Gli “aggiornamenti retributivi” vanno ricompresi nella retribuzione globale di fatto ex art. 18 st. lav. spettante al lavoratore reintegrato?

Luigi Di Paola
17 Maggio 2022

In tema di conseguenze patrimoniali da licenziamento illegittimo ex art. 18 st. lav. (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012)...
Massima

In tema di conseguenze patrimoniali da licenziamento illegittimo ex art. 18 st. lav. (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012), la retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato - dovendosi ricomprendere nel suo complesso anche ogni compenso avente carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento -, ad eccezione dei compensi eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonché di quelli aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale.

(Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva escluso dalla base di calcolo dell'indennità risarcitoria sia i premi ed incentivi che gli incrementi retributivi previsti da accordi sindacali posteriori all'impugnazione del licenziamento ma anteriori alla reintegra).

Il caso

Un lavoratore agisce in giudizio per ottenere la condanna del datore al pagamento, in suo favore, di una somma a titolo di incrementi retributivi, premio aziendale ed incentivi economici maturati dal giorno di avvenuta intimazione del licenziamento, dichiarato in precedente giudizio nullo con conseguente ordine di reintegra.

In primo e in secondo grado la domanda viene rigettata sul rilievo che, in virtù dei principi di corrispettività ed effettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro, la retribuzione globale di fatto va individuata in quella percepita al momento del recesso, non rilevando la sua dinamica economica per effetto della successiva contrattazione.

La S.C. cassa con rinvio la sentenza impugnata, ritenendo non condivisibile tale argomentazione, in quanto, in tema di conseguenze patrimoniali da licenziamento illegittimo ex art. 18 st. lav., la retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito “se avesse lavorato”.

La questione

La questione in esame è la seguente: nella base di computo della “retribuzione globale di fatto” spettante ex art. 18 st. lav. al lavoratore reintegrato a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento nell'ambito della tutela reale, rientrano, oppure no, anche gli incrementi retributivi previsti dalla contrattazione collettiva intervenuta successivamente al licenziamento?

Le soluzioni giuridiche

La S.C., con riferimento a vicenda disciplinata dal regime antecedente (nel quale l'indennità risarcitoria connessa al licenziamento inefficace o invalido era commisurata alla “retribuzione globale di fatto” dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione) alla data di entrata in vigore della cd. “riforma Fornero”, dissente esplicitamente da altro precedente – Cass. 10 febbraio 2014, n. 2887 – nel quale era stato affermato che «In materia di risarcimento del danno derivante da licenziamento illegittimo, l'indennità di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, va determinata con riferimento alla retribuzione goduta di fatto dal lavoratore al momento dell'intimazione del recesso, e non a quella a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto dalla data del recesso fino all'effettiva reintegrazione.

Ne consegue l'irrilevanza degli eventuali incrementi retributivi determinati dall'evoluzione della successiva contrattazione».

La attuale presa di posizione (che ricalca l'orientamento seguito da Cass. 22 settembre 2011, n. 19285, ove è affermato che «L'indennità risarcitoria di cui all'art. 18, comma quarto, della legge n. 300 del 1970, come sostituito dall'art. 1 della legge n. 108 del 1990, deve essere commisurata alla retribuzione globale di fatto spettante al lavoratore al tempo del licenziamento, nella quale, in relazione alla natura risarcitoria delle somme spettanti al lavoratore in seguito all'illegittimo licenziamento, vanno inclusi gli aggiornamenti delle retribuzioni medesime che, di detta natura, costituiscono espressione») è da condividere, poiché, per principio generale, la tutela cd. “reale” è incentrata sul riconoscimento della persistenza del rapporto, la quale si ha per realizzata anche ove il datore si rifiutasse di adempiere all'ordine del giudice di ricostituzione del rapporto stesso; ed infatti l'inadempimento all'ordine in questione non potrebbe risolversi in un vantaggio per il datore, derivante dal “blocco” dell'entità della retribuzione al momento del licenziamento.

Già in passato la S.C. (cfr. Cass. 16 settembre 2009, n. 19956) aveva del resto precisato che non possono essere addossate al lavoratore le conseguenze negative di un illecito altrui, ossia del datore inadempiente.

Pertanto, poiché il trattamento economico deve essere parametrato a quello spettante al lavoratore ove la prestazione fosse stata effettivamente eseguita (tale essendo il senso dell'espressione «la retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato», su cui v., anche, di recente, Cass. 3 dicembre 2020, n. 27750), gli aumenti retributivi, per così dire, ordinari (ossia legati al mero svolgimento della normale attività lavorativa), dovrebbero entrare a comporre la “retribuzione globale di fatto”.

Ciò che resta fuori dall'indennità risarcitoria è, quindi, da un lato, il compenso legato a particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa non prefigurabili, dopo la data dell'estromissione del lavoratore, in base ad un plausibile calcolo di probabilità (i.e.: compensi eventuali e di cui non sia certa la percezione); dall'altro, quello avente normalmente carattere eccezionale od occasionale, comprensivo, ad esempio, di emolumenti correlati a premi derivanti dal raggiungimento di risultati che, in passato, non erano stati costantemente conseguiti.

La tematica, tuttavia, si presenta, nel nuovo regime introdotto dal legislatore delle riforme, in modo meno lineare di quanto potrebbe apparire, sicché è opportuno spendere, in proposito, le sintetiche considerazioni che seguono.

Osservazioni

La attuale versione dell'art. 18 st. lav. commisura, nell'area della tutela reale, l'indennità risarcitoria “all'ultima retribuzione globale di fatto” dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione.

La presenza della parola “ultima” potrebbe indurre a ritenere che il legislatore abbia, nel nuovo scenario normativo, inteso proprio calcolare l'entità della posta risarcitoria “mensile” spettante al lavoratore sulla base di quanto corrisposto allo stesso al momento del licenziamento, senza quindi considerare gli incrementi retributivi stabiliti dalla contrattazione successiva.

Tuttavia, tale impostazione urta avverso il principio, sopra menzionato, secondo cui l'inadempimento del debitore non può risolversi, per taluni profili, in un indebito vantaggio per il medesimo con correlato pregiudizio della controparte.

Il tema è non poco delicato, poiché potrebbe affermarsi che, nella vigenza della vecchia normativa, quel principio di carattere generale avesse una sua autonoma rilevanza capace di orientare, in maniera coerente con il sistema, l'interpretazione della norma; mentre, a seguito della riforma, sarebbe stato lo stesso legislatore a negare quella rilevanza, così ammettendo che, nel caso specifico, l'inadempimento possa andare a beneficio del datore/debitore ed essere di ulteriore pregiudizio (oltre agli ordinari effetti dell'inadempimento) per il lavoratore.

Il tutto, in buona sostanza, ruoterebbe attorno all'assioma secondo cui l'integralità del risarcimento del danno è priva di copertura costituzionale e, pertanto, in tale ambito, il legislatore ben può, nella sua discrezionalità, prevedere, a fronte di determinati pregiudizi, un ristoro solo parziale.

L'impianto ricostruttivo evidenzia, però, alcuni elementi di criticità su cui torneremo.

Basti per ora osservare che, ove il lavoratore illegittimamente licenziato - al quale il datore non avesse corrisposto alcuna somma dal momento dell'estromissione - fosse poi reintegrato in concreto nel posto di lavoro a seguito della declaratoria del giudice, sarebbe assai difficile ammettere che egli, per il periodo tra il licenziamento e la effettiva reintegrazione, non possa fruire degli aumenti contrattuali previsti dalla contrattazione collettiva frattanto intervenuta.

Per giustificare tale disparità di trattamento tra il lavoratore medesimo e gli altri in forza all'azienda non varrebbe infatti sostenere che il licenziamento intimato costituisce elemento di diversificazione, poiché del licenziamento in questione è stata dichiarata la illegittimità da cui deriva per legge la reintegra, la quale, come è noto, ricostituisce il rapporto rimuovendo la causa ostativa alla prosecuzione dello stesso; né sembra convincente il rilievo che nel periodo tra licenziamento e reintegrazione il lavoratore non ha lavorato, poiché la mancata prestazione è l'effetto dell'inadempimento datoriale, che non può ragionevolmente essere posto a carico del lavoratore.

Il senso di logica e ragionevolezza induce in definitiva a ritenere che, anche nella vigenza del nuovo art. 18 st. lav., la retribuzione globale di fatto debba essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito “se avesse lavorato”, tenuto conto della dinamica economica per effetto della successiva contrattazione, sicché “l'ultima retribuzione” costituisce parametro di riferimento che tuttavia non esclude il computo degli aggiornamenti retributivi.

In tal quadro, un problema applicativo non trascurabile è quello di stabilire se gli aumenti stipendiali spettino anche nel caso in cui, nell'ambito della tutela reintegratoria attenuata, in presenza, ad esempio, di un periodo “intermedio” (tra licenziamento e reintegra) di 24 mesi, la contrattazione che abbia contemplato gli aumenti in questione sia intervenuta il tredicesimo mese.

Secondo una prima impostazione potrebbe affermarsi che il lavoratore non abbia titolo a conseguire detti aumenti, in quanto il risarcimento è contenuto, ai sensi dell'art. 18, comma 4, st. lav., nei limiti dei primi dodici mesi di estromissione; ma sembra maggiormente plausibile l'opzione contraria, poiché la norma statutaria non prevede espressamente il riconoscimento del risarcimento in corrispondenza di un periodo temporale, ma solo che «In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto».

Aderendo a tale seconda impostazione, del resto, si previene la irragionevolezza insita nel diverso trattamento economico di cui godrebbero due lavoratori che si trovino nella stessa posizione, la quale non pare possa essere “alterata” a svantaggio di quello licenziato ma poi reintegrato.

Tale percorso argomentativo porta a ragionare sulla plausibilità della stessa scelta del legislatore di contenere la misura del risarcimento entro le dodici mensilità, nell'ipotesi di tutela reintegratoria attenuata.

Si è infatti visto che, ricostruendo la fattispecie dalla (ipotetica) fase di ricostituzione effettiva del rapporto ad opera del datore, non sembrano rinvenibili plausibili ragioni per diversificare il trattamento economico del dipendente che ha sempre lavorato da quello che non ha lavorato nel periodo intermedio a causa dell'inadempimento del datore.

Pertanto, così come non pare ragionevole che il secondo non abbia diritto agli aumenti contrattuali intervenuti nel periodo “intermedio”, a maggior ragione si rivela poco plausibile l'amputazione di parte del risarcimento, in un settore nel quale la qualificazione della posta - spettante al lavoratore ingiustamente licenziato nell'area della tutela reintegratoria - come risarcitoria appare più formale che sostanziale, non parendo dubbio che la posta in questione debba assolvere alla funzione della retribuzione.

Sembra peraltro da escludere che la limitazione del risarcimento possa trovare un aggancio di ragionevolezza nell'insussistenza della copertura costituzionale della reintegra, poiché ove quest'ultima non sia normativamente negata (come appunto nel caso della tutela reale attenuata), la posta risarcitoria non si presta naturalmente ad una “forfettizzazione” connaturata alla cessazione del rapporto di lavoro, dispiegandosi in un arco temporale in cui il rapporto è invece sempre stato in essere.

Salvo (paradossalmente) ipotizzare che il lavoratore possa agire per il ristoro dei danni non risarcibili ex art. 18, comma 4, st.lav. - da considerare, a questo punto, danni “ulteriori” connessi al licenziamento - mediante il meccanismo ordinario di responsabilità, deducendo (ma anche provando), ad esempio, che, a seguito della mancata reintegra e del difetto di corresponsione di somme per il periodo non coperto dalla posta risarcitoria delle dodici mensilità, egli è stato costretto a far ricorso al prestito bancario per sostenere sé e la sua famiglia.