Omicidio volontario e aggravante del “mezzo insidioso”: non basta l'occultamento di un coltello e il suo uso repentino per integrare la circostanza
03 Giugno 2022
Massima
In tema di omicidio volontario, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante prevista dall'art. 577, comma 1, n. 2, c.p. l'espressione "mezzo insidioso" indica quello che, per la sua natura ingannevole o per il modo o le circostanze che ne accompagnino l'uso, reca in sé un pericolo nascosto, tale da sorprendere l'attenzione della vittima e rendere alla stessa impossibile, o comunque, più difficile che di fronte ad ogni altro mezzo la difesa. Nel caso in cui il mezzo usato per recare offesa sia un coltello, non integra il mezzo insidioso il mero occultamento dell'arma del delitto o la mera repentinità del gesto dell'agente nel colpire la vittima, dovendo essere riconosciuto il pericolo nascosto quando le modalità della condotta dell'agente consentano di ricostruire un inganno in cui la vittima è caduta e di cui non si poteva avvedere. Il caso
La sentenza in oggetto riguarda un caso di omicidio volontario che ha rappresentato il culmine di una serie di violenti attriti tra l'imputato e la famiglia della vittima. Come rilevato dalla Corte nella parte in fatto, si erano verificati numerosi episodi di attrito prima del fatto. In particolare, come riportato nella sentenza di secondo grado, prima del fatto per cui si procede l'imputato aveva danneggiato l'auto del suocero della vittima, che in risposta gli aveva dato uno schiaffo, in risposta al quale l'imputato aveva minacciato di sparargli e nell'immediatezza distrutto il lunotto stesso. Inoltre, sempre prima del fatto per cui si procede, l'imputato avrebbe scritto con la vernice frasi ingiuriose sull'asfalto davanti al circolo gestito dai suoceri della vittima. Al termine di tali condotte, l'imputato si è recato, con aria di sfida, al circolo privato dei familiari della vittima, è stato condotto fuori dal locale e ha obbligato la vittima ad uscire insieme a lui e poi seguirlo fin sotto casa per regolare i conti. In quell'occasione è nata una colluttazione durante la quale l'imputato, con una mossa repentina, ha colpito la sua vittima con un coltello occultato sulla propria persona.
L'imputato è stato condannato in primo grado, all'esito del giudizio abbreviato, alla pena di quindici anni e sei mesi per il delitto di omicidio volontario aggravato e per la contravvenzione di porto di coltello fuori della propria abitazione, mentre in secondo grado la pena è stata rideterminata in quindici anni di reclusione, in quanto la Corte di Appello ha escluso la sussistenza della circostanza pervista dall'art. 61 comma 1 n. 5 c.p., ritenendo, invece, integrata quella di cui all'art. 577 comma 1 n. 2 c.p. La questione
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte torna ad affrontare la questione molto specifica della configurabilità della circostanza aggravante dell'omicidio volontario prevista dall'art. 577 comma 1 n. 2, ossia dell'utilizzo di un “mezzo insidioso”, nel caso di un omicidio perpetrato con un coltello.
Se la prima parte della previsione della summenzionata norma (l'uso di un mezzo venefico) è di più agevole lettura, nella sua genericità l'indicazione del “mezzo insidioso” si presta, ovviamente, a plurime interpretazioni a seconda del caso specifico e del mezzo concretamente utilizzato.
Nel caso di specie la circostanza aggravante è stata ritenuta sussistente sia in primo che in secondo grado sulla base di diverse argomentazioni e nello specifico:
La Corte ha dovuto valutare se tali elementi possono, da soli, essere sufficienti ai fini dell'integrazione dell'aggravante. Le soluzioni giuridiche
La Corte di cassazione, sulla base delle soluzioni proposte dai giudici di merito, ha dovuto valutare se, ai fini della sussistenza dell'aggravante in parola, sia sufficiente il mero occultamento dell'arma utilizzata per il delitto, che era stata nascosta alla vista della vittima, o se sia necessario anche un passaggio logico in più, rilevato nella sentenza di appello che ha incentrato il nucleo dell'aggravante nell'aver l'agente dato le spalle alla vittima e nell'averla colpito con gesto fulmineo.
Secondo la Corte di appello, infatti, la configurabilità dell'aggravante in parola «si sostanzierebbe nel combinato di tre circostanze di fatto esistenti nel caso in esame: l'occultamento dell'arma, l'essersi posto l'agente di spalle alla vittima, l'essere stata colpita la vittima con gesto fulmineo».
La Suprema Corte, partendo da queste due distinte interpretazioni esaminate alla luce della giurisprudenza di legittimità, è giunta ad una terza soluzione, più ancorata al caso specifico dell'uso dei un coltello e più rigoroso nella valutazione dell'insidiosità del mezzo.
In particolare, la Corte ha evidenziato come, secondo un'interpretazione più risalente, (Cass. pen., sez. V, 31 gennaio 1991, n. 2491, Piras, Rv. 186478) il mezzo insidioso è quello che «o per la sua natura ingannevole o per il modo e le circostanze che ne accompagnano l'uso, reca in sé un pericolo nascosto tale da sorprendere l'attenzione della vittima e rendere alla stessa impossibile o più difficile la difesa».
Secondo un'interpretazione più attuale e garantista, non sarebbe invece sufficiente il mero occultamento in quanto in tema di omicidio, la circostanza aggravante dell'uso del mezzo insidioso ricorre quando il mezzo usato, «per la sua natura ingannevole o per il modo e le circostanze che ne accompagnano l'uso, reca in sé un pericolo occulto, tale da sorprendere l'attenzione della vittima e rendere alla stessa impossibile o più difficile la difesa» (Cass. pen., sez. I, 8 novembre 2018, n. 7992, Viola, Rv. 274876).
Secondo la Corte di cassazione, pur avendo la Corte di Appello operato “uno sforzo argomentativo apprezzabile” per superare l'impostazione sposata dal giudice di prime cure, anche la valutazione operata dal giudice dell'appello non può essere accolta, proprio in base ai dettami della pronuncia Viola, citata nella sentenza di secondo grado, che ha infine escluso la sussistenza dell'aggravante prevista dall'art. 577 comma 1 n. 2 c.p.
Secondo la Suprema Corte, infatti, partendo dall'insegnamento della sentenza Viola e, ancor di più, da quello della pronuncia Tavelli (Cass. pen., sez. I, 5 febbraio 2013, n. 11561, RV. 255337) l'indirizzo seguito dalla giurisprudenza deve essere ulteriormente precisato, in quanto non si può ritenete sufficiente che la capacità di difesa della vittima sia stata sorpresa dalla repentinità del gesto dell'agente.
Proprio per tale motivo, nel caso di specie, la Corte ha infine escluso la sussistenza dell'aggravante in parola, in quanto alla luce delle coordinate ermeneutiche appena esaminate, la vittima aveva accettato un confronto con l'imputato -che ha costituito l'acme di una serie di reciproche condotte aggressive- e per tale motivo «il gesto repentino diventa solo una modalità dell'azione» che non può comportare un rilevante inasprimento della pena.
Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte ha infine dettato, ai sensi dell'art. 173 comma 2 disp. att. c.p.p., il principio di diritto al quale dovrà uniformarsi il giudice del rinvio deputato a riconsiderare la sussistenza dell'aggravante: «in tema di omicidio volontario, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante prevista dall'art. 577, comma 1, n. 2, c.p. l'espressione "mezzo insidioso" indica quello che, per la sua natura ingannevole o per il modo o le circostanze che ne accompagnino l'uso, reca in sé un pericolo nascosto, tale da sorprendere l'attenzione della vittima e rendere alla stessa impossibile, o comunque, più difficile che di fronte ad ogni altro mezzo la difesa. Nel caso in cui il mezzo usato per recare offesa sia un coltello, non integra il mezzo insidioso il mero occultamento dell'arma del delitto o la mera repentinità del gesto dell'agente nel colpire la vittima, dovendo essere riconosciuto il pericolo nascosto quando le modalità della condotta dell'agente consentano di ricostruire un inganno in cui la vittima è caduta e di cui non si poteva avvedere». Osservazioni
Come evidenziato nei precedenti paragrafi, la sentenza in commento è di estremo rilievo in quanto opera una ricostruzione sui principali assesti giurisprudenziali sull'aggravante dell'utilizzo del “mezzo insidioso” - con lo specifico riferimento all'utilizzo di un coltello occultato - per giungere a richiedere un quid pluris rispetto a quanto espresso in passato.
Un elemento in più che, seppur necessariamente ancorato al caso concreto, è frutto di un'impostazione estremamente garantista che tende a non riconoscere “automaticamente” la sussistenza di una circostanza aggravante – che può avere anche un impatto consistente sulla pena finale da irrogare- in presenza di determinate condizioni che possono essere connaturate alla condotta stessa.
Nel caso di specie, infatti, la Corte di cassazione ha superato l'impostazione del giudice di prime cure che si limitava a ritenere integrata l'aggravante sulla base del mero occultamento, ma è andata altresì oltre l'interpretazione del giudice dell'appello, ritenendo che il gesto “repentino”, non può essere automaticamente indice del mezzo “particolarmente insidioso”.
E ciò in quanto avendo la parte deciso di accettare un “confronto” con l'imputato, un gesto repentino era connaturato al tipo di situazione.
Proprio per questo la Suprema Corta ha correttamente specificato ulteriormente i precedenti principi, richiedendo una condotta eccentrica rispetto al contesto in cui si si svolge l'azione e che introduce un pericolo inaspettato.
Un principio che vincola l'interprete al rispetto di determinati canoni ermeneutici e che veicolerà senza dubbio le future pronunce sul tema.
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