Nullità della conciliazione giudiziale volta a derogare la durata massima del contratto di lavoro a tempo determinato

Francesco Meiffret
27 Maggio 2022

Sono nulle le rinunce e transazioni, anche se stipulate in sede protetta e persino dinnanzi al Giudice del lavoro, che abbiano per oggetto diritti indisponibili o diritti non ancora entrati nel patrimonio giuridico del lavoratore.
Massima

Sono nulle le rinunce e transazioni, anche se stipulate in sede protetta e persino dinnanzi al Giudice del lavoro, che abbiano per oggetto diritti indisponibili o diritti non ancora entrati nel patrimonio giuridico del lavoratore.

Tra le ipotesi di norma inderogabile in sede conciliativa vi rientra la durata massima del contratto di lavoro a tempo determinato stabilita dal Legislatore.

Il caso

La sentenza della Corte d'appello di Firenze aveva parzialmente riformato quella di I grado ritenendo nulla la conciliazione giudiziale stipulata dal lavoratore con la propria datrice nella quale il primo aveva rinunciato alla conversione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato in cambio di un'ulteriore assunzione a tempo determinato per le medesime mansioni.

Tale ulteriore assunzione avrebbe comportato, come nei fatti ha comportato, il superamento dell'allora limite massimo di 36 mesi per la stipula di contratti a tempo determinato tra i medesimi soggetti e per le medesime mansioni.

Come conseguenza della dichiarata nullità, la Corte d'appello aveva ritenuto meritevole di accoglimento la domanda di conversione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato oltre il risarcimento del danno liquidato in dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte d'appello riteneva che l'accordo fosse nullo per due diversi motivi: il lavoratore aveva rinunciato ad un diritto futuro non ancora entrato a far parte del proprio patrimonio e l'accordo si poneva in contrasto con una norma inderogabile quale è l'art. 19 del d.lgs. 23/2015 che pone(va) come limite massimo di durata dei contratti 36 mesi.

Avverso tale sentenza la società datrice di lavoro propone ricorso in Cassazione sulla base di due motivi.

Con il primo motivo evidenzia come il limite massimo di 36 mesi di durata dei contratti a termine non costituisca una norma imperativa ed inderogabile posto che il comma 3 prevede un'ulteriore proroga di 12 mesi stipulata dinnanzi all'ITL competente per territorio.

Poiché la ratio di tale disposizione è verificare la genuinità del consenso prestato dal lavoratore che di fatto prolunga la propria precarietà, la società ritiene che tale finalità sia stata raggiunta poiché la conciliazione era stata stipulata dinnanzi ad un Giudice e, quindi, in condizioni di maggior tutela. Censurava, inoltre, la sentenza nella parte in cui aveva cumulato il periodo oggetto di transazione poiché detto accordo aveva natura di transazione novativa con la conseguenza che detto periodo non avrebbe dovuto essere considerato nel computo dei 36 mesi.

Le questioni giuridiche

A quali diritti può rinunciare il lavoratore in una conciliazione?

Le conciliazioni stipulate nelle cd “sedi protette” possono essere impugnate?

Il termine massimo di durata del contratto di lavoro a tempo determinato stabilito dall'art. 19 del Dlgs 81/2015 può essere derogato dalle parti?

La decisione

La Suprema Corte conferma la decisione della Corte d'appello di Firenze.

La conciliazione giudiziale ha impedito la regolamentazione del rapporto così come imposto della legge e cioè la conversione da determinato a indeterminato qualora il contratto a tempo determinato si sia prolungato per oltre 36 mesi tra i medesimi soggetti e per mansioni appartenenti al medesimo livello e categoria legale.

In questo modo la conciliazione ha violato una norma imperativa. Inoltre la conciliazione ha avuto oggetto un diritto futuro posto che, al momento della sua sottoscrizione, non erano ancora maturati i 36 mesi per richiedere la conversione.

La Suprema Corte rileva come anche la seconda censura non sia meritevole di accoglimento.

Poiché la procedura prevista dal 3° comma dell'art. 19 del Dlgs 81/2015 è una norma che seppur di carattere processuale ha come precipuo scopo quello di tutelare il contraente debole, non può essere oggetto di un'interpretazione estensiva e/o analogica volta a creare ulteriori eccezioni nell'applicazione della norma interpretata e, di conseguenza, attenuare la tutela stabilita per il lavoratore.

Osservazioni

La sentenza in commento permette di analizzare una questione che sta impegnando sempre con maggiore frequenza sia la giurisprudenza di legittimità che quella di merito: la validità delle rinunce e delle transazioni stipulate dai lavoratori nelle cosiddette sedi protette.

La ragione è molto semplice: con il proliferare dal 2003 ad oggi di vari possibili enti che possono istituire al loro interno organismi di conciliazione, l'utilizzo di tale istituto è diventato sempre più spregiudicato.

La giurisprudenza ha avuto modo di affrontare casi in cui il contenuto delle conciliazioni (e, in ipotesi ancora più frequenti, delle certificazioni di contratti di lavoro) fosse palesemente in contrasto con norme imperative.

In pratica si è sviluppato all'interno di certi ambienti, più vicini al concetto di diritto del mercato del lavoro piuttosto che al diritto del lavoro, l'idea che i lavoratori, nelle sedi cd protette, possano conciliare su qualsiasi istituto e argomento. Alcune sedi conciliative sono diventate, quindi, “una notte nera dove tutte le vacche sono nere”.

Per questo motivo è toccato alla giurisprudenza ricordare che il lavoratore non può transare su qualsiasi diritto e su qualsiasi istituto. E sempre i Giudici, sia di legittimità che di merito, hanno dovuto specificare i requisiti di forma e di sostanza affinché una conciliazione sia valida.

Partendo da quali posizioni giuridiche possano essere oggetto di transazione, bisogna subito precisare come non sia facile determinare la disponibilità o l'indisponibilità del diritto perché il I comma dell'art 2113 c.c. non indica quali siano le norme inderogabili. Accade di frequente che sia compito dell'interprete stabilire se una norma sia inderogabile o meno e, nella quasi totalità dei casi, per quanto riguarda le clausole presenti nei CCNL.

Secondo la giurisprudenza, la qualificazione della disponibilità o meno del diritto, non dipende dalla natura risarcitoria o retributiva dello stesso, non sussiste un nesso automatico con la lesione di diritti fondamentali, ma dipende esclusivamente dalla natura inderogabile o meno della norma che, come appena precisato, non viene sempre stabilito esplicitamente (cfr. Cass., Sez. Lav., 12 maggio 2008, n. 11659).

Un primo nucleo di diritti sui quali il lavoratore non può transigere sono quelli che riguardano la propria persona e riconducibili al concetto di “diritti personalissimi”. Rientrano in questa categoria il diritto alla salute e alla sicurezza sul luogo di lavoro che costituiscono una precondizione del rapporto di lavoro. Accanto a tali due diritti si può certamente sostenere che non possa essere oggetto di transazione quello di non subire discriminazioni sul luogo di lavoro dal momento che anche tale diritto mira a tutelare l'integrità psicofisica del lavoratore.

Un altro diritto per il quale si può argomentare che rientri nel novero di quelle posizioni che non possono essere oggetto di conciliazione è quello sancito dall'art. 36 Costituzione che prevede che il lavoratore abbia una retribuzione proporzionale rispetto alla quantità e quantità del lavoro svolto, e che gli garantisca una vita dignitosa. E, ad esempio, su questo punto si innesta la contrattazione collettiva dal momento che quanto stabilito come retribuzione minima nei contratti collettivi stipulati dalle associazioni comparativamente più rappresentative viene presuntivamente ritenuto adeguato rispetto ai parametri stabiliti dall'art 36 Cost.

Presunzione che, in alcuni casi, non ha superato il controllo giudiziale.

Tralasciando i cd contratti pirata, sussistono casi in cui nemmeno quanto stabilito nei contratti collettivi siglati da CGIL, CISl e UIL a titolo di retribuzione sia stato ritenuto proporzionale e adeguato.

La Corte d'appello di Milano con sentenza 1855 del 10 aprile 2017 ha confermato quella resa dal Tribunale di I grado che aveva stabilito la non adeguatezza dei minimi tabellari dei vari contratti collettivi applicati ad un lavoratore impiegato nell'appalto di servizio di portineria. Il lavoratore in questione aveva visto quasi dimezzarsi la propria retribuzione pur svolgendo le medesime mansioni.

Infatti nel 2012 con il CCNL Multiservizi integrati percepiva una retribuzione lorda di € 1301,94, scesa nel 2014 ad € 715,17 poiché l'impresa subentrante applicava il CCNL Servizi con una retribuzione di € 715,17. Proprio i minimi tabellari di tale ultimo contratto erano stati riconosciuti non conformi ai dettami stabiliti dall'Art. 36 Cost.

Altri casi di diritti indisponibili sono il diritto al riposo giornaliero, settimanale ed annuale poiché manifestazione del diritto alla salute (cfr. Cass., sez. lav., 15 dicembre 1998, n. 12556, la quale tuttavia precisa che può essere oggetto di transazione la eventuale successiva indennità sostitutiva) ed il TFR nel caso di conciliazione stipulata durante il rapporto di lavoro poiché esso non è ancora entrato nella disponibilità del patrimonio del lavoratore (Cass., sez. lav., 11 novembre 2015, n. 23087).

Nella sopra richiamata sentenza, come in quella brevemente annotata in questa sede, viene ribadito , inoltre, la nullità delle cd rinunce preventive ovvero quando la rinuncia stessa impedisce che un determinato diritto possa sorgere all'interno della sfera giuridica del lavoratore. In quest'ipotesi la sanzione è la nullità ex art. 1418 c.c. (sul punto si veda Cass., Sez. Lav., 14 dicembre 1998 n. 12458, Cass, Sez. Lav., 4 settembre 2015, n. 17622).

Ma oltre che la questione di quali diritti possano essere oggetto di rinuncia o transazione occorre prendere in disamina un altro elemento: l'effettiva assistenza del lavoratore nelle conciliazioni stipulate all'interno delle sedi protette.

Circostanza non di poco conto dal momento che il Legislatore, com'è noto, stabilisce che le rinunce e transazioni effettuate in tali sedi non siano impugnabili.

Sul punto sussistono varie pronunce che analizzano l'esistenza del requisito dell'effettiva assistenza della conciliazione in sede sindacale. La giurisprudenza più attenta ha evidenziato come sia necessaria non solo la presenza del rappresentante sindacale, ma che questo effettivamente svolga un ruolo attivo in sede di conciliazione per tutelare il proprio associato.

Ad esempio la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 24024 del 23 ottobre 2013, ha stabilito che, affinché sia integrato il requisito dell'effettività dell'assistenza del lavoratore, è necessario che il rappresentante esplichi in maniera chiara al primo a quale diritto egli rinuncia e a fronte di quale vantaggio (in senso conforme si veda anche Cass., sez. lav., 1° aprile 2019, n. 9006).

E', inoltre, necessario, che il legislatore si adoperi a favore del lavoratore in modo da ripristinare una effettiva parità con l'impresa, a tutela del suo consapevole consenso (si veda ad es Cass., Sez. Lav., 3 settembre 2003, n. 12858, Cass., Sez. Lav. , 11 novembre 1997, n. 11248).

A parere di chi scrive l'effettiva assistenza deve essere valutata ancora con maggiore attenzione nelle conciliazioni stipulate negli organismi di conciliazione (e di certificazione dei contratti di lavoro) in cui gli onorari della procedura vengono saldati – circostanza lecita- da una delle parti che, ovviamente, nella stragrande maggioranza dei casi consiste nel datore di lavoro.

E' chiaro che sulla base di questo sistema si favoriranno quegli organismi di conciliazione (o di certificazione dei contratti) che dimostrano maggiore elasticità nell'interpretare come lecito l'atto da certificare.

Non in ultimo occorre che il lavoratore sia effettivamente cosciente su quali posizioni concilia ed a quali diritti rinuncia. Tale requisito è strettamente connesso a quello della precisa determinazione dell'oggetto: non ci può essere, infatti, una reale consapevolezza degli effetti dell'atto se questo non è determiato o quantomeno determinabile nel suo oggetto (Cass., sez. lav., 28 agosto 2013, n. 19831).

Conclusioni

In sintesi la conclusione alla quale è giunta la Suprema Corte appare corretta.

La peculiarità del caso in questione è che la conciliazione in questione sia stata sottoscritta dinnanzi ad un Giudice del Lavoro che di fatto ha avvallato e sottoscritto un accordo contra legem.

Come già evidenziato, in caso di controversie aventi oggetto conciliazione nelle cd sedi protette il Giudice dovrà sempre verificare la sussistenza dei requisiti evidenziati nel presente paragrafo.

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