Invalidità e impugnazione di delibere assembleari del c.d.a. anche nelle s.r.l.

Andrea Illuminati
30 Maggio 2022

L'art. 2388 c.c., che disciplina per le s.p.a. i casi di invalidità delle delibere del consiglio di amministrazione, deve ritenersi applicabile in via analogica anche alle s.r.l., in applicazione di un principio generale di sindacabilità – a iniziativa degli amministratori assenti o dissenzienti ovvero dei soci i cui interessi siano stati direttamente incisi – delle decisioni dell'organo amministrativo di società di capitali contrarie alla legge o allo statuto.
Massima

L'art. 2388 c.c., che disciplina per le s.p.a. i casi di invalidità delle delibere del consiglio di amministrazione, deve ritenersi applicabile in via analogica anche alle s.r.l., in applicazione di un principio generale di sindacabilità – a iniziativa degli amministratori assenti o dissenzienti ovvero dei soci i cui interessi siano stati direttamente incisi – delle decisioni dell'organo amministrativo di società di capitali contrarie alla legge o allo statuto.

E' sussistente l'interesse all'impugnazione in capo all'amministratore assente o dissenziente per far valere l'invalidità di una delibera del CdA contraria alla legge o allo statuto anche solo per evitare che l'eventuale delibera, in difetto di suo annullamento, risulti comunque idonea a produrre effetti nell'ambito endo-societario quale precedente organizzativo passibile, ove non rimosso, di rappresentare un modello per future deliberazioni, con conseguente interesse del componente del CdA a richiederne l'accertamento di invalidità con forza di giudicato e il conseguente annullamento, onde evitare il riprodursi di vicende gestorie a suo dire in contrasto con le regole statutarie.

Nel quadro normativo di riferimento, la delegabilità dei poteri del CdA non è affatto la regola ma solo una delle possibili scelte statutarie o assembleari: secondo il disposto dell'art. 2381, comma 2, c.c., infatti, il CdA “può” delegare le proprie attribuzioni a un suo componente “se lo statuto o l'assemblea lo consentono”, con la conseguenza che il funzionamento interamente collegiale dell'organo gestorio, lungi dall'essere di per sé assurdo e prodromico a una sicura paralisi dell'ente, rappresenta normativamente una modalità di organizzazione del tutto fisiologica la cui scelta è rimessa allo statuto o all'assemblea, in definitiva dunque ai soci

[Nel caso di specie il Tribunale di Milano ha annullato la delibera del CdA che conferiva poteri ad un consigliere senza la previa autorizzazione assembleare prevista statutariamente per tale delega].

Il caso

Nella pronuncia in rassegna il Tribunale di Milano è stato chiamato ad esprimersi su un'impugnativa proposta da un consigliere avverso due delibere del CdA di una s.r.l. adottate con il voto contrario dell'impugnate e quello favorevole degli ulteriori consiglieri.

Nel dettaglio, veniva richiesto l'annullamento delle delibere recanti:

a) la nomina a Presidente del C.d.A. di un dei consiglieri, in assenza di specifico ordine del giorno sul tema;

b) la nomina del Presidente a consigliere delegato con attribuzione allo stesso di amplissimi poteri, senza la preventiva autorizzazione assembleare statutariamente prevista per tale delega.

Il Tribunale ha dovuto affrontare, ante omina, la questione relativa alla impugnabilità delle delibere consigliari di una s.r.l. in difetto di una disciplina organica sul punto per tale tipo societario, ritenendo – in conformità all'orientamento prevalente in seno alla giurisprudenza di merito – applicabile in via analogica l'art. 2388 c.c. previsto per le spa.

Altra questione esaminata dal Giudice meneghino ha riguardato la permanenza di un interesse all'impugnativa proposta dal componente del CdA alla luce del venir meno – per ragioni sopravvenute all'introduzione del giudizio – dell'assetto gestorio delineato dalle delibere impugnate.

Risolta anche in tal caso in termini positivi la problematica di carattere processuale, il Tribunale ha, infine, scrutinato la validità delle delibere impugnate alla luce dei profili di invalidità dedotti dell'attore, annullando quella recante il conferimento di poteri al consigliere delegato e rigettando, invece, l'impugnativa avverso la determina di nomina del Presidente del CdA.

Le questioni giuridiche

In primo luogo, quanto alla questione interpretativa in ordine alla stessa impugnabilità, per le s.r.l., delle deliberazioni del consiglio di amministrazione, il Tribunale di Milano richiama dei suoi precedenti in cui il tema è stato ampliamente affrontato.

Volendo sinteticamente riassumere i termini del dibattito, si rammenta che per le s.r.l. la disciplina normativa si limita a dettare regole di base in tema di “amministrazione della società” e di “rappresentanza della società” negli artt. 2475 e 2475bis c.c., prevedendo poi nell'art. 2475-ter c.c., sotto la rubrica “conflitto di interessi”, l'annullabilità – a determinate condizioni – dei contratti conclusi dagli amministratori che versano in conflitto di interessi con la società (primo comma), nonché la impugnabilità – entro novanta giorni – delle decisioni patrimonialmente pregiudizievoli per la società adottate dal CdA con il voto determinante di un amministratore in conflitto di interessi (secondo comma), senza alcun richiamo alla specifica disposizione dettata dall'art. 2388 c.c. per le spa quanto alla “validità delle deliberazioni del consiglio” e in particolare quanto alla impugnabilità – entro novanta giorni dalla loro adozione – delle deliberazioni non conformi alla legge o all'atto costitutivo da parte del collegio sindacale e degli amministratori assenti o dissenzienti ovvero da parte dei soci in riferimento alle sole deliberazioni “lesive dei loro diritti”.

A fronte di tale contesto normativo, sono state prospettate due diverse opzioni interpretative: la prima che valorizza il silenzio del codice in tema di s.r.l. e ne ricava una specifica scelta del legislatore nel senso della accentuazione, per le s.r.l. e in considerazione delle caratteristiche di tale tipo di società, del regime di stabilità delle deliberazioni del cda, impugnabili solo nell'ipotesi espressamente prevista del conflitto di interessi; la seconda che configura invece come lacuna la carenza di una compiuta disciplina normativa delle decisioni del cda nelle s.r.l. e ritiene tale lacuna colmabile con il richiamo alle norme in tema di s.p.a. in particolare quanto alla impugnabilità di tali decisioni.

Rispetto a tali due possibilità interpretative, il costante orientamento della giurisprudenza di merito (cfr. in tal senso Tribunale Milano: 1.3.2012, 27.2.2013, 5.3.2015; 5.3.2020; Trib. Roma, 4.11.2015; Trib. Torino, 23.12.2013), condiviso anche dalla pronuncia in rassegna, reputa debba seguirsi la seconda opzione sopra delineata e ciò in ragione: per un verso, della effettiva carenza nel tessuto normativo di una compiuta disciplina delle decisioni del consiglio di amministrazione di s.r.l., disciplina non ricavabile dallo scarno tenore dell'art. 2475 c.c.; dall'altro lato, della lettura della disciplina ex art. 2388 c.c. come espressiva di un principio generale di “sindacabilità” – ad iniziativa degli amministratori assenti o dissenzienti ovvero dei soci – delle decisioni dell'organo amministrativo di società di capitali contrarie alla legge o allo statuto, così realizzandosi un'operazione ermeneutica omogenea all'orientamento giurisprudenziale secondo il quale – nel vigore della normativa anteriore alla riforma del 2003 – le regole di impugnabilità delle deliberazioni assembleari dettate dall'art. 2377 c.c. erano state ritenute espressive di un principio generale di sindacabilità delle deliberazioni di tutti gli organi sociali per contrarietà alla legge o all'atto costitutivo, principio generale all'epoca ritenuto quindi applicabile anche alle delibere del cda, pur in presenza di una previsione normativa allora limitata alla sola impugnabilità (sia per la s.p.a. che per le s.r.l.) delle deliberazioni consiliari adottate con il voto determinante di un amministratore versante in conflitto di interessi.

Riconosciuta quindi l'impugnabilità (anche) delle deliberazioni adottate dal CdA di s.r.l. in contrasto con la legge e con l'atto costitutivo dell'ente in applicazione del principio generale espresso dall'art. 2388 c.c., ne deriva poi che tale impugnabilità va circoscritta negli stessi limiti previsti dalla disposizione in materia di spa; limiti che, secondo la preferibile interpretazione, sono preordinati ad accentuare il regime di stabilità delle deliberazioni dell'organo gestorio rispetto a quello proprio delle deliberazioni dell'organo assembleare.

Proprio tale esigenza di stabilità consente di spiegare come mai, sotto il profilo soggettivo, la legittimazione all'impugnativa sia riconosciuta, in via generale, unicamente al collegio sindacale (come organo) e a ciascuno degli amministratori assenti o dissenzienti (uti singuli), mentre siano eccezionali i casi di legittimazione dei soci, ammessi a richiedere l'annullamento solo “delle deliberazioni lesive dei loro diritti”; e perché, sotto il profilo oggettivo, l'impugnazione della delibera consiliare debba avvenire – a prescindere dal tipo di vizio riscontrato – entro il termine di novanta giorni dalla data di sua adozione, decorso il quale la stessa diviene inattaccabile, con conseguente stabilizzazione dei suoi effetti giuridici; circostanza quest'ultima che induce accorta dottrina a discorrere non già di vizi della delibera consiliare (al plurale, cioè nullità e annullabilità) ma di vizio (al singolare, la c.d. “non conformità”).

Osservazioni

Non meno rilevanti paiono le precisazioni compiute dal Giudice meneghino in ordine alla permanenza dell'interesse ad agire del consigliere impugnante alla luce del venir meno, per ragioni sopravvenute all'introduzione del giudizio, dell'assetto organizzativo delineato dalle delibere impugnate.

Al riguardo il Tribunale, pur dando atto della circostanza che la vicenda gestoria oggetto di impugnazione doveva ritenersi “superata dalle successive dimissioni del consigliere (…) dalla carica di Presidente del Cda e da quella di consigliere delegato e dalla nomina di altro Presidente del Cda senza conferimento a costui di alcuna delega”, cionondimeno rileva la persistenza dell'interesse alla impugnazione, evidenziando in proposito che “le due delibere impugnate, in difetto di loro annullamento, risultano (…) comunque idonee a produrre effetti nell'ambito endo-societario quali precedenti organizzativi passibili, ove non rimossi, di rappresentare un modello per future deliberazioni, con conseguente interesse del componente del CdA attore a richiederne l'accertamento di invalidità con forza di giudicato e il conseguente annullamento, onde evitare il riprodursi di vicende gestorie a suo dire in contrasto con le regole statutarie”.

Viene, invece, escluso che l'interesse all'annullamento possa essere rinvenuto in quello - allegato dallo stesso impugnante - consistente nell'esigenza di poter utilmente coltivare l'azione sociale responsabilità (ex art. 2476 c.c.) nei confronti del consigliere per gli atti di mala gestio da questi posti in essere in forza dei poteri illegittimamente conferiti, stante l'autonomia che connota il giudizio sulla validità della delibera con cui viene assegnata la carica gestoria e quello relativo alla responsabilità del soggetto nominato.

Tuttavia, in parte qua la sentenza presenta alcuni profili di criticità.

Non è superfluo osservare che l'interesse ad agire (ex art. 100 c.p.c.), quale condizione dell'azione unitamente alla legitimatio ad causam, richiede non solo l'accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l'esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice, giacché il processo non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti futuri pregiudizievoli per la parte, senza che sia precisato il risultato utile e concreto che essa intenda in tal modo conseguire. Inoltre, per pacifico intendimento giurisprudenziale, l'interesse ad agire non può essere ricercato d'ufficio dal giudice, dovendo essere puntualmente allegato dalla parte, a cui è demandato il compito di indicare il fatto lesivo della propria sfera giuridica di cui viene richiesta la rimozione attraverso la pronuncia richiesta (v. Cass. 1041/15; Cass. 15355/2010).

Corollario di una tale premessa è che, a fronte della mancata prospettazione da parte dell'attore di un interesse giuridicamente apprezzabile a coltivare l'impugnazione a seguito del mutamento dell'assetto gestorio delineato dalle delibere contestate, al Giudice investito della causa risulterebbe precluso il potere di ricercare ex officio un diverso interesse atto a sorreggere l'impugnativa, come invece compiuto dalla sentenza annotata.

Sotto diverso e rilevante profilo, deve inoltre evidenziarsi che l'esigenza, valorizzata dal Tribunale di Milano, di impedire che le determine impugnate possano fungere da precedenti organizzativi passibili di rappresentare un modello per future deliberazioni, si presta a descrivere un interesse di mero fatto alla legittimità della futura attività deliberativa del CdA non ancora estrinsecatasi in atti concreti passibili di determinare la lesione di posizioni giuridiche facenti capo a soggetti individuati.

In conclusione, nel caso esaminato dalla sentenza in commento l'individuazione di un interesse ad agire pare per lo meno problematica.

Relativamente al merito dell'impugnazione proposta, il Tribunale rileva anzitutto la fondatezza della censura relativa alla contrarietà allo Statuto della delibera di nomina dell'amministratore delegato e di attribuzione allo stesso di amplissimi poteri, siccome adottata in difetto di preventiva autorizzazione assembleare statutariamente prevista per tale delega, e dunque ne dispone l'annullamento.

Al riguardo, viene esclusa la correttezza della tesi sostenuta dalla società resistente nel giudizio di impugnativa, secondo cui la clausola statutaria andrebbe interpretata nel senso “che la previa autorizzazione assembleare sia effettivamente richiesta solo per la delega a un consigliere di quei poteri gestori riservati appunto all'assemblea”, ponendosi tale lettura in contrasto con il dato testuale che fa riferimento a tutti i poteri gestori - nessuno escluso - i quali sono delegabili solo previa autorizzazione assembleare.

Né l'interpretazione restrittiva proposta dalla società può trovare spazio alla luce della rappresentata esigenza di evitare che, per l'ipotesi di assenza di autorizzazione assembleare alla nomina di amministratore delegato e di affidamento allo stesso dei relativi poteri, l'attività gestoria venga interamente svolta in forma collegiale dal CdA.

Rileva al riguardo il Tribunale che nel quadro normativo di riferimento, la delegabilità dei poteri del CdA non è affatto la regola ma solo una delle possibili scelte statutarie o assembleari: infatti, secondo il disposto dell'art.2381, co. 2, c.c. (previsto per le spa ma applicabile anche alle srl, come ora chiarito anche dell'espresso richiamo ad esso operato dall'ultimo comma dell'art. 2475 c.c., introdotto dal D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, da intendersi quale norma di interpretazione autentica dell'assetto normativo previgente, cfr. Corte d'appello di Brescia, 22 ottobre 2019), il CdA “può” delegare le proprie attribuzioni a un suo componente “se lo statuto o l'assemblea lo consentono”, con la conseguenza che il funzionamento interamente collegiale dell'organo gestorio, lungi dall'essere “di per sé assurdo e prodromico a una sicura paralisi dell'ente”, rappresenta normativamente una modalità di organizzazione del tutto fisiologica la cui scelta è rimessa allo statuto o all'assemblea, in definitiva dunque ai soci.

Viceversa, il Tribunale perviene al rigetto dell'impugnazione della delibera del CdA recante la nomina del Presidente dell'organo sotto lo specifico profilo di illegittimità procedimentale dedotto dall'attore e consistente nella mancata indicazione dello specifico argomento tra quelli di cui all'ordine del giorno.

Pur mostrandosi consapevole dell'omissione di una tale indicazione, il Giudice meneghino evidenzia che nella fattispecie la delibera impugnata è stata adottata nella prima riunione del CdA successiva alla sua costituzione e che la nomina del Presidente dell'organo era materia di deliberazione per così dire necessitata ai sensi dell'art.2380 bis c.c. ultimo comma, secondo il quale “Il consiglio di amministrazione sceglie tra i suoi componenti il presidente, se questi non è nominato dall'assemblea”. Alla luce di tali premesse – e considerata anche la mancata contestazione del vizio da parte dell'attore in sede stragiudiziale – viene escluso che la mancata indicazione della questione nell'o.d.g. possa aver rappresentato una carenza lesiva della completezza delle informazioni necessarie ai membri del CdA per partecipare consapevolmente alla discussione, e, dunque, possa aver comportato, in concreto, un vizio procedimentale nella formazione della delibera.

Conclusioni

In linea di estrema sintesi, il ragionamento della pronuncia in rassegna, pur muovendo dalla premessa, certamente condivisa in giurisprudenza (v. Trib. Roma Sez. Specializzata in materia di imprese, Sent., 04-04-2017), per cui “L'indicazione dell'elenco delle materie da trattare ha la duplice funzione di rendere edotti i soci circa gli argomenti sui quali essi dovranno deliberare, per consentire la loro partecipazione all'assemblea con la necessaria preparazione ed informazione, e di evitare che sia sorpresa la buona fede degli assenti a seguito di deliberazione su materie non incluse nell'ordine del giorno”, ritiene di escludere che un o.d.g. incompleto possa comportare l'annullamento della delibera tutte le volte in cui il soggetto impugnate sia comunque stato posto a conoscenza dell'argomento oggetto della decisione ed abbia potuto partecipare consapevolmente alla discussone.

Sotto tale aspetto, la posizione espressa dalla decisione, certamente attenta alle conseguenze dell'inosservanza della regola procedimentale sotto il profilo della concreta lesione del diritto ad una partecipazione informata di chi è chiamato ad esprimere il proprio voto nell'ambito della riunione, si discosta da quella di altre pronunce di merito (ove l'annullamento viene fatto dipendere dalla mera violazione della regola formale) e lascia aperto il problema (non certo secondario) di individuare le circostanze in presenza delle quali è ragionevole ritenere che i membri del CdA siano stati pienamente informati delle questioni oggetto di deliberazione pur in difetto di un o.d.g. completo in ogni suo elemento.

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