Il contratto concluso dall’amministratore in conflitto di interessi

Martino Liva
10 Maggio 2022

Al contratto concluso in conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato firmato da un amministratore di società per azioni è applicabile solo la disciplina generale di cui all'art. 1394 c.c., relativa all'esercizio del potere rappresentativo qualora sia mancato del tutto un momento deliberativo dell'organo gestorio
Massima

Al contratto concluso in conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato firmato da un amministratore di società per azioni è applicabile solo la disciplina generale di cui all'art. 1394 c.c., relativa all'esercizio del potere rappresentativo qualora sia mancato del tutto un momento deliberativo dell'organo gestorio collegiale precedente la conclusione del contratto. Non sono invece applicabili le norme sul conflitto di interessi e gli interessi degli amministratori (artt. 2373 e 2391 c.c.), che invece disciplinano il momento dell'esercizio del potere deliberativo.

E' possibile per l'organo amministrativo convalidare gli atti posti in essere in conflitto di interessi da parte dell'amministratore della società, ove si rientri nella fattispecie di cui all'art. 2391 c.c., purché sia accertabile univocamente, al di là della mera approvazione degli atti gestori, la specifica volontà di far proprio l'atto posto in essere dal rappresentante.

Il caso

La sentenza pronunciata dalla Corte di Cassazione qui in commento costituisce l'esito di una vertenza giudiziaria inizialmente promossa da una S.r.l., con decreto ingiuntivo opposto dalla S.p.A. ingiunta (e poi vincitrice dei due gradi di giudizio di merito), la quale aveva ottenuto, con il giudizio di opposizione, l'annullamento ex art. 1394 c.c. di due contratti di consulenza ed agenzia pubblicitaria.

Il vizio dei contratti oggetto di annullamento consisteva nel conflitto di interessi esistente tra l'amministratore delegato rappresentante la S.p.A. e l'altra società contraente, nella cui compagine sociale era presente, «con una partecipazione rilevante», proprio lo stesso amministratore delegato. Il quale – particolare non irrilevante – poco dopo la firma dei contratti aveva poi rassegnato le proprie dimissioni dalla S.p.A. assicurando così alla S.r.l. da lui partecipata «una sorta di rendita correlata alla conclusione di contratti di durata triennale e per un corrispettivo sicuramente maggiore di quello che si sarebbe potuto ricavare secondo le regole della concorrenza».

I giudici di legittimità hanno confermato la sentenza di appello e rigettato il ricorso, avendo da un lato –per quanto riguarda il profilo più sostanziale - condiviso la qualificazione giuridica della fattispecie data dalla Corte di Appello. Vale a dire la non applicabilità, al caso in esame, delle norme sul conflitto di interessi, e, più in generale, gli interessi degli amministratori (artt. 2373 e 2391 c.c.) in tema di società per azioni, in quanto non vi era stato nessun momento deliberativo in seno all'organo amministrativo collegiale della S.p.A. circa la firma dei contratti. Dall'altro lato - per quanto riguarda l'aspetto “probatorio” e il motivo di ricorso circa la falsa applicazione dell'art. 2729, comma 1, c.c. – è stata rilevata carente l'attività argomentativa del ricorrente, che, nel contestare l'utilizzo del ragionamento presuntivo del giudice di merito, non aveva messo in luce l'assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio.

Le questioni giuridiche

La sentenza in esame, innanzitutto, fornisce una puntuale chiave di lettura in merito all'applicabilità di due norme che regolano gli interessi degli amministratori: l'art. 1394 c.c., norma generale in tema di annullamento del contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi e gli artt. 2373 e 2391 c.c., norme particolari del diritto societario in tema di interessi degli amministratori di società per azioni. La sentenza segue la pronuncia “gemella”, decisa poche settimane prima in seno alla medesima sezione della Cassazione (Cass. Civ. 5 gennaio 2022 n. 255) e si uniforma a un filone interpretativo sulle norme sopra citate – seppure enunciato in modo meno puntuale rispetto a quanto avviene nel caso in esame - già espresso anche dalla prima sezione della Cassazione (cfr. Cass. Civ. 26 gennaio 2006 n.1525 e poi Cass. Civ. 13 febbraio 2013 n. 3501, entrambe in De Jure, Redazione Giuffrè).

Il tema rilevante su cui si soffermano i giudici riguarda la distinzione tra l'interesse dell'amministratore, che si concretizza nella fase deliberativa, e l'atto esecutivo viziato da conflitto di interessi, non preceduto da fase deliberativa. E' noto infatti che non ogni atto posto in essere da un amministratore delegato sia preceduto da una decisione collegiale. Può ben trattarsi – come nel caso in esame - di un atto già ricompreso nel set di deleghe a questo attribuite dall'organo collegiale, che quindi non necessita di una delibera ad hoc. In tal caso – come nel caso di contratto eseguito da un amministratore unico – la norma che regola il conflitto di interessi e consente alla società una “via di fuga” dal contratto viziato è individuata nell'art. 1394 c.c. (che consente al rappresentato di richiedere l'annullamento del contratto). Non, invece, negli artt. 2373 e 2391 c.c. che si pongono nell'ottica della delibera e individuano come tutela per la società l'impugnazione delle delibere stesse (assembleari o consiliari, a seconda del caso) assunte con il voto determinante dell'amministratore interessato.

Quando, poi, un conflitto di interessi sia idoneo a incidere sulla validità del negozio determinando la “sanzione” di cui all'art. 1394 c.c. è altro tema rilevante rispetto a cui pure i giudici prendono posizione. Il “test” usualmente applicato da giurisprudenza unanime (tra cui la sentenza in esame) per l'individuazione di un conflitto è quello della «incompatibilità fra le esigenze del rappresentato e quelle personali del rappresentante» che consenta «la creazione dell'utile di un soggetto mediante il sacrificio dell'altro». Un “test” che, si badi, deve essere necessariamente dimostrato in concreto, con riferimento al singolo atto o negozio e alle sue specifiche clausole, avendo peraltro cura di verificare la riconoscibilità del conflitto richiesta dall'art. 1394 c.c. al momento perfezionativo del contratto, restando irrilevanti evenienze successive, eventualmente modificative dell'iniziale convergenza d'interessi (cfr. anche, tra le sentenze di merito, Trib. Catania, 29 giugno 2020, n. 2244; Tribunale Nola, 18 gennaio 2019, n. 186).

La concretezza di tale verifica, come accennato, concerne anche la conoscenza - o riconoscibilità - da parte del terzo del conflitto di interessi (richiesta dall'art. 1394 c.c. per sanzionare con l'annullamento il contratto). Al riguardo, i giudici si soffermano a delineare l'ambito applicativo delle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.) rispetto a tale verifica, fornendo un'attenta analisi sul procedimento logico, diviso in due momenti valutativi, sottostante la prova per presunzioni configurata dalla legge. Se ne desume che, evidentemente, la prova per presunzioni semplici è possibile anche per la verifica circa la conoscenza - o riconoscibilità - da parte del terzo del conflitto di interessi. Essa però è rimessa alla prudente valutazione del giudice di merito e, come tale, trattasi di un apprezzamento «sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato». Salvo che il giudice di merito fondi «la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza», circostanza che tuttavia spetta al ricorrente provare, con puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione dell'errore logico del giudice e non mediante una mera «prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito».

Osservazioni

Da un punto di vista sistematico, la sentenza in esame consente di rimarcare la differenza strutturale – figlia della riforma del diritto societario del 2003 – tra la norma generale del diritto dei contratti (art. 1394 c.c.) che regola il conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante e l'art. 2391 c.c. che si riferisce invece agli “interessi” (senza specifica menzione del concetto di “conflitto”) degli amministratori in sede consiliare. Oltre che a una fattispecie applicativa diversa (fase esecutiva la prima, fase deliberativa la seconda, come messo in luce dalla sentenza in esame), le due norme hanno anche un raggio di azione differente. In particolare, l'art. 2391 c.c. mira non tanto a far emergere (o punire) il conflitto di interessi, ma ad assicurare una circostanziata e precisa disclosure da parte degli amministratori di qualsiasi loro interesse personale, diretto o indiretto (anche non confliggete con la società) verso una determinata operazione. In altri termini, l'art. 2391 c.c. può essere letto alla stregua di una norma “programmatica”, che punta a garantire processi virtuosi di governance negli organi amministrativi delle società per azioni. Il raggio di applicazione è ampio, viene lasciata discrezionalità al singolo amministratore se astenersi o meno dalla votazione (eccezion fatta per l'amministratore delegato e l'amministratore unico per cui esiste un obbligo) e solo nel caso di inosservanza degli obblighi di disclosure o di voto determinante dell'amministratore interessato è prevista la “sanzione” della impugnazione della delibera (per un approfondimento, tra i vari, G. Minervini, Gli interessi degli amministratori di S.p.A., in Il nuovo diritto delle società, Torino, 2007).

Altra interessante osservazione che deriva dall'analisi della sentenza riguarda l'eventuale convalida successiva dell'atto da parte dell'organo amministrativo cui appartiene l'amministratore delegato in conflitto di interessi. Come noto, infatti, è consentito dal nostro sistema normativo la ratifica da parte dell'organo collegiale dell'atto posto in essere dal falsus procurator. Ciò, tuttavia, non può avvenire mediante comportamenti concludenti o implicitamente. Non è accoglibile, pertanto, dicono i giudici della sentenza in commento, la tesi prospettata in giudizio circa la possibilità di ritrovare nell'obbligo legale di riferire periodicamente al CdA della propria gestione che grava sull'amministratore delegato una presunzione di conoscenza dell'organo gestorio dell'atto compiuto dallo stesso in conflitto. Anzi, per i giudici nemmeno la «condotta esecutiva del contratto [è considerabile] come idonea a porre in essere la convalida del contratto». Sul punto, la giurisprudenza (cfr. Cass. Civ. 25 ottobre 2016, n. 21517 in De Jure, Redazione Giuffrè) è piuttosto rigorosa nel domandare la dimostrazione di univoca volontà da parte dell'organo amministrativo nel voler ratificare l'atto. Ciò ha condotto, peraltro, ad arresti giurisprudenziali che hanno escluso espressamente che le delibere con cui viene approvato il bilancio di esercizio possano tradursi nell'approvazione dei singoli atti gestori in questo riportati (oltre alla già citata Cass. Civ. 25 ottobre 2016, n. 21517, si veda Cass. Civ. 13 marzo 2013, n. 6220).

Conclusioni

La sentenza in esame ha diversi spunti interessanti sia di diritto sostanziale sia di diritto processuale innanzi analizzati. Rimarca con precisione la differenza strutturale tra l'art. 1394 c.c. e le norme sul conflitto di interessi e gli interessi degli amministratori (artt. 2373 e 2391 c.c.), guidando puntualmente l'interprete a finalizzare la propria azione giudiziaria con un focus sull'una o l'altra disposizione, a seconda delle circostanze concrete che precedono la sottoscrizione del contratto, con particolare attenzione alla presenza, o meno, di un momento deliberativo collegiale.