Il fallimento c.d. omisso medio: evoluzione giurisprudenziale e possibili scenari futuri

31 Maggio 2022

Gli Autori delineano l'evoluzione degli orientamenti interpretativi emersi nel corso degli ultimi anni in tema di fallimento c.d. omisso medio, utili a comprendere il percorso logico-argomentativo seguito dalle Sezioni Unite della Cassazione con pronuncia del 14 febbraio 2022, svolgendo alcune brevi considerazioni sull'operatività dell'istituto alla luce del nuovo Codice della Crisi d'impresa.
Inquadramento normativo: la risoluzione del concordato preventivo ex art. 186 l.fall.

Il nodo (gordiano) della questione riguardante il fallimento pronunciato c.d. omisso medio riguarda la possibilità di ottenere la dichiarazione di fallimento di un'impresa in concordato senza la previa risoluzione del concordato preventivo stesso.

La risoluzione del concordato preventivo omologato, rimedio previsto e disciplinato all'art. 186 l.fall., può trovare applicazione, su istanza di ciascuno dei creditori, laddove il debitore si renda responsabile di un inadempimento delle obbligazioni concordatarie di non scarsa importanza, parametro da valutarsi alla luce degli obblighi nel complesso assunti (anziché limitatamente al pregiudizio del singolo creditore che insista per la risoluzione in base alle modalità di costruzione del piano e al contenuto della proposta, attese le prospettive di soddisfacimento dei creditori.

Il rimedio in oggetto, similmente a quanto accade nel diritto dei contratti, può trovare applicazione solo successivamente all'omologazione, ovvero nella fase “esecutiva” dell'accordo, purché la relativa domanda venga proposta, a pena di decadenza secondo l'opinione maggioritaria, entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto dal concordato (ossia dall'esaurimento delle operazioni di liquidazione, quando la proposta di omologa non indichi un termine specifico – cfr. Cass. 20 dicembre 2011, n. 27666) e purché le obbligazioni concordatarie non siano state assunte da un terzo, con immediata liberazione del debitore, ipotesi nella quale l'art. 186 l.fall. non trova applicazione.

Dal punto di vista procedimentale, si applicano, ove compatibili, le medesime regole previste per la risoluzione del concordato fallimentare di cui all'art. 137 l.fall.; va tuttavia segnalato che, secondo un recente arresto di Cassazione, la risoluzione del concordato preventivo debba essere pronunciata con decreto anziché con sentenza, come invece accade nell'ambito del concordato fallimentare, in virtù dei differenti effetti prodotti dai due diversi istituti (Cass. 12 giugno 2020, n. 11344).

Sotto il profilo degli effetti della risoluzione ex art. 186 l.fall., la primaria conseguenza è senza dubbio rappresentata dal venir meno dell'esdebitazione,frutto del concordato preventivo.

La pronuncia difallimentodel debitore, potrà poi essere dichiarata contestualmente alla risoluzione, purché ne sia stata fatta espressa domanda e ne sussistano i relativi presupposti, quali lo stato d'insolvenza ex art. 5 l.fall. e il raggiungimento della c.d. soglia dell'indebitamento rilevante ex art. 1 l.fall. (così come aggiornato dal D.Lgs. 169/2007 e vigente dal 1° gennaio 2008 – cfr. Cass., sez. un., 18 aprile 2013, n. 9409).

Con riguardo alle soglie di fallibilità, a mero titolo esemplificativo, si evidenzia come l'istante dovrà provare gli elementi che dimostrano la sussistenza dello stato di insolvenza del debitore e i tentativi infruttuosi esperiti per il recupero del credito, nonché il superamento di almeno uno dei noti limiti dimensionali di cui all'art. 1 l.fall., e segnatamente:

  1. aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;
  2. aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;
  3. avere un ammontare di debiti, alla data di presentazione della domanda, pari ad euro cinquecentomila.

Il rapporto tra risoluzione del concordato preventivo e fallimento

A seguito dell'abrogazione dell'istituto del fallimento d'ufficio, disposta con il D. Lgs. 5/2006, e della riscrittura dell'art. 186 l.fall., operata con il D.Lgs. 169/2007, che ha eliminato la possibilità di automatica dichiarazione di fallimento all'esito della risoluzione del concordato (quasi ne rappresentasse una necessaria conseguenza: cfr., sul punto, Cass., sez. un., 15 maggio 2015, n. 9934), la giurisprudenza degli ultimi anni si è interrogata sulla possibilità di addivenire ad una pronuncia di fallimento, sempre su apposita istanza dei soggetti legittimati e sussistendone i relativi presupposti ex artt. 1 e 5 l.fall., senza la previa risoluzione del concordato preventivo, ovvero, per l'appunto, omisso medio.

Ne sono scaturiti contrapposti orientamenti, dei quali si andrà a tracciare, di seguito, un sintetico quadro riassuntivo.

Gli orientamenti giurisprudenziali favorevoli al fallimento c.d. omisso medio

Secondo un primo orientamento, condiviso in particolare dalla Corte di Cassazione e dalla prevalente giurisprudenza di merito, giocherebbe a favore dell'ammissibilità del fallimento c.d. omisso medio l'assenza di espliciti divieti, da parte del legislatore, sulla praticabilità del rimedio in discorso (ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit; si vedano, ex multis, Cass. 17 ottobre 2018, n. 26002; Cass. 11 dicembre 2017, n. 29632; Cass. 17 luglio 2017, n. 17703).

Anzi, dovrebbe escludersi “che la specialità dell'art. 186 abbia portata soppressiva degli artt. 6 e 7 l.fall.”, costituenti i principi cardine del diritto fallimentare, che consentono ai soggetti legittimati di provocare la dichiarazione di fallimento del debitore commerciale insolvente in presenza di determinati requisiti (cfr. cit. Cass. 11 dicembre 2017, n. 29632).

Dunque, in presenza dei presupposti di legge, nulla osterebbe a che il creditore rimasto insoddisfatto avanzi istanza per la declaratoria di fallimento del debitore commerciale inadempiente alle obbligazioni concordatarie, a condizione che faccia valere l'omesso soddisfacimento del proprio credito nei limiti del minor importo vantato a seguito della falcidia concordataria.

Pertanto, dopo l'omologazione, il creditore potrebbe avvalersi - oltre che della possibilità di intraprendere l'esecuzione sui beni del concordato - anche della presentazione dell'istanza di fallimento, senza che la risoluzione costituisca più un passaggio obbligato (cfr. App. Messina 20 febbraio 2020, n. 90).

Si osservi, peraltro, come la novella del 2006-2007 venga interpretata (ad es. dalla sopracitata Corte d'Appello di Messina) non già nel senso di ritenere la riforma quale espressione dell'intento del legislatore di limitare il ricorso alla tutela fallimentare quale extrema ratio, bensì come espediente per superare lo step della risoluzione ex art. 186 l. fall., alla quale si dovrebbe ricorrere nella sola ipotesi in cui si volesse far valere l'originario credito “ante falcidia”.

Si è affermato, da ultimo, che “non consentire la dichiarazione di fallimento nell'ipotesi in cui la società in concordato versi in stato di insolvenza significherebbe creare una ingiustificata disparità di trattamento con gli altri soggetti imprenditoriali in bonis” (cfr. Trib. Arezzo, 3 maggio 2018).

Gli orientamenti contrari

Un secondo indirizzo, per lo più condiviso da parte della dottrina e da una parte della giurisprudenza di merito, ha negato l'ammissibilità del fallimento omisso medio, ravvisando nella risoluzione ex art. 186 l. fall. l'unico possibile rimedio approntato dal legislatore per l'eventualità che il soggetto ammesso al concordato preventivo omologato si renda inadempiente.

In particolare, l'assenza di espresse e specifiche indicazioni normative viene qui intesa non già come un'implicita libertà d'azione e discrezionalità di scelta dei rimedi, ma come un eloquente silenzio che precluderebbe la percorribilità del fallimento omisso medio stante la specialità dell'art. 186 l.fall., rispetto alla più generale regola di cui all'art. 6 l.fall. (lex specialis derogat generali; cfr. Trib. Ancona 20 giugno 2019 – decr.).

A sostegno di tale conclusione, del resto, secondo la corrente interpretativa in esame, deporrebbero le stesse novelle del 2006-2007, sopra richiamate, che avrebbero portato all'abolizione del fallimento d'ufficio nonché del fallimento automatico e che non consentirebbero, pertanto, di ritenere configurabile una declaratoria di fallimento in difetto di previa risoluzione del concordato preventivo (cfr. App. Firenze 16.05.2019, n. 1148, in ilcaso.it) posto, peraltro, che fra le funzioni primarie della composizione concordataria vi è proprio quella di evitare il fallimento.

Un ulteriore aspetto viene posto in evidenza in seno all'orientamento de quo, ossia il rapporto tra il requisito dell'insolvenza, necessario ai fini del fallimento, e l'effetto esdebitativo realizzatosi a seguito dell'intervenuta omologazione del concordato.

Proprio detto effetto, in difetto di una previa risoluzione, impedirebbe una successiva dichiarazione di fallimento sulla base del medesimo stato di crisi/insolvenza che aveva dato origine alla procedura concordataria. In altri termini, gli effetti dell'esdebitazione determinatasi a seguito dell'omologazione del concordato potrebbero ritenersi validamente rimossi solo a seguito di una declaratoria di risoluzione ex art. 186 l. fall. (cfr. in particolare, Trib. Pistoia 21 dicembre 2017 – decr., in ilcaso.it), in difetto della quale non si potrebbe giungere ad alcuna dichiarazione di fallimento sulla scorta della “vecchia” insolvenza, ma solo qualora sopraggiungano “nuovi debiti” e una “nuova insolvenza”, riferibili questa volta ad obbligazioni contratte in seguito all'omologazione e rimaste inadempiute.

Dunque, non potendo i debiti concordatari essere qualificati quali “nuove obbligazioni rispetto ai debiti ammessi al concordato”, ne consegue allora che l'inadempimento rispetto al piano concordatario e alla proposta “non può essere valorizzato quale nuova crisi/insolvenza”,poiché questa è già valorizzata nell'ambito della procedura concordataria sfociata nell'omologa, con ciò determinandosi in nuce la ragione impeditiva della dichiarazione di fallimento c.d. omisso medio,riservata alla diversa ipotesi in cui sorgano nuove esposizioni debitorie e una nuova incapacità di far fronte con regolarità ai propri debiti (cfr. cit. Trib. Ancona 20 giugno 2019 – decr.).

L'orientamento sopra descritto è stato criticato perché, pur senza voler disconoscerne la portata di lex specialis e la centralità dell'art. 186 l.fall., dal silenzio della norma citata e in assenza di divieti espressi non sembrerebbe potersi trarre alcuna implicita preclusione, di carattere generale, in ordine alla possibilità di richiedere il fallimento dell'imprenditore in concordato inadempiente, a maggior ragione nel caso in cui sia spirato il termine utile per chiedere la risoluzione ex art. 186 l.fall.

Del resto, secondo l'autorevole orientamento della Corte Costituzionale, tale conclusione “non è necessitata dal tenore delle norme” (Corte Cost. 2 aprile 2004, n. 106).

La stessa Consulta, peraltro, ha definito “opinabile” l'affermazione secondo cui l'effetto esdebitativo determinato dall'omologazione del concordato cancelli definitivamente l'originaria insolvenza: non appare, infatti, convincente sostenere che la mancata risoluzione del concordato omologato “cancelli” lo stato di crisi che ha dato il via alla prima insolvenza, e che unicamente una “nuova insolvenza” (derivante da obbligazioni assunte dopo l'omologa) possa far sorgere la possibilità di avviare una procedura di fallimento. Infatti, i crediti esistenti al momento dell'apertura della procedura di concordato vengono sì falcidiati, ma non eliminati: dunque, il mancato adempimento delle obbligazioni cristallizzate nel piano concordatario omologato ben potrebbe condurre al fallimento dell'impresa, laddove ne ricorrano i presupposti ex artt. 1-5 l.fall. ed anche in assenza della previa risoluzione del concordato, a tutela dei diritti di credito non onorati entro i termini previsti.

La decisione delle sezioni unite: l'ammissibilità del fallimento omisso medio

Il riferito dibattito giurisprudenziale e dottrinale ha, da ultimo, condotto alla devoluzione della vexata quaestio a Cass., sez. un., 14 febbraio 2022, n. 4696, che ha sposato la tesi dell'ammissibilità del fallimento omisso medio.

In particolare, la Corte ha criticato il menzionato assunto secondo cui l'effetto esdebitativo del concordato preventivo eliminerebbe ab origine l'insolvenza pre-concordataria, determinando il ritorno in bonis dell'imprenditore; assunto che - secondo la Suprema Corte - introdurrebbe una significativa deroga alla disciplina vigente di cui agli artt. 1-5 l.fall., invero non contemplata da nessuna puntuale previsione normativa in tal senso e, a maggior ragione, non condivisibile a seguito della riforma occorsa con il D.Lgs. 169/2007 e della conseguente riscrittura dell'art. 186 l.fall.: infatti, se tale norma, anteriforma, poteva effettivamente sostenere la necessità della previa risoluzione del concordato ai fini della (automatica e conseguente) dichiarazione di fallimento, così non accade nella sua attuale formulazione, in quanto “risoluzione del concordato preventivo e fallimento costituiscono adesso istituti ed eventi del tutto autonomi, distinti ed anche operativamente tra loro slegati”.

Le Sezioni Unite, dunque, dimostrano di condividere pienamente l'orientamento già fatto proprio dalla Corte Costituzionale, che parte degli interpreti avevano ritenuto non più predicabile e inattuale, in quanto relativo alla previgente versione dell'art. 186 l.fall.: la Cassazione, invece, non solo ne riafferma la portata, ma la ritiene addirittura rafforzata proprio alla luce della riforma del 2007, che ha tracciato una marcata differenza, tanto strutturale quanto finalistica, fra il rimedio risolutorio e quello dell'istanza di fallimento.

Infatti, affermano i giudici, è indubbio “che la prevalenza dell'elemento negoziale non può non risultare cedevole ogniqualvolta risulti - anche senza necessità di accertamento giudiziale dei presupposti della risoluzione - che il concordato omologato non è attuabile perché il debitore non lo può adempiere, ed anzi si trova in una situazione in tutto assimilabile a quella di insolvenza. Nel qual caso devono riprendere forza nella loro interezza le ragioni di tutela pubblicistica proprie del fallimento”.

Quanto ai rapporti procedurali fra concordato preventivo e fallimento, le sezioni unite osservano che l'omologazione, lungi dall'estinguere definitivamente l'originaria insolvenza, comporta più semplicemente la chiusura della procedura concordataria ex art. 181 l.fall., con la duplice conseguenza per cui, da un lato, lo stato di insolvenza non scompare, ma “viene definitivamente ed irrevocabilmente assegnato alla ristrutturazione debitoria concordata ed alle modalità satisfattive in essa contemplate” e, dall'altro lato, “le precedenti istanze di fallimento non possono avere corso”.

A tale ultimo proposito si rammenta, infatti, che durante la pendenza della procedura concordataria (ovvero nelle fasi di ammissione, approvazione e di omologazione) è preclusa la proponibilità di un'istanza di fallimento, con la sola eccezione delle tassative ipotesi contemplate agli artt. 162, 173, 179 e 180 l.fall.: ma, una volta intervenuta l'omologazione – afferma la Corte – devono ritrovare applicazione i “principi generali di responsabilità, compresa, se dall'inesecuzione dell'accordo si debbano trarre elementi di insolvenza, la dichiarazione di fallimento”.

La Cassazione giunge a tale conclusione osservando altresì come il divieto di cui all'art. 168 l.fall. in merito alle azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore, promosse individualmente dai creditori per titolo o causa anteriore, permanga solo durante la pendenza della procedura concordataria, venendo meno a seguito dell'omologazione del concordato: dopodiché, i creditori riacquistano piena libertà di agire in executivis contro il debitore per ottenere l'esecuzione del patto. Sarebbe, dunque, un controsenso, afferma la sentenza, ritenere che i creditori non possano cautelarsi anche con gli altri mezzi consentiti dalla legge, ivi compresa la tutela concorsuale.

La ristrutturazione del debito risultante dalla falcidia, infatti, “non è tale da impedire che l'azione satisfattiva venga proposta nei limiti della ristrutturazione né che, sempre in questi limiti, possa manifestarsi uno stato d'insolvenza”.

Uno sguardo al futuro: la possibile utilità interpretativa dell'art. 119 CCII

Nel devolvere la questione alle Sezioni Unite, la Sezione rimettente ha osservato che la novella prevista dall'art. 119 CCII, la cui entrata in vigore è ormai imminente, introduce una disciplina che, sostanzialmente, si discosta dai maggioritari orientamenti giurisprudenziali favorevoli al fallimento c.d. omisso medio.

Infatti, il comma 7 della citata disposizione prevede che la liquidazione giudiziale (terminologia che, nel nuovo Codice, andrà a sostituire quella di “fallimento”) potrà esser dichiarata aperta dal Tribunale solo a seguito della risoluzione del concordato preventivo. Ebbene, secondo i Giudici rimettenti, nonostante sia ancora vigente l'attuale legge fallimentare, la nuova disciplina sembrerebbe negare l'ammissibilità di un'istanza di fallimento senza previa risoluzione del concordato preventivo. D'altra parte, secondo alcuni interpreti, l'attuale inapplicabilità del citato art. 119 non varrebbe ad escluderne di per sé la rilevanza ermeneutica, essendo la norma già parte dell'Ordinamento.

Tuttavia, le sezioni unite sconfessano tale assunto, affermando che la portata marcatamente innovativa del citato art. 119 impedisce di attribuirgli una qualche utilità interpretativa ai fini della questione sottoposta, avendo il Supremo Consesso già chiarito più volte come “la pretesa di rinvenire nel CCII norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare oggi ancora vigente può sì ammettersi, ma se (e solo se) si possa configurare – nello specifico segmento – un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro”, continuità che, nel caso di specie, non sarebbe ravvisabile, a causa delle sensibili differenze introdotte dalla novella (cfr. Cass., sez. un., 24 giugno 2020 n. 12476 e 25 marzo 2021 n. 8504).

Tale rilievo, dunque, impedisce di introdurre, in via pretoria, “una condizione di fallibilità – procedibilità che […] non è oggi rinvenibile” nell'ordinamento vigente.

Conclusioni

Il recente arresto delle sezioni unite rischia di essere anacronistico: pur potendosi riconoscere ad esso l'intenzione di aver voluto risolvere una questione lungamente dibattuta in dottrina e giurisprudenza, non si può non rimarcare come la struttura argomentativa della decisione mal si concili con la prossima entrata in vigore del novello art. 119 CCII (15 luglio 2022).

Detta norma, nell'introdurre l'obbligatorietà della previa risoluzione del concordato preventivo ai fini della liquidazione giudiziale, risulta infatti in aperto contrasto con la giurisprudenza della Corte, e comporterà inevitabili problemi interpretativi, specialmente in relazione alla disciplina transitoria applicabile (cfr. art. 390 CCII).

Non solo: come già osservato in dottrina, il nuovo art. 119 farà probabilmente rivivere i medesimi dubbi di legittimità costituzionale che erano già stati sottoposti all'attenzione della Consulta nel 2004, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 41 Cost. di una disciplina che, all'epoca, era solamente “interpretata” nel senso di precludere il fallimento senza previa risoluzione, e che oggi, invece, prevede expressis verbis la necessità della previa risoluzione, circostanza che inevitabilmente comprime la possibilità per i creditori di far valere giudizialmente le proprie ragioni, rendendo più arduo il ricorso alla tutela concorsuale (cfr. G. Finocchiaro, Resta da capire il regime da applicare quando sarà valido il Codice della crisi, in Guida al Diritto, 2 aprile 2022, n. 12, 44-49).

In definitiva, in una prospettiva futura, la recente Sentenza della Cassazione rischia di concludersi in un nulla di fatto: non resta, pertanto, che dare il via alle prove tecniche per mandare in soffitta la legge fallimentare e attendere l'entrata in vigore del Codice della Crisi d'impresa, sì da tracciare un quadro più completo delle reazioni che si registreranno sul punto, in dottrina e giurisprudenza, nonché per meglio comprendere i risvolti pratici della novella.

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