Tutela reintegratoria “attenuata” e fatto rientrante tra le condotte punibili con una sanzione conservativa
06 Giugno 2022
Massima
In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18, commi 4 e 5, della l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa, né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo. Il caso
Una guardia giurata viene licenziata:
a) per avere, in una conversazione via “chat” con una collega, criticato e denigrato i responsabili dell'impresa;
b) per non aver denunciato l'aggressione con lesioni subita da un collega durante il servizio;
c) per avere omesso per cinque mesi di segnalare alla questura i turni di servizio del personale, come imposto da precise direttive.
Il giudice del reclamo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiara risolto il rapporto di lavoro condannando il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria ai sensi dell'art. 18, comma 5, st. lav., in quanto, pur accertata l'irrilevanza disciplinare della prima condotta e il “minimo rilievo” disciplinare delle altre due, non reputa possibile sussumere queste ultime nell'ambito della norma collettiva che prevede l'applicazione di sanzioni conservative, riferita ad ipotesi di infrazioni formulate in modo assai generico ed indefinito (i.e.: condotte caratterizzate da lievi irregolarità nell'adempimento, ritardo nell'inizio del lavoro o esecuzione del lavoro senza la necessaria diligenza, esecuzione del lavoro con negligenza grave ovvero omissione parziale di esecuzione del servizio).
La S.C. accoglie il ricorso del lavoratore, con una motivazione di cui si illustreranno nel prosieguo i passaggi centrali. La questione
La questione in esame è la seguente: ai fini dell'applicabilità della cd. tutela “reintegratoria attenuata” ex art. 18, comma 4, st. lav., con riguardo all'ipotesi in cui “il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, è necessario che la condotta contestata al lavoratore (e successivamente accertata) coincida esattamente con quella contemplata dalla previsione di fonte negoziale che punisca la predetta condotta con sanzione conservativa? Le soluzioni giuridiche
All'indomani dell'entrata in vigore della legge “Fornero” non vi è stata unanimità di vedute circa l'interpretazione della disposizione di cui all'art. 18, comma 4, st. lav., nella parte in cui è previsto che “Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro (…) perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro (…) e al pagamento di un'indennità risarcitoria (…)”.
Si riteneva da alcuni che, ai fini dell'operatività della previsione, dovesse esservi una esatta corrispondenza tra il fatto così come contestato (ed accertato in giudizio) e quello previsto dalla norma collettiva quale infrazione punita con sanzione conservativa.
La ragione di tale orientamento poggiava, sostanzialmente, sul rilievo che - nell'ottica della commisurazione dell'entità della sanzione per il licenziamento illegittimo non al pregiudizio subito dal lavoratore ma alla gravità della condotta datoriale - la misura della reintegrazione potesse gravare sul datore solo in presenza di una iniziativa (ossia il licenziamento del lavoratore) all'evidenza errata, in quanto in aperto contrasto con la disciplina applicabile dalla fonte negoziale; e, perché potesse parlarsi di “iniziativa all'evidenza errata”, era necessario che il datore medesimo potesse verificare, pressoché a “prima vista”, che l'infrazione contestata fosse punita dalla predetta fonte con sanzione conservativa; il passaggio conclusivo era che una verifica di tal fatta potesse compiersi solo ove l'infrazione punita con sanzione conservativa fosse delineata dalla fonte in questione in maniera chiara e dettagliata.
In tale prospettiva si era quindi sostenuto che, ove la norma collettiva contemplante l'infrazione fosse stata formulata in maniera “generica” o “elastica”, il giudice non avrebbe potuto interpretare la predetta norma al fine di valutare se il fatto contestato potesse rientrarvi (anche sulla base di un giudizio di valore che tenesse conto di altre infrazioni per converso sufficientemente tipizzate) ai fini dell'applicazione della tutela reintegratoria “attenuata”.
Tale valutazione, infatti, avrebbe avuto ad oggetto il requisito della “proporzionalità”, il cui accertato difetto conduce all'applicazione della tutela indennitaria “forte” di cui all'art. 18, comma 5, st. lav.
Si riteneva, invece, da altri, che l'interpretazione delle clausole, pur generiche, della fonte negoziale, costituisce attività ordinaria del giudice - avente nel caso la sola particolarità di essere più complessa di quanto non lo sia quella di interpretazione di disposizioni dettagliate -, che anticipa un normale giudizio di sussunzione (della condotta nell'ambito della previsione negoziale, la quale, anche ove espressa con locuzioni quali “negligente”, o “nei casi di maggiore gravità”, avrebbe pur sempre riguardo ad una condotta) cui è estranea ogni valutazione in punto di proporzionalità, la quale, nel caso, è stata già compiuta a monte dalla predetta fonte. In buona sostanza, secondo il descritto orientamento, non si comprendeva la ragione per cui che il giudice potesse interpretare e valutare la fonte negoziale al solo fine di stabilire la legittimità o meno del licenziamento e non in funzione dell'applicabilità della tutela conseguente.
Con varie pronunzie la S.C. ha aderito al primo orientamento.
In particolare, Cass. 9 maggio 2019, n. 12365 (ma, già in precedenza, tra le altre, v. Cass. 12 ottobre 2018, n. 25534 e Cass. 17 ottobre 2018, n. 26013) ha affermato che «Ove la condotta addebitata al lavoratore abbia un pari disvalore disciplinare rispetto a quelle punite dal c.c.n.l. con sanzione conservativa, il giudice, sebbene gli sia precluso applicare la tutela reintegratoria alle ipotesi non tipizzate dalla contrattazione collettiva - giacché, nel regime introdotto dalla l. n. 92 del 2012, tale tutela costituisce l'eccezione alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria, presupponendo l'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, l'abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo, derivante o dalla insussistenza del fatto contestato o dalla chiara riconducibilità della condotta tra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore - se ritiene che tale condotta non costituisca comunque giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, utilizzando la graduazione delle infrazioni disciplinari articolate dalle parti collettive come parametro integrativo delle clausole generali di fonte legale, ai sensi dell'art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 183 del 2010, potrà dichiarare illegittimo il recesso e, risolto il rapporto di lavoro, applicare la tutela indennitaria prevista dall'art. 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970. (Nella fattispecie, relativa a un lavoratore sorpreso dal proprio superiore gerarchico, durante il turno di lavoro notturno, addormentato presso una diversa zona dello stabilimento, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, ritenuta tale condotta assimilabile al c.d. abbandono del posto di lavoro, infrazione punita dal c.c.n.l. addetti Industria Metalmeccanica con sanzione conservativa, aveva applicato la tutela reintegratoria)».
Il nucleo centrale della predetta pronuncia è imperniato sul rilievo che «l'apertura all'analogia o a un'interpretazione che allargasse la portata della norma collettiva oltre i limiti sopra delineati (...) produrrebbe effetti esattamente contrari a quelli chiaramente espressi dal legislatore in termini di esigenza di prevedibilità delle conseguenze circa i comportamenti tenuti dalle parti del rapporto”.
In senso sostanzialmente conforme è stato quindi ritenuto - da Cass. 20 maggio 2019, n. 13533 - che "L'accesso alla tutela reale di cui all'art. 18, comma 4, st.lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012, presuppone una valutazione di proporzionalità fra sanzione conservativa e fatto in addebito tipizzata dalla contrattazione collettiva, mentre, laddove il c.c.n.l. rimetta al giudice la valutazione dell'esistenza di un simile rapporto di proporzione in relazione al contesto, al lavoratore spetta la tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5, st.lav., non ravvisandosi in tale disciplina una disparità di trattamento - connessa alla tipizzazione o meno operata dalle parti collettive delle condotte di rilievo disciplinare - bensì l'espressione di una libera scelta del legislatore, fondata sulla valorizzazione dell'autonomia collettiva in materia”; e, ancora, che “L'accesso alla tutela reale di cui all'art. 18, comma 4, st. lav., divenuta eccezionale a seguito della modifica introdotta dalla l. n. 92 del 2012, presuppone una valutazione di proporzionalità della sanzione conservativa al fatto in addebito tipizzata dalla contrattazione collettiva, potendosi procedere ad un'interpretazione estensiva delle clausole contrattuali soltanto ove esse appaiano inadeguate per difetto dell'espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all'intenzione.
(Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, in un caso di inosservanza delle fasce di reperibilità, aveva riconosciuto la tutela reintegratoria attenuata in assenza di apposita previsione sulla base di una valutazione comparativa di minore gravità rispetto alle ipotesi punite con sanzione conservativa, quali la simulazione di malattia ovvero le assenze arbitrarie di durata non superiore a cinque giorni)". (così Cass. 19 luglio 2019, n. 19578).
Tale orientamento è stato ulteriormente esplicitato da Cass. 5 dicembre 2019, n. 31839, secondo cui “solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento illegittimo sarà anche meritevole della tutela reintegratoria”.
La S.C., con la pronuncia in commento (poi seguita, tra le altre, da Cass. 26 aprile 2022, n. 13063), opta, invece, per l'altro indirizzo sopra sinteticamente illustrato, sostenendo che “poiché al giudice è demandato di interpretare la norma collettiva non solo per stabilire se si possa ritenere sussistente o meno una giusta causa o un giustificato motivo di recesso ma anche per individuare la tutela in concreto applicabile, laddove la fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva attraverso una clausola generale - graduando la condotta con riguardo ad una sua particolare gravità ed utilizzando nella descrizione della fattispecie espressioni che necessitano di essere riempite di contenuto - rientra nel compito del giudice riempire di contenuto la clausola utilizzando “standard” conformi ai valori dell'ordinamento ed esistenti nella realtà sociale in modo tale da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravità. In sostanza al giudice è demandato di interpretare la fonte negoziale e verificare la sussumibilità del fatto contestato nella previsione collettiva anche attraverso una valutazione di maggiore o minore gravità della condotta.
Tale operazione non si esaurisce in una generica valutazione di proporzionalità della stessa rispetto alla sanzione irrogata, dal che deriverebbe l'applicazione dell'art. 18 comma 5 dello Statuto, ma realizza una vera e propria sussunzione dei fatti contestati al dipendente nell'una o nell'altra fattispecie contemplata dalla disciplina collettiva”; ed ancora, che “L'attività di sussunzione della condotta contestata al lavoratore nella previsione contrattuale espressa attraverso clausole generali o elastiche non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, ma si arresta alla interpretazione ed applicazione della norma contrattuale, rimanendo nei limiti di attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.
Non si tratta di una autonoma valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto, ma di una interpretazione del contratto collettivo e della sua applicazione alla fattispecie concreta. In definitiva, ed in via esemplificativa, ciò che si deve accertare è se una determinata condotta sia o meno riconducibile alla nozione di negligenza lieve indicata nella norma collettiva come sanzionabile con una misura conservativa e non decidere se per la condotta di negligenza lieve sia proporzionata la sanzione conservativa o quella espulsiva”. Osservazioni
La complessità del tema deriva, in buona parte, dalla difficoltà non tanto di individuare la “ratio” - ancorata, come detto in precedenza, alla gravità della condotta del datore - della nuova versione dell'art. 18, comma 4, st.lav., quanto di verificare, da un lato, la portata, su un piano di effettività, della “ratio” in questione, nonché, dall'altro, la plausibilità dell'impianto normativo che intenderebbe sorreggerla, al fine di saggiarne la coerenza con l'intero sistema.
Ma partiamo, per comodità di trattazione, dal secondo aspetto, rilevando fin da subito come appaia non poco irragionevole che l'applicazione di una misura sanzionatoria di portata rilevante, quale è la reintegrazione nel posto del lavoratore ingiustamente licenziato, possa dipendere da un dato esterno all'illecito, ossia dalla stretta corrispondenza tra la condotta addebitata al lavoratore e quella, punita con sanzione conservativa, descritta in modo specifico dalla disposizione collettiva (o del codice disciplinare); la corrispondenza in questione, infatti, poggiando su un fattore del tutto casuale - quale la delineazione precisa dell'illecito disciplinare sanzionato -, renderebbe applicabile, nell'ambito del settore disciplinato dallo stesso contratto, la mera tutela indennitaria a fronte di un illecito, non compiutamente configurato dalla predetta disposizione, avente tuttavia minore o medesimo disvalore di altro esattamente descritto, in presenza del quale opererebbe la tutela reintegratoria.
Non sembra infatti condivisibile l'assunto - presente nella sopra citata Cass. n. 13533/2019 - secondo cui la scelta del legislatore sarebbe fondata sulla valorizzazione dell'autonomia collettiva in materia; basti il rilievo che le disposizioni della contrattazione collettiva non sono preordinate a selezionare le forme di tutela applicabili sulla base del tasso di specificità di descrizione dell'illecito disciplinare.
La configurazione analitica dell'illecito e la previsione di norme elastiche o di previsioni di chiusura può dipendere da molteplici fattori - quali, da un lato, la ricorrenza in concreto, con una certa frequenza, di determinate condotte disciplinarmente rilevanti, la automatica riproduzione delle stesse figure di illecito previste nei precedenti contratti collettivi, ecc …; dall'altro, l'impossibilità pratica di tipizzare tutte le condotte di rilievo disciplinare -, cui rimane, tuttavia, certamente estranea una volontà delle parti collettive di precludere la reintegrazione in presenza di licenziamenti illegittimi intimati a fronte di condotte non compiutamente descritte.
Infatti - e su ciò occorre far chiarezza - una tale ipotetica volontà presupporrebbe che le parti collettive abbiano previamente individuato alcune condotte di valenza disciplinare, analoga a quella di altre precisamente identificate (e punite con sanzione conservativa), da non descrivere dettagliatamente nel contratto in modo tale che, ove il datore le sanzionasse con un licenziamento poi ritenuto illegittimo, il giudice non potrebbe pronunciare l'ordine di reintegra. Ovviamente un tale macchinoso meccanismo sembra tutt'altro che lineare sotto un profilo logico (ed infatti non sarebbe chiara la ragione per cui proprio quella determinata condotta - e non altre di analoga valenza disciplinare punite con sanzione conservativa - resti, “volutamente”, non contemplata chiaramente nel contratto, al fine di evitare, in caso di suo compimento, la reintegra), oltre che non riscontrabile, per come visto, nella comune esperienza.
In tale ottica sembra chiarirsi l'equivoco che si annida in molte opinioni, stando alle quali le parti collettive potrebbero meglio assolvere alla funzione di selezione delle tutele mediante un arricchimento dei codici disciplinari; a ciò può infatti replicarsi che la predetta implementazione avrebbe sempre e solo la funzione di rendere più agevolmente individuabili le condotte disciplinarmente rilevanti e le relative sanzioni - il che consente, in definitiva, di stabilire se la sanzione comminata sia legittima o meno -, mentre l'attività di selezione delle tutele comporta una consapevole scelta che, come detto, non sembra in concreto far parte del complessivo assetto di interessi delle parti.
Tuttavia, la linea di pensiero imperniata sulla “valorizzazione della autonomia collettiva” è, sul tema, dominante, sicché anche la sentenza in commento sembra rimanervi fedele, laddove afferma che “Se la finalità dell'art. 18 comma 4 dello Statuto dei lavoratori è quella di valorizzare l'autonomia collettiva e imporre la tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per comportamenti che il c.c.n.l. punisce con una sanzione conservativa, allora questa funzione è svolta in misura del tutto analoga sia dai fatti specificatamente tipizzati, sia da quelli espressi in clausole generali o norme elastiche. Una distinzione delle tutele tra le due ipotesi, reintegra nel primo caso e tutela indennitaria nel secondo, si risolverebbe in una ingiustificata disparità di trattamento e finirebbe per essere illogica ed in contrasto col fine stesso propostosi dal legislatore, fine che una interpretazione troppo rigida della disposizione finirebbe per contraddire”.
Resta comunque il fatto, tirando le fila di quanto sin qui detto, che sul sopra descritto profilo di irragionevolezza, di elevata consistenza nonché di immediata percepibilità, non sembra possa agire, in chiave riduttiva e/o quanto meno compensativa, l'esigenza di certezza e prevedibilità delle conseguenze del licenziamento illegittimo.
Il che conduce a riflettere sul primo aspetto - non meno delicato -, ossia quello della richiamata “ratio”, incentrata sulla gravità della condotta datoriale derivante dall'errore non giustificabile nell'irrogazione della sanzione.
Al riguardo, la sentenza in commento afferma che “Così come il giudice chiamato a sussumere il fatto concreto nella fattispecie astratta delineata dalla norma collettiva o dal codice disciplinare la riempie di contenuto attribuendo un significato socialmente condiviso all'espressione elastica che caratterizza la norma (si pensi alla nozione di lieve piuttosto che grave negligenza) allo stesso modo e sulla base degli stessi condivisi parametri tale operazione può essere effettuata dal datore di lavoro all'atto di irrogare la sanzione”.
Al che potrebbe obiettarsi che l'operazione interpretativa del datore avente ad oggetto una clausola generica od elastica, non fondata quindi sul chiaro dato letterale, difficilmente potrebbe condurre a ravvisare l'abuso “consapevole” del potere disciplinare, avuto riguardo al giudizio di immancabile relatività che sorregge l'interpretazione in senso lato funzionale.
Tuttavia, a ben vedere, quel giudizio di relatività accompagna spesso anche l'interpretazione letterale, sicché l'abuso del potere disciplinare potrebbe non sussistere in concreto a fronte di ipotesi in cui invece dovrebbe operare la reintegra; si pensi al caso della disposizione collettiva che punisca con sanzione conservativa il “danneggiamento” dei beni aziendali e con il licenziamento la “sottrazione” dei beni stessi, ed il datore, una volta appurato che il danneggiamento ha reso del tutto inutilizzabili i beni, commini il licenziamento ritenendo che quel danneggiamento, che egli ritiene doloso, di fatto, equivalga ad una sottrazione, anzi, sia addirittura di valenza maggiore, poiché quei beni non potranno più essere potenzialmente restituiti in breve tempo.
Una tale interpretazione del dato letterale non sembra possa dirsi artificiosa, sicché, in tal caso, dovrebbe escludersi l'abuso (benché debba in astratto applicarsi la reintegra, in quanto il danneggiamento è punito con sanzione conservativa).
L'esempio fatto porta a considerare che la ipotetica “ratio” ispiratrice della norma non avrebbe neppure modo di esprimersi sempre compiutamente nella realtà.
Sicché, alla fine, anche la centrale argomentazione fondata su detta “ratio” non pare possa risultare prevalente sul rilievo, di recente ancora enunciato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022, che “la diversità dei rimedi previsti dalla legge deve sempre essere sorretta da una giustificazione plausibile”.
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