L'illecito uso della CIGO COVID può comportare danno alla professionalità oltre che economico
31 Maggio 2022
Massima
È illecito l'utilizzo della CIGO a zero ore, con causale Covid, per un dipendente la cui posizione avrebbe dovuto essere soppressa nell'ambito di un piano di riorganizzazione aziendale, ma il cui licenziamento era impossibilitato dal divieto di legge, nelle more della crisi pandemica.
Inoltre, integrano il periculum in mora:
(1) il danno alla professionalità cagionato dalla sospensione dell'attività lavorativa per mansioni di alto profilo la cui peculiarità risieda proprio nel prolungato esercizio delle funzioni;
(2) il peggioramento della situazione economica del lavoratore a causa della consistente differenza tra lo stipendio e l'integrazione salariale, idonea a compromettere la situazione personale e familiare del lavoratore. Il caso
Un lavoratore agiva in giudizio ex art. 700 c.p.c. contro la società datrice di lavoro poiché, a suo dire, la società aveva sospeso la prestazione lavorativa collocandolo illecitamente in C.I.G.O., con causale Covid-19 a zero ore, per tredici settimane.
Il ricorrente sosteneva che la società non aveva in realtà necessità di fruire della misura di integrazione salariale, avendo ottenuto risultati di mercato persino migliori nonostante la crisi pandemica.
Secondo il lavoratore la società aveva in realtà utilizzato la misura «a mero fine ritorsivo e comunque per attuare politiche di riorganizzazione aziendale – dettate da ragioni di convenienza economica – nell'impossibilità di procedere al suo licenziamento in considerazione della normativa emergenziale vigente».
Di contro, parte resistente presentava anzitutto una serie di eccezioni di natura processuale:
a) incompetenza territoriale;
b) inammissibilità del ricorso per mancata indicazione della domanda di merito.
Il resistente, quindi, negava la sussistenza del periculum in mora e affermava, infine, l'infondatezza del ricorso anche in merito. Nel caso di specie era stato adito il giudice di Roma: il datore di lavoro resistente eccepiva l'incompetenza territoriale in quanto non aveva presso la città alcuna sede o dipendenza. Si ricorda infatti che l'art. 413 c.p.c. stabilisce che «competente per territorio è il giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto ovvero si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto».
Il Giudice romano respinge l'eccezione argomentando che la sede di lavoro era per previsione contrattuale Roma e il dipendente era in possesso di beni aziendali, tra i quali un'automobile e un personal computer: da ciò il giudicante afferma che Roma non potesse che essere considerata parte del complesso aziendale del datore di lavoro e che, pertanto, la causa fosse stata radicata correttamente ai sensi dell'art. 413 c.p.c.
Nella motivazione il Giudice di primo grado si rifà alla giurisprudenza di Cassazione (ex plurimis Cass. Sez. VI, ord. n. 5726/2021), affermando che «condizione minima, ma sufficiente a tal fine, è che l'azienda disponga in quel luogo di un nucleo di beni organizzati per l'esercizio dell'impresa, cioè destinato al soddisfacimento delle finalità imprenditoriali (…), è sufficiente che in tale nucleo operi anche un solo dipendente e non è necessario che i relativi locali e le relative attrezzature siano di proprietà aziendale».
Va segnalato, per inciso, che il tema si pone di un certo interesse alla luce del sempre più frequente impiego del lavoro agile.
In caso di controversia tra lavoratore agile e datore di lavoro, alla luce dell'evidenziata giurisprudenza, si potrebbe ritenere possibile radicare la causa nel foro dove il lavoratore agile svolge la prestazione che, molto spesso, coincide con la sua residenza. Come visto, il ricorso de quo ha carattere cautelare essendo azionato ex art. 700 c.p.c.
Risiede nella natura stessa dei riti cautelari la loro “strumentalità” al giudizio di merito. Infatti, un cautelare mira a ridurre i danni dovuti dalla fisiologica (e spesso patologica) durata dei giudizi di merito: il Giudice accogliendo una domanda cautelare offre una preventiva e temporanea tutela al diritto vantato al fine di evitarne un pregiudizio prima che il giudicante definisca la controversia.
Nel caso di specie, il resistente eccepisce che parte ricorrente non aveva espressamente indicato la futura ed eventuale domanda di merito, negando così l'essenziale natura strumentale del rito agito.
Anche questa eccezione viene respinta dal giudicante. Secondo il Tribunale di Roma è ben vero che un ricorso cautelare ha natura strumentale; tuttavia, è «sufficiente che dal tenore letterale dello stesso sia desumibile il contenuto del futuro ed eventuale ricorso di merito», elemento rinvenuto nel caso di specie.
A tal proposito il Giudice romano cita l'ord. del Tribunale di Torino, Sez. III, del 7 maggio 2007: non pare quindi che tale interpretazione sia sorretta da robusti precedenti giudiziari. Tuttavia, è anche vero che la riforma dei riti cautelari della L. n. 80/2005 ha di molto attenuato la strumentalità dei provvedimenti ex art. 700 c.p.c.
Infatti, in base alla formulazione attuale dell'art. 669-octies c.p.c., la mancata instaurazione del procedimento di merito (o la sua estinzione) non comporta l'inefficacia del provvedimento cautelare, del quale si potrà, in tal caso, chiedere eventualmente la revoca.
Alla luce dell'attuale fisionomia del procedimento ex art. 700 c.p.c. appare pertanto eccessivamente formalistico che il ricorso possa essere considerato invalido per mancata espressa formulazione della domanda di merito: il ricorrente ben potrebbe ritenere di non procedere al successivo procedimento di merito senza che perciò il provvedimento cautelare a suo favore perda efficacia.
La decisione nel merito
Il Giudice ha dovuto quindi vagliare la sussistenza dei due elementi necessari per l'accoglimento di un ricorso cautelare: il periculum in mora e il fumus boni iuris, la sussistenza dei quali è negata da parte resistente.
Il giudicante romano ha anzitutto analizzato la sussistenza della parvente fondatezza in diritto della richiesta del ricorrente.
Nello specifico, il ricorrente lamentava che la sospensione del rapporto fosse illegittima in quanto la CIGO sarebbe stata azionata non già per eventi riconducibili a difficoltà economiche (nello specifico la causale era la crisi pandemica), bensì per non dover pagare le retribuzioni del ricorrente, non potendo nella contingenza licenziarlo (vigeva infatti il blocco dei licenziamenti covid) per riorganizzazione aziendale.
Il Giudice, valutando le allegazioni al ricorso, ha ritenuto la sussistenza del fumus: va da sé che tale utilizzo della CIGO – una volta accertato in fatto – non può che essere valutato come illegittimo, esulando completamente dalla natura stessa della misura previdenziale.
La motivazione, da ultimo, analizza il periculum in mora, ossia il fondato timore che il diritto azionato possa subire un danno grave e irreparabile nelle more del giudizio ordinario.
Nel caso di specie, il Giudice romano rinviene l'esistenza del periculum sotto due profili. Anzitutto in un danno alla professionalità: «è quindi corretto affermare che la sospensione del ricorrente dalla propria qualificata attività lavorativa, che, come precisato dal CCNL, fonda il proprio elevato profilo su “prolungato esercizio delle funzioni”, sia idonea ad ingenerare danno alla professionalità dell'istante, pregiudizio imminente ed insuscettibile per sua natura di integrare risarcimento per equivalente».
In secondo luogo, nel danno economico cagionato dal sostanziale divario tra lo stipendio percepito e l'entità dell'integrazione salariale (pari al 38% del compenso) che «appare all'evidenza significativamente incidere sui mezzi di sostentamento del lavoratore, e, per tale ragione deve ritenersi idonea a compromettere la sua situazione personale e familiare, configurandosi quale fonte di un pregiudizio irreparabile». Riferimenti giurisprudenziali - Cass. Sez. VI, ord. 3 marzo, n. 5726 - Cass. Sez. VI, ord. 15 luglio 2013, n. 17347 - Tribunale di Torino, Sez. III, ord. del 7 maggio 2007 |