La potenziale doppia natura del licenziamento ritorsivo: motivo illecito o discriminazione?

Teresa Zappia
27 Maggio 2022

Deve ritenersi apparente la motivazione del giudice che si arresti alla verifica del superamento del periodo di comporto a fronte dell'asserita natura ritorsiva o discriminatoria del licenziamento...
Massima

Deve ritenersi apparente la motivazione del giudice che si arresti alla verifica del superamento del periodo di comporto a fronte dell'asserita natura ritorsiva o discriminatoria del licenziamento, dovendosi escludere che la necessità di un accertamento sui profili lamentati venga automaticamente meno in presenza di una legittima causa di recesso datoriale.

Fatto

Il lavoratore agiva in giudizio per l'accertamento della illegittimità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto dalla società datrice. La Corte di appello di Bologna respingeva il reclamo avverso l'ordinanza resa in sede sommaria ex L. n. 92/2012 con la quale era stata rigettata la domanda.

Il lavoratore presentava ricorso innanzi alla Corte di Cassazione.

Premesso di avere dedotto la natura ritorsiva e discriminatoria del licenziamento, il ricorrente censurava, in modo particolare, l'affermazione della Corte di appello secondo la quale l'esistenza di una ragione giustificativa del licenziamento escludeva il carattere discriminatorio dello stesso, contestando la equiparabilità, sotto questo profilo, del licenziamento discriminatorio con quello ritorsivo per il quale si richiede che il motivo illecito sia stato unico e determinante.

La questione

L'accertato superamento del periodo di comporto esclude l'esame sulla natura ritorsiva o discriminatoria del licenziamento?

La soluzione della Corte

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dal lavoratore.

Secondo i giudici di legittimità le ragioni a sostegno della ritenuta carenza di prova del denunziato motivo ritorsivo e/o discriminatorio non risultavano congrue in relazione agli elementi acquisiti in causa, per come evidenziati nella motivazione della sentenza impugnata. Le sole emergenze istruttorie prese in considerazioni dalla Corte di appello attenevano alla questione della non riferibilità alla condotta datoriale delle assenze per malattia che avevano determinato il superamento del periodo di comporto.

La motivazione, pertanto, era stata puntualizzata su un tema del tutto estraneo al profilo della ritorsività o della discriminatorietà del recesso datoriale. In altri termini, ad avviso della Corte di Cassazione, appariva incongruo desumere la mancanza di prova dell'intento ritorsivo o del carattere discriminatorio del licenziamento intimato dal fatto che il comportamento del datore di lavoro non si configurasse quale causa o concausa delle assenze per malattia. La motivazione è stata, pertanto, ritenuta apparente per la oggettiva impossibilità di ricostruire il percorso logico giuridico del giudice del reclamo con riferimento all'accertamento relativo al difetto di prova del carattere ritorsivo o discriminatorio del recesso datoriale.

I giudici di legittimità hanno escluso che la necessità di tale accertamento venga meno in presenza di una legittima causa di recesso datoriale rappresentata dal superamento del periodo di comporto, rammentando che solo qualora il lavoratore asserisca il carattere ritorsivo del licenziamento, chiedendo l'accertamento della nullità del provvedimento datoriale per motivo illecito ai sensi dell'art. 1345 c.c., occorre che l'intento ritorsivo del datore, la cui prova è a carico del lavoratore, sia determinante, cioè tale da costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, dovendo il motivo lecito formalmente addotto risultare insussistente nel riscontro giudiziale. La prova dell'unicità e determinatezza del motivo non doveva, invece, ritenersi rilevante nel caso di licenziamento discriminatorio, che ben può accompagnarsi ad altro motivo legittimo ed essere comunque nullo.

La Corte di appello aveva, quindi, erroneamente assimilato, sotto suddetto profilo, ogni ipotesi in cui si assuma l'esistenza del motivo illecito del recesso datoriale, senza quindi distinguere quella in cui venga in rilievo un motivo ritorsivo da quella in cui si denunzi il carattere discriminatorio del licenziamento, in relazione al quale la esistenza di un motivo legittimo alla base del recesso datoriale non esclude la nullità del provvedimento, ove venga accertata la finalità discriminatoria dello stesso.

La sentenza è stata, pertanto, cassata in parte qua.

Osservazioni

La sentenza in commento pone all'attenzione una questione non ancora completamente sopita, ossia l'incidenza sul licenziamento, asseritamente discriminatorio o ritorsivo, dell'accertata causa ulteriore, non contraria alla Legge, giustificante il recesso datoriale.

A tale quesito si affianca il dibattito formatosi in merito alla distinzione tra licenziamento discriminatorio e quello per motivo illecito, nonché la riconducibilità a quest'ultimo del recesso datoriale c.d. ritorsivo, ossia motivato da un'ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito, ovvero di altra persona allo stesso legata. Nell'elenco dei fattori di discriminazione, infatti, il Legislatore ha ricompreso anche ipotesi costituenti terreno fertile per la ritorsività, come ad esempio, l'art. 25, co. 2-bis, D.lgs. n. 198/2006 in base al quale è discriminatorio ogni trattamento meno favorevole avente causa nell'esercizio dei diritti relativi allo stato di gravidanza, maternità o paternità, e l'art. 26, co. 3 del medesimo decreto legislativo, secondo il quale sono discriminatori quei “trattamenti sfavorevoli posti in essere dal datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne”.

Tale ambivalenza appare particolarmente evidente, inoltre, nella individuazione come fattore discriminatorio dell'attività sindacale. Quest'ultima, infatti, è stata tradizionalmente considerata come l'ambito per eccellenza di “rappresaglie” datoriali.

Autorevole autore, d'altro canto, ha escluso ogni distinzione, sostenendo che, per evitare l'assorbimento quasi automatico della disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in quella per licenziamento nullo, l'invalidità del recesso datoriale sussisterebbe soltanto quando il motivo discriminatorio o ritorsivo, come tale illecito, sia stato unico determinante ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418 comma 2, 1345 e 1324 c.c. Anche per il licenziamento discriminatorio, pertanto, acquisterebbe rilievo la necessaria esclusività del motivo contrario alla Legge(G.S. Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo discriminazione e ritorsione – assenze per malattia e comporto, in DRI, fasc.1, 2015, pp. 58 ss.).

La soluzione non è dunque immediata e non ha un mero rilievo teorico, incidendo in particolare sulla disciplina applicabile alla singola fattispecie e, dunque, sull'efficacia del licenziamento laddove, essendo ricondotto all'art. 1345 c.c., risulti sussistente una ragione giustificatrice concorrente con quella ritenuta illecita. L'articolo prefato, così come interpretato dai giudici del lavoro, richiede, infatti, che il motivo illecito del recesso datoriale sia stato esclusivo e determinante, non potendo essere disposta la reintegra del dipendente qualora il recesso trovi fondamento in una ulteriore ragione lecita.

Sebbene nel corso degli anni anche il licenziamento discriminatorio sia stata ritenuto come una mera species del licenziamento per motivo illecito, in seguito alla formazione della c.d. normativa antidiscriminatoria, esso è stato guardato come fattispecie autonoma, connotata da proprie peculiarità, anche sotto il profilo probatorio (vd. art. 40 D.lgs. n. 198/2006). In particolare sono state poste in evidenza: la tassatività dei fattori discriminatori rispetto alla genericità del motivo illecito; la superfluità dell'accertamento dell'animus discriminandi ai fini della configurazione della discriminazione rispetto all'imprescindibilità dell'elemento volitivo nella configurazione della fattispecie di cui all'art. 1345 c.c.; la non necessaria esclusività della ragione discriminatoria in contrapposizione alla indefettibile portata esclusiva del motivo illecito.

La distinzione tra le ipotesi in esame, inoltre, appare oggi evidente anche sulla base del dato testuale dell'art. 2 D.lgs. n. 23/2015: il Legislatore, infatti, ha distinto tra l'ipotesi di licenziamento discriminatorio e quelle riconducibili “agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”, tra i quali rientra l'art. 1345 c.c., letto unitamente al secondo comma dell'art. 1418 c.c. (in tal senso: S. Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, W.P. CSDLE Massimo D'Antona, n. 246/2015, 6 ss.). Analogamente l'art. 18 St. Lav. distingue il licenziamento discriminatorio da quello determinato da motivo illecito.

Tenuto conto di quanto sopra, ad avviso di chi scrive sembra opportuno porre l'accento sulla potenziale duplice natura del licenziamento ritorsivo, il quale non sempre appare riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 1345 c.c., ben potendo – come sopra si è osservato - rientrare nel perimetro operativo della disciplina del licenziamento discriminatorio ogniqualvolta il caso concreto presenti dei collegamenti con uno dei fattori di discriminazione.

Tale possibilità è riscontrabile, ad esempio, nella sentenza n. 6575/2016 della Corte di Cassazione ove il licenziamento era seguito alla comunicazione della dipendente di volersi assentare per sottoporsi ad un trattamento di fecondazione assistita il che, quantomeno prima facie, avrebbe ben potuto essere interpretato come reazione arbitraria ed ingiusta ad un comportamento legittimo della lavoratrice. Il licenziamento ritorsivo sarebbe, dunque, riconducibile all'art. 1345 c.c. solo qualora, nella singola fattispecie concreta, non risulti legato a fattori discriminatori, anche indirettamente. In caso contrario, il recesso datoriale dovrebbe essere qualificato come discriminatorio, con tutte le conseguenze da ciò derivanti, sub specie la trascurabilità dell'animus discriminandi e l'irrilevanza del motivo ulteriore lecito.

Tornando alla decisione in commento, il recesso datoriale giustificato dal superamento del periodo di comporto non potrebbe ex se ritenersiillegittimo, tenuto conto del necessario bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco, egualmente tutelati dalla Carta Costituzionale (artt. 2, 32, 41 Cost.). Pertanto, affinché possa essere affermata l'irrilevanza di tale causa del licenziamento, dovrebbe accertarsi la riconducibilità delle assenze reiterate ad uno dei fattori di discriminazione (es. handicap). In tale ultima ipotesi, seguendosi la giurisprudenza sul punto, non vi sarebbe la necessità del carattere unico e determinante del motivo illecito.

Nel caso esaminato nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione sembra aver posto in evidenza, seppur in termini diversi, tale possibilità, in quanto qualora il lavoratore lamenti l'esistenza del motivo illecito del recesso datoriale, il giudice è tenuto a distinguersi l'ipotesi in cui venga in rilievo un motivo ritorsivo da quella in cui si denunzi il carattere discriminatorio del recesso datoriale. L'accertata finalità discriminatoria, infatti, escluderebbe la rilevanza dell'esistenza di un motivo legittimo alla base del licenziamento, incluso il superamento del periodo di comporto.

Per approfondire

F. Marinelli, Ma il licenziamento ritorsivo è discriminatorio o per motivo illecito?, in Riv. it. dir. lav., 2017, II, 735 ss.

R. Zucato, Le reiterate assenze per malattia del lavoratore. Ritorsione, discriminazione o giusta causa?, in, DRI, fasc.2, 2017, pp. 527 ss.

M.V. Ballestrero, Tra discriminazione e motivo illecito: il percorso accidentato della reintegrazione, DLRI, 2016, pp. 242 ss.

M.T. Cianci, Il licenziamento discriminatorio alla luce della disciplina nazionale: nozioni e distinzioni, in RIDL, fasc. 3, 2016, pp. 720 ss.

E. Sessa, Licenziamento discriminatorio e ritorsivo: nozione oggettiva di discriminazione, in Ilgiuslavorista.it, 27 maggio 2016

M.T. Carinci, Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizione di legge o in forma orale, in Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, a cura di M.T. Carinci - A. Tursi, Giappichelli, 2015

A. Guariso, Il licenziamento discriminatorio, in DLRI, 2014, pp. 355 ss.