermare una circostanza in contrasto con le allegazioni della parte, che intende dimostrare proprio il contrario), bensì provando, anche a mezzo di rilievi fotografici e verbali ispettivi, problemi di funzionamento dell'impianto ripetuti nel tempo, dai quali desumere, anche per presunzioni, l'omessa manutenzione dello stesso (cfr., per un caso analogo, Cass. civ., 6 giugno 2012, n. 9099).

La pronuncia in commento, allora, se intesa nel senso di rendere indiscriminatamente ammissibile la prova testimoniale negativa, si pone in evidente contrasto con l'orientamento giurisprudenziale fino ad oggi consolidato, che deve invece, a parere del sottoscritto, ritenersi ancora operante, almeno in relazione ad alcuni dei fatti negativi che possono costituire oggetto di prova.

Occorre, infatti, nell'ambito dei fatti negativi (ossia dei fatti che si assume non siano avvenuti), operare una distinzione tra: 1) fatti negativi statici;2) fatti non avvenuti di contenuto indefinito; 3) fatti non avvenuti specificamente indicati.

I fatti negativi statici attengono a circostanze che riflettono la carenza di determinate qualità o condizioni di cose o persone: si pensi alla non visibilità della buca stradale, alla mancanza di finestre in un immobile, alla mancanza di un ingrediente in una sostanza, etc. Trattandosi, in questo caso, di descrivere una situazione inerte, è ben possibile formulare il capo di prova testimoniale in termini negativi, salva ogni valutazione ex post del giudice in ordine alla congruità ed obiettività della deposizione resa, come sostenuto nella pronuncia in esame (in cui si afferma, condivisibilmente, che “ad esempio, non sarebbe inibito provare per testimoni che la cupola di San Pietro non è crollata; ovvero che il Tevere non è asciutto”).

Diversi risultano, invece, i fatti non avvenuti inerenti a circostanze indefinite, i quali consistono in comportamenti negativi che non possono rientrare integralmente nella sfera di conoscibilità del teste, ad es. qualora si chieda al teste “se è vero che Tizio non è mai passato per un certo luogo”: in tal caso il teste, a meno che non sia stato sempre presente, notte e giorno, nel luogo in cui Tizio non sarebbe passato, non può sapere se per quel luogo quest'ultimo sia transitato quando magari lui non era presente. Un siffatto capo di prova è sovente ritenuto inammissibile dai giudici di merito, perché anche una eventuale risposta positiva, con cui il teste confermi di non aver mai visto passare Tizio, non risulterebbe utile e concludente ai fini della decisione, non potendosi escludere che Tizio sia ugualmente transitato in altri orari o giorni rispetto all'osservazione del teste. Sarebbe allora più corretto non ammettere il capo di prova (non per la sua negatività, bensì) per la sua irrilevanza, sempre che il giudice non ritenga ugualmente utile la circostanza negativa dedotta in relazione al diverso profilo della periodicità del passaggio.

Nel caso, infine, di fatti non avvenuti ma allegati in maniera specifica dalla parte che intende dimostrarli, come allorquando si voglia provare che, diversamente da quanto sostenuto dalla controparte, “Tizio alle ore 15 del 15/05/21 non si trovava a Napoli”, è possibile articolare un capo di prova positivo e contrario nel senso di chiedere al teste “se è vero che Tizio il 15/05/21, alle ore 15, si trovava a Milano”; oppure se si intende provare che Tizio tra le ore 14 e le 15 del 15/05/21 non ha abbandonato il posto di lavoro, si potrà provare che lo stesso, nel predetto orario, ha regolarmente operato nella sua postazione lavorativa. In tali casi, lo “specifico fatto positivo contrario”, di cui al tradizionale orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, essendo basato su una circostanza certa, consente di desumere, per presunzione, il “fatto negativo” (nel primo dei predetti esempi, se è dimostrato che Tizio, nelle circostanze di tempo indicate, si trovava a Milano, si può desumere che lo stesso, salvo il dono dell'ubiquità, non poteva trovarsi nello stesso momento a Napoli). Analogamente, come ribadito da Cass. civ., 6 dicembre 2011, n. 26200, i genitori, per superare la presunzione di colpa prevista dall'art. 2048 c.c., debbono fornire non la prova legislativamente predeterminata di non aver potuto impedire il fatto (atteso che si tratta di prova negativa), ma quella positiva di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata, il tutto in conformità alle condizioni sociali, familiari, all'età, al carattere e all'indole del minore.

In definitiva, come può evincersi dalle variegate ipotesi riscontrabili nella pratica, i principi che presiedono alla corretta formulazione dei capi di prova testimoniale - una delle attività processuali più delicate dell'attività difensiva - non possono essere assolutizzati, ma vanno adattati alla particolarità del caso concreto, senza il vincolo di rigidi formalismi in termini di ammissibilità o meno delle prove negative. Soprattutto, la formulazione dei capi di prova va coordinata con gli oneri probatori e con il connesso principio di vicinanza o riferibilità dei mezzi di prova (in proposito, si rimanda a Cass. civ., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533).

La pronuncia in commento ha il merito di aprire la strada ad una più approfondita riflessione in ordine al tradizionale principio del negativa non sunt probanda, ma ancora insufficiente appare l'elaborazione giurisprudenziale da compiere per pervenire ad una delimitazione dell'ambito applicativo di tale principio più rispettosa del diritto di difesa delle parti.

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