Fallimento omisso medio: il punto delle Sezioni Unite

Luca Jeantet
30 Maggio 2022

Può essere dichiarato il fallimento del debitore già ammesso a concordato preventivo omologato senza la preventiva risoluzione di quest'ultimo? Le Sezioni Unite compongono il contrasto sviluppatosi intorno all'ammissibilità del c.d. fallimento omisso medio.
La massima

Nella disciplina della legge fallimentare risultante dalle modificazioni apportate dal D.Lgs. 5/2006 e dal D.Lgs. 169/2007, il debitore ammesso al concordato preventivo omologato che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordatari può essere dichiarato fallito, su istanza dei creditori, del PM o sua propria, anche prima ed indipendentemente dalla risoluzione del concordato, ex art. 186 l.fall.

La questione giuridica e le soluzioni

Con la sentenza Cass., Sez. Un., 14 febbraio 2022, n. 4696 le sezioni unite sembrano aver voluto mettere un punto definitivo sulla vexata quaestio della possibilità di introdurre nell'ordinamento una condizione di procedibilità delle istanze di fallimento non espressamente prevista dall'attuale disciplina fallimentare, statuendo chiaramente la fallibilità, su istanza di tutti i soggetti annoverati nel primo comma dell'art. 6 l.fall., del debitore ammesso al concordato preventivo poi omologato, e ciò anche a prescindere dalla preventiva risoluzione del concordato ai sensi dell'art. 186 l.fall.

Osservazioni

Con la pronuncia in commento le sezioni unite della Suprema Corte hanno inteso dirimere il contrasto interpretativo sorto non tanto in giurisprudenza, quanto tra il chiaro orientamento espresso dai giudici di legittimità e la discorde opinione manifestata dalla prevalente dottrina, nonché da talune corti di merito, con riguardo al tema del fallimento c.d. omisso medio, ossia alla possibilità di dichiarare il fallimento di un debitore che abbia ottenuto l'omologazione di una proposta di concordato preventivo, senza che venga preventivamente dichiarata la risoluzione del concordato medesimo, ai sensi dell'art. 186 l.fall.

Sul punto, la Corte di Cassazione aveva difatti già avuto modo di esprimersi, ritenendo che “non sussistono preclusioni alla dichiarazione di fallimento di società con concordato preventivo omologato ove si faccia questione […] dell'inadempimento di debiti già sussistenti alla data del ricorso L. Fall., ex artt. 160-161 e però modificati con detta omologazione, dovendosi verificare all'epoca della decisione così sollecitata i presupposti di cui alla L. Fall., artt. 1 e 5” (in questi termini, Cass. 17 luglio 2017, n. 17703). In una diversa pronuncia, di poco successiva a quella citata, la Suprema Corte ha ribadito tale orientamento, confermando altresì che “in tal caso l'azione esperita dal creditore costituisce legittimo esercizio della propria autonoma iniziativa ai sensi della L. Fall. art. 6, non condizionata dal precetto di cui alla L. Fall. art. 184 e dunque a prescindere dalla risoluzione del concordato preventivo, il cui procedimento andrebbe attivato – previamente o concorrentemente – solo se l'istante facesse valere non il credito nella misura ristrutturata (e dunque falcidiata) ma in quella originaria [...]” (così, Cass. 11 dicembre 2017, n. 29632). Tale conclusione, secondo la Corte, discenderebbe principalmente dalla considerazione secondo cui, essendo venuto meno, a seguito della riforma di cui al D.Lgs. 5/2006, ogni automatismo tra risoluzione del concordato preventivo e fallimento, non sussiste oggi alcuna preclusione ad una dichiarazione di fallimento fondata sui presupposti comuni, oggetto di un nuovo accertamento dell'insolvenza, dovendosi escludere che la specialità dell'art. 186 l.fall., pur ritenuta predicabile, sia tale da prevalere sulle norme generali rinvenibili nei primi articoli della legge fallimentare. Ad avviso della Corte, difatti, quando la fase esecutiva del concordato sia di fatto cessata, a seguito dell'esaurimento delle attività aziendali o della dimostrata inidoneità satisfattiva delle stesse rispetto alle obbligazioni concordatarie, così come all'esito della risoluzione o dell'annullamento del concordato, torna pienamente esperibile un ordinario giudizio volto ad accertare lo stato d'insolvenza del debitore, ai sensi degli artt. 6, 7 e 15 l.fall., attivabile non solo dai creditori concorsuali, ma anche dal Pubblico Ministero e dallo stesso debitore, oltre che dai nuovi creditori. Opinare diversamente significherebbe, ad avviso della Suprema Corte, attribuire erroneamente alla scadenza annuale dell'azione di risoluzione del concordato, prevista dall'art. 186 l.fall., un effetto remissorio di tutti i debiti concordatari non ancora soddisfatti, con contestuale estinzione di ogni tutela giudiziale dei relativi crediti, non prevista da alcuna norma.

Con la pronuncia in commento, le sezioni unite hanno quindi riconfermato il loro precedente orientamento, prendendo espressamente posizione su pressoché tutti i rilievi critici formulati dalla dottrina e riportati nell'ordinanza interlocutoria Cass., sez. I, 31 marzo 2021, n. 8919 che ha rimesso gli atti al Primo Presidente, ai sensi del secondo comma dell'art. 374 c.p.c., proprio al fine di dirimere la questione dell'ammissibilità di una istanza di fallimento nei confronti di una società ammessa al concordato preventivo poi omologato, indipendentemente dall'intervenuta risoluzione di tale ultima procedura.

In particolare, i giudici hanno espressamente qualificato come non dirimenti le argomentazioni addotte da una parte autorevole della dottrina per affermare l'inammissibilità del fallimento omisso medio. Ciò, in quanto l'assunto sostanziale su cui si fondano tali argomentazioni – secondo cui l'effetto esdebitatorio generale e vincolante per tutti i creditori anteriori che caratterizza il concordato preventivo omologato eliminerebbe l'insolvenza (che proprio tramite il ricorso a tale procedura il proponente ha inteso superare), determinando il ritorno in bonis del debitore, con la conseguenza che siffatta insolvenza non potrebbe dare luogo ad un fallimento successivo, se non dopo che quell'effetto sia stato eliminato mediante la risoluzione del concordato – introdurrebbe nell'ordinamento una deroga alla regola generale di fallibilità dell'imprenditore commerciale insolvente dettata dagli artt. 1 e 5 l.fall., sulla base di una “interpretazione priva di riscontro nella lettera della legge e solo apparentemente sistematica”.

Allo stesso modo, la tesi secondo cui, sul piano formale, le diverse procedure concorsuali concernenti la medesima insolvenza si porrebbero tra loro in una posizione di consecuzione, piuttosto che di sovrapposizione e di interferenza (così come affermato dalle stesse sezioni unite della Corte di Cassazione nelle note pronunce gemelle Cass. 15 maggio 2015 n. 9935 e 9936), rendendo così inammissibile ogni deviazione da questa sequenza ordinata di atti e procedure, sarebbe ormai superata a seguito delle modifiche apportate alla disciplina fallimentare dal D.Lgs. 169/2007, con cui è stato eliminato l'automatismo precedentemente stabilito dall'art. 186 l.fall., che consentiva al Tribunale di dichiarare d'ufficio il fallimento con la stessa sentenza con cui pronunciava la risoluzione o l'annullamento del concordato. Essendo venuto meno tale automatismo, secondo la Corte “risoluzione del concordato preventivo e fallimento costituiscono adesso istituti ed eventi del tutto autonomi, distinti ed anche operativamente tra loro slegati”.

In risposta ad una delle argomentazioni addotte dai sostenitori della tesi secondo cui l'accertamento dell'insolvenza sarebbe precluso al giudice fallimentare in assenza della preventiva risoluzione del concordato preventivo omologato, le i giudici hanno altresì precisato che l'opinione espressa dalla Corte Costituzionale nella sentenza Corte Cost. 2 aprile 2004, n. 106 secondo cui “una lettura delle norme impugnate conforme a Costituzione non preclude all'interprete di giungere all'opposta conclusione che – ferma l'obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura – anche in assenza della risoluzione del concordato possa giungersi non soltanto ad una dichiarazione di fallimento “in consecuzione” ma anche ad un'autonoma dichiarazione di fallimento”,lungi dall'essere oggi inapplicabile, in quanto riferita ad una disciplina ormai superata a seguito dell'entrata in vigore delle riforme del 2005 e del 2006 e volta a tutelare un creditore pretermesso che, pertanto, non aveva potuto agire tempestivamente per la risoluzione del concordato, risulterebbe oggi “di perdurante e – se mai – rafforzata persuasività”. La circostanza che la risoluzione del concordato comportasse, all'epoca, l'automatica dichiarazione di fallimento non escludeva difatti che quest'ultimo potesse essere dichiarato anche indipendentemente dalla prima, in assenza di una disposizione di legge che prevedesse espressamente tale effetto e sulla base di una lettura costituzionalmente orientata delle norme della legge fallimentare. Indipendentemente dalle peculiarità del caso affrontato e dalle modifiche legislative intervenute successivamente, nella pronuncia citata la Corte Costituzionale ha efficacemente chiarito che, proprio sulla scorta della disciplina generale, l'insolvenza dell'imprenditore commerciale possa persistere anche dopo l'omologazione del concordato preventivo, anche con riguardo alla parte falcidiata ma rimasta inadempiuta dei crediti vantati nei suoi confronti e che, quindi, “la risoluzione oper[a] non quale condizione di fallibilità, quanto soltanto al diverso fine della rimozione dell'obbligatorietà del concordato e, dunque, allo scopo di restituire al creditore anteriore la libertà di agire senza limiti concordatari, e per l'intero”.

Tale conclusione, ad avviso delle sezioni unite, consentirebbe altresì di superare l'argomento secondo cui la preclusione del fallimento omisso medio si fonderebbe anche sulla specialità, rispetto alle norme contenute negli artt. 1, 5, 6 e 7 l.fall., della previsione di cui all'art. 186 l.fall., che non consentirebbe modalità di rimozione degli effetti del concordato omologato differenti dalla sua risoluzione o dal suo annullamento; rapporto di specialità che non viene affatto riconosciuto dalla Corte di Cassazione, secondo cui “una cosa è il superamento dell'obbligatorietà del concordato e dei vincoli che da esso discendono L. Fall., ex artt. 184 e 1372 c.c., e tutt'altra è la configurabilità di un'insolvenza in relazione anche soltanto al fabbisogno concordatario così come risultante anche prima ed indipendentemente dalla risoluzione”.

Pur non negando le imprescindibili correlazioni esistenti tra risoluzione e fallimento, soprattutto con riguardo all'importo dei crediti che, nella procedura maggiore, possono essere oggetto di insinuazione al passivo, nonché con riferimento alla misura dell'insolvenza rilevante ai fini della dichiarazione di insolvenza (con riferimento alle quali sono stati richiamati gli esplicativi arresti Cass. 17 ottobre 2018, n. 26002 e Cass. 22 giugno 2020, n. 12085), le sezioni unite hanno inoltre respinto l'interpretazione secondo cui la natura spiccatamente privatistica e negoziale che, con il susseguirsi delle riforme, è venuto ad acquisire il concordato preventivo, condurrebbe a ritenere necessaria la sua preventiva risoluzione ai fini della dichiarazione di fallimento del proponente, onde evitare di consentire al Pubblico Ministero, allo stesso debitore e/o ad un creditore di minoranza di porre nel nulla la volontà della maggioranza, statuendo espressamente che “la prevalenza dell'elemento negoziale non può non risultare cedevole ogniqualvolta risulti – anche senza necessità di accertamento giudiziale dei presupposti della risoluzione – che il concordato omologato non è attuabile perché il debitore non lo può adempiere, ed anzi si trova in una situazione in tutto assimilabile a quella di insolvenza. Nel qual caso devono riprendere forza nella loro interezza le ragioni di tutela pubblicistica proprie del fallimento”.

Quanto, invece, al tema dei rapporti tra la procedura di concordato preventivo e quella di fallimento, già diffusamente affrontato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione con le pronunce Cass. 15 maggio 2015 n. 9935 e 9936, queste ultime hanno ritenuto che “la tesi del fallimento senza risoluzione [non] si pon[e] in contrasto con quanto così affermato”. A ben vedere, difatti, nelle succitate sentenze era stato statuito che la pendenza di una procedura di concordato preventivo risulta ostativa della dichiarazione di fallimento fino al verificarsi di uno degli eventi espressamente previsti nella legge fallimentare, come ad esempio la dichiarazione di inammissibilità della proposta di cui all'art. 162 l.fall., la revoca dell'ammissione al concordato prevista dall'art. 173 l.fall., la mancata approvazione della proposta concordataria ai sensi dell'art. 179 l.fall. e l'omologazione del concordato ex art. 180 l.fall.. Da ciò deriva, da un lato, che la dichiarazione di fallimento è preclusa per tutta la durata della procedura concordataria e, dall'altro lato, che l'apertura della procedura maggiore assume quale suo presupposto (proprio in forza del necessario coordinamento “asimmetrico” tra le due procedure concorsuali) l'esito negativo del concordato preventivo. Immediata conseguenza di tali asserzioni, da un punto di vista logico-giuridico, è che “l'omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l'annullamento del concordato”.

Il concetto di “rimozione” dell'insolvenza a seguito dell'omologazione del concordato preventivo deve tuttavia essere inteso, ad avviso delle sezioni unite, “sull'implicito presupposto e nell'ottica fisiologica del regolare adempimento degli obblighi concordati, non certo nella loro inottemperanza”, mentre laddove le modalità satisfattive previste nella proposta di concordato omologata risultino successivamente inattuabili in fase esecutiva, l'inadempimento del concordato rappresenterebbe uno di quei “fatti sopravvenuti” su cui le succitate sentenze ammettono la possibilità di basare nuove istanze di fallimento (essendo invece l'improcedibilità derivante dall'omologa circoscritta alle sole istanze di fallimento già pendenti nei confronti del proponente). Di talché, una volta conclusa la procedura concordataria a seguito dell'omologazione, come previsto dall'art. 181 l.fall., si riapre la possibilità di applicare i principi generali di responsabilità del debitore previsti dall'ordinamento, che consentono ai suoi creditori anche di instare per il suo fallimento, qualora ne ricorrano le condizioni; in altre parole, una volta che siano venute meno le limitazioni all'avvio o al proseguimento di azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore, disposte dall'art. 168 l.fall. durante tutta la pendenza della procedura concordataria e sino all'omologazione, i creditori “riacquistano piena legittimazione ad agire contro il debitore per ottenere l'esecuzione del patto. E non è dato comprendere perché non lo possano fare con tutti i mezzi consentiti dalla legge e, quindi, perché alla tutela esecutiva individuale – non necessariamente condizionata all'istanza di risoluzione – non possa in questo caso associarsi, in presenza dei relativi presupposti ed anche al fine di tutelare la par condicio nella crucialità di questa fase, quella concorsuale”.

Né può fondatamente sostenersi, ad avviso delle sezioni unite della Suprema Corte, che costituisca una “paradossale incongruenza sistematica” il fatto che una limitazione alla procedibilità delle istanze di fallimento avverso il debitore derivi dalla mera presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo e non anche dall'omologazione finale del concordato. Ciò, in quanto il favor espresso dal legislatore per la soluzione concordata della crisi “non può spingersi oltre l'evidenza dell'impossibilità di esecuzione della proposta concordataria omologata”, che rende ancora più evidente l'insolvenza, consistente nell'incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le sue obbligazioni, nonostante le stesse siano state ridotte e rimodulate all'esito della procedura concordataria.

Inconferente appare poi, secondo l'interpretazione della Corte di Cassazione, l'argumentum ab inconvenienti formulato da chi non condivide la possibilità di giungere alla dichiarazione di fallimento anche senza la preventiva risoluzione del concordato preventivo omologato, secondo cui l'iniziativa fallimentare determina un obiettivo incremento dei costi, con conseguente erosione dell'attivo disponibile per i creditori, risultando così inutile e antieconomica per i creditori stessi; secondo l'interpretazione delle sezioni unite, difatti, non può completamente tralasciarsi l'interesse dei creditori ad arginare il rischio che il debitore, dopo l'omologazione del concordato, continui ad assumere nuove obbligazioni che, ai sensi dell'art. 111 l.fall., sarebbero considerate prededucibili nel successivo fallimento.

Nella sentenza in commento, la Corte ha inoltre preso posizione in merito alla tesi, sostenuta da taluno in dottrina, secondo cui la possibilità di pervenire a una dichiarazione di fallimento omisso medio potrebbe dipendere dalla tipologia di concordato oggetto di omologazione. Sul punto, le sezioni unite hanno difatti precisato che, stando a quanto previsto dal quarto comma dell'art. 184 l.fall., lo stato d'insolvenza del debitore deve intendersi “ontologicamente escluso ogniqualvolta il concordato preveda in diverse forme (remissorie, cessorie o assuntorie pure) la liberazione del debitore”, restando ovviamente possibile sia nei confronti dell'assuntore, il cui intervento ha determinato un effetto novativo, dal punto di vista soggettivo, sulle obbligazioni gravanti sul proponente, sia nei confronti di quest'ultimo, nei casi in cui il concordato sia basato su formule dilatorie, promissorie, garantite, miste o di continuità aziendale ai sensi dell'art. 186-bis l.fall..

Da ultimo, le sezioni unite della Suprema Corte, su espressa sollecitazione contenuta nell'ordinanza di rimessione, hanno affrontato il tema dell'efficacia interpretativa che può attribuirsi, in merito alla questione in esame, alla previsione introdotta dal D.Lgs. 147/2020, recante disposizioni integrative e correttive al Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza di cui al D.Lgs. 14/2019, che ha inserito un settimo comma all'art. 119 CCII, ai sensi del quale “Il tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo”. Pur non ritenendo, ovviamente, ancora applicabile tale disposizione, a seguito della mancata entrata in vigore del suddetto Codice, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, sebbene si tratti di una fonte che costituisce già oggi parte integrante del corpus legislativo dell'ordinamento, cui potrebbe astrattamente riconoscersi una valenza interpretativa (come ritenuto negli arresti Cass. 24 giugno 2020, n. 12476 in merito al tema della proponibilità dell'azione revocatoria ordinaria tra procedure fallimentari e Cass. 25 marzo 2021, n. 8504, in cui le stesse sezioni unite si sono soffermate sulla questione dell'impugnazione del rigetto della proposta di trattamento dei debiti tributari avanzata nell'ambito di un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l.fall.), debba negarsi, con riguardo al tema in esame, “qualsivoglia influenza ermeneutica a quanto prescritto dall'art. 119 CCII in ordine al fatto che il Tribunale possa dichiarare aperta la liquidazione giudiziale […] solo a seguito della risoluzione del concordato”.

A dispetto di quanto ritenuto da molti, mancherebbe, difatti, il requisito della continuità tra il regime vigente e quello futuro richiesto dalla giurisprudenza di legittimità, richiesto al fine dell'estensione della portata interpretativa di norme ancora non entrate in vigore, dal momento che la nuova disciplina della risoluzione del concordato preventivo riconosce la legittimazione ad agire per la risoluzione non soltanto ai creditori, ma anche al commissario giudiziale, su istanza di uno o più creditori. A sostegno della soluzione di continuità tra i due regimi normativi le sezioni unite hanno, da un lato, richiamato i contenuti della relazione illustrativa al Codice della Crisi, in cui tale modifica è stata espressamente qualificata come una “rilevante novità rispetto all'attuale disciplina” e, dall'altro lato, puntualizzato (in uno modo che, tuttavia, appare caratterizzato da forte autoreferenzialità) che la complessiva disciplina risultante dal nuovo art. 119 CCII, che appunto subordina la liquidazione giudiziale alla preventiva risoluzione del concordato, “si pone per ciò solo in opposto avviso rispetto al diritto vivente oggi individuabile nella giurisprudenza di legittimità sul punto”.

Con la pronuncia Cass., sez. un., 14 febbraio 2022, n. 4696 le sezioni unite sembrano quindi aver inteso mettere un punto definitivo sulla vexata quaestio della possibilità di introdurre nell'ordinamento una condizione di procedibilità delle istanze di fallimento non espressamente prevista dall'attuale disciplina fallimentare, statuendo chiaramente la fallibilità, su istanza di tutti i soggetti annoverati nel primo comma dell'art. 6 l.fall., del debitore ammesso al concordato preventivo poi omologato, e ciò, anche a prescindere dalla preventiva risoluzione del concordato ai sensi dell'art. 186 l.fall.. Con la conseguenza che, coerentemente a quanto già affermato in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità, qualora il fallimento venga dichiarato quando per i creditori è ancora possibile agire per la risoluzione del concordato omologato, questi ultimi non saranno tenuti a sopportare gli effetti esdebitatori derivanti da siffatta procedura, dal momento che l'esecuzione del piano di concordato sarebbe resa irrealizzabile proprio a seguito del verificarsi del fallimento; al contrario, laddove la dichiarazione di fallimento intervenga dopo lo spirare del termine annuale previsto dal terzo comma dell'art. 186 l.fall. per la risoluzione del concordato, senza che i creditori si siano attivati in tal senso, il vaglio del Tribunale fallimentare dovrà concentrarsi esclusivamente sull'inadempimento delle obbligazioni concordatarie, nella misura falcidiata, ovvero di quelle nuove assunte dal debitore successivamente all'omologazione.

Guida all'approfondimento

In senso conforme alla decisione della Suprema Corte, v. Cass. 17 luglio 2017, n. 17703; Cass. 11 dicembre 2017, n. 29632; Cass. 10 febbraio 2016, n. 2695; Trib. Treviso 10 gennaio 2017; Trib. Rovigo 7 dicembre 2017, in Il Fallimento, 2018, 731; Trib. Nola 17 marzo 2016, in Il Fallimento, 2017, p. 973; Trib. Napoli Nord 13 aprile 2016, in Dir. fall., 2016, p. 1338, con nota di G. D'Attorre; Trib. Napoli Nord 29 aprile 2016; Trib. Torino 26 luglio 2016, in ilcaso.it; Trib. Ancona 25 febbraio 2015, in Il Fallimento, 2016, 221, con nota di G. Giurdanella; Trib. Venezia 6 novembre 2015.

In senso contrario: Trib. Campobasso 14 febbraio 2019; App. Firenze 16 maggio 2019; Trib. Ancona 20 giugno 2019; Trib. Padova 30 marzo 2017; Trib. Pistoia 20 dicembre 2017, in Il Fallimento, 2018.

Sul tema si vedano, nella più recente dottrina: S. AMBROSINI, Inadempimento del concordato preventivo: Fallimento omisso medio o previa risoluzione? La parola alle Sezioni Unite, in ilcaso.it, 24 aprile 2021; S. AMBROSINI, La risoluzione del concordato preventivo e la (successiva?) dichiarazione di fallimento: profili ricostruttivi del sistema, in ilcaso.it, 6 settembre 2017; F. CASA, “Per la contraddizion che nol consente”: una critica ad una lettura antisistemica degli artt. 168 e 186 l.fall., in Il Fallimento, 2017, 973 ss.; G. D'ATTORRE, Concordato omologato e fallimento successivo, in Dir. fall., 2016, 1338; F. LAMANNA, Fallimento dell'impresa in concordato senza previa risoluzione: un problema ancora aperto, in questo portale, 5 maggio 2017; G. MORESCHINI, La dichiarazione di fallimento della società in concordato: il problema dell'omisso medio, in questo portale, 26 aprile 2018; A. MUSSA, La risoluzione del concordato preventivo, in questo portale, 3 settembre 2014; G. B. NARDECCHIA, La risoluzione del concordato preventivo, in Il Fallimento, 2012, 260; M.RATTI – A. PEZZANO, L'irrealizzabile esecuzione del concordato preventivo: il fallimento senza risoluzione, in Il Fallimento, 2018, 749; S. USAI, Esecuzione, risoluzione e annullamento del concordato preventivo, in Crisi d'impresa e procedure concorsuali, diretto da O. CAGNASSO – L. PANZANI, III, Milanofiori Assago, 2016, 3780 ss.; M. VITIELLO, Sub art. 186 l.fall., in G. LO CASCIO (diretto da), Codice commentato del fallimento, Padova, 2015, 2312.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario