La responsabilità della struttura sanitaria per i danni invocati iure proprio dai congiunti di un paziente danneggiato è extracontrattuale
10 Maggio 2022
Cinque anni di tempo a disposizione per agire in giudizio contro la struttura sanitaria e chiedere un ristoro economico per il disagio subito a causa dei problemi di salute riportati dalla familiare. Questo il principio che, applicato dai Giudici, ha sancito la sconfitta di una donna che aveva posto sotto accusa la casa di cura in cui era stata operata la madre, spiegando che quest'ultima aveva subito un peggioramento della propria condizione di invalidità e lei aveva dovuto prestarle assistenza nelle fasce orarie non coperte dalla badante. All'origine della vicenda c'è la disavventura subita da una anziana signora: quest'ultima cade e si rompe il femore. Per ridurre la frattura viene eseguita un'operazione in una casa di cura privata, ma gli esiti non sono quelli sperati: la donna si ritrova con una situazione di invalidità peggiorata. A quel punto scatta la richiesta di risarcimento nei confronti della struttura sanitaria, e la signora si vede dare ragione sia in primo che in secondo grado, con tanto di sentenza d'Appello del 2011 che passa in giudicato, non essendo impugnata in Cassazione. Due anni dopo, invece, ad agire è la figlia della signora. Nello specifico, la donna promuove un giudizio contro la medesima casa di cura e chiede «il risarcimento dei danni da lei patiti per aver dovuto prestare assistenza alla madre nelle ore non coperte dalla badante» e ciò, spiega, «a causa dell'aggravamento della invalidità della madre». Tutto ciò a partire dal mese di settembre del 2006, precisa la donna. Sia in primo che in secondo grado, però, la richiesta di risarcimento presentata dalla figlia dell'anziana donna operata viene respinta. In particolare, in Appello, viene chiarito che «il diritto dei congiunti ad essere risarciti in via riflessa dalla struttura sanitaria, e ciò a causa dell'esito infausto di un'operazione chirurgica subita dalla persona danneggiata principale, è soggetto al termine di prescrizione quinquennale, in quanto i congiunti non possono giovarsi del termine più lungo derivante dall'inquadramento contrattuale della responsabilità sanitaria». I giudici di secondo grado precisano ulteriormente che «anche a voler far decorrere il termine prescrizionale dall'anno 2006, sarebbe comunque maturata la prescrizione quinquennale in quanto l'atto di citazione di primo grado – primo atto interruttivo – è stato introdotto solo nel 2013».
Col ricorso in Cassazione l'avvocato che rappresenta la donna prova a mettere in discussione l'applicazione della prescrizione così come tracciata in Appello. Più precisamente, il legale sostiene che «l'exordium praescriptionis dell'azione risarcitoria è da collocare nel luglio 2011 – data di pubblicazione della sentenza di appello nel giudizio promosso dalla anziana paziente nei confronti della casa di cura – e, anzi, nella data di passaggio in giudicato di tale sentenza (da far risalire all'ottobre 2012), giacché prima di tale momento la figlia non avrebbe potuto agire nei confronti della struttura perché non era ancora stata accertata in via definitiva la responsabilità dell'ospedale». In aggiunta, poi, il legale lamenta il «mancato riconoscimento dell'azione contrattuale nei confronti dell'ospedale da parte del familiare tenuto all'assistenza nei confronti del paziente leso». A questo proposito egli sostiene che «il contratto di spedalità ha effetti protettivi anche nei confronti di terzi e, quindi, anche nei confronti dei familiari del paziente che siano tenuti all'assistenza».
Queste obiezioni non convincono però i Giudici di Cassazione, i quali evidenziano, invece, che «a fronte di una pretesa risarcitoria fondata sull'aggravamento dell'invalidità della madre – aggravamento collocato nel settembre del 2006 – che viene indicata come conseguente ai postumi residuati dall'intervento chirurgico (risalente a data anteriore al 2001), la figlia aveva la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria anche prima del passaggio in giudicato della sentenza di appello pronunciata fra la madre e la struttura ospedaliera». In sostanza, «l'accoglimento della pretesa» dalla figlia «non era condizionato alla preventiva affermazione definitiva della responsabilità della struttura sanitaria», e comunque, annotano i Giudici, «già dal settembre del 2006 la figlia disponeva di tutti gli elementi necessari per esercitare il proprio diritto al risarcimento, essendosi determinata la situazione irreversibile di pregiudizio che si assumeva conseguente ai postumi residuati alla madre dall'intervento».
Erroneo, inoltre, «l'assunto che i congiunti del paziente danneggiato in ambito sanitario possano fruire del termine prescrizionale decennale correlato alla responsabilità contrattuale medica». Ciò perché «è pacifico che la responsabilità della struttura sanitaria per i danni invocati iure proprio dai congiunti di un paziente danneggiato (o deceduto) è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall'altro i parenti non rientrano nella categoria dei terzi protetti dal contratto, potendo postularsi l'efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l'interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch'esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale», come avviene, ad esempio, «nel contratto concluso dalla gestante con riferimento alle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione».
(Fonte: Diritto e Giustizia) |