Rigetto della richiesta di sospensione del processo con messa alla prova e incompatibilità del giudice
06 Giugno 2022
Massima
Il rigetto della richiesta di sospensione del processo con messa alla prova dell'imputato intervenuta nel corso degli atti introduttivi del dibattimento non comporta l'incompatibilità ad esercitare le funzioni di giudice del dibattimento. Il caso
La Corte costituzionale è stata adita per valutare la legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui la citata norma non prevede che il giudice del dibattimento che ha rigettato la richiesta dell'imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova non possa partecipare al giudizio che prosegua nelle forme ordinarie.
La decisione interviene a distanza di qualche anno dalla pronuncia di inammissibilità per motivi formali emessa sullo stesso tema (Corte cost. 24 gennaio 2017, n. 19) e trae origine da due questioni sostanzialmente analoghe sollevate dai Tribunali di Spoleto e Palermo.
I citati procedimenti avevano ad oggetto rispettivamente i reati di cui agli artt. 635, comma 2, e 590-bis, commi 1 e 5, n. 2), c.p. In entrambi i casi i giudici rimettenti - pur ritenendo sussistenti le condizioni generali per l'accesso al rito speciale (limite di pena e mancanza di condizioni ostative) - avevano respinto la richiesta a fronte del dissenso espresso dalla persona offesa e della carenza di iniziative risarcitorie nei confronti di quest'ultima. Il Giudice di Spoleto aveva preso in considerazione anche i precedenti penali dell'imputato.
Nei provvedimenti di rimessione si sostiene che la mancata previsione dell'incompatibilità del giudice nei casi considerati implicherebbe la violazione dell'art. 3 Cost., per contrasto con il principio di eguaglianza. Non vi sarebbe, infatti, ragione per differenziare le ipotesi in esame da quelli espressamente previsti dalla norma censurata o aggiunti per effetto di pronunce della Corte costituzionale - posto che, nel decidere sulla richiesta di ammissione alla prova, il giudice esprimerebbe valutazioni di merito in riferimento alla personalità dell'imputato e in ordine alla fondatezza dell'ipotesi accusatoria.
Inoltre, consentire che il processo prosegua in sede dibattimentale davanti allo stesso magistrato che ha rigettato la richiesta di messa alla prova comporterebbe, secondo i rimettenti, la lesione degli artt. 24, comma 2 e 111, comma 2, Cost. dal momento che il Tribunale sarebbe inevitabilmente condizionato dalle valutazioni - negative per la posizione dell'imputato - precedentemente espresse per la formazione del proprio convincimento, con conseguente lesione del diritto di difesa dell'imputato e dei principi di imparzialità e terzietà del giudice. La questione
La questione posta all'attenzione del Giudice delle Leggi nel caso in esame attiene alla valutazione della sussistenza di ragioni di incompatibilità in capo al giudice del dibattimento che nel corso degli atti introduttivi abbia assunto decisioni che comportino valutazioni di merito in ordine all'oggetto del giudizio. Nelle ordinanze di rimessione si richiede, in particolare, di considerare la necessità, connaturata a un sistema processuale di stampo accusatorio, di evitare che il giudice del giudizio conosca gli atti delle indagini preliminari al fine di prevenire influenze negative sulla sua imparzialità e terzietà.
Al fine di inquadrare correttamente il caso, appare opportuno richiamare preliminarmente la normativa e gli orientamenti giurisprudenziali in tema di incompatibilità c.d. orizzontale e in tema di attività che il giudice è chiamato a svolgere allorché riceva una istanza ex art. 464-bis, comma 2, c.p.p.
A) L'incompatibilità cd. orizzontale
L'art. 34 c.p.p. disciplina al secondo comma, la cosiddetta incompatibilità "orizzontale", attinente alla relazione tra la fase del giudizio e quella che immediatamente la precede.
Come sottolineato anche nella sentenza in commento, le norme sulla incompatibilità del giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, sono poste a tutela dei valori della terzietà e della imparzialità della giurisdizione, presidiati dagli artt. 3, 24, comma 2, e 111, comma 2, Cost.
Esse risultano finalizzate ad evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione - ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto - scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (si richiamano sul punto, fra le altre, le sentenze della Corte cost. 21 gennaio 22 n. 16; Corte cost. 18 gennaio 2022 n. 7; Corte cost., 9 luglio 2013 n. 183 e Corte cost., 21 giugno 2012 n. 153).
B) Gli adempimenti compiuti dal giudice in seguito alla presentazione dell'istanza ex art. 464-bis c.p.p.
Secondo quanto stabilito dal codice di rito, il giudice assume la propria decisione sulla richiesta di sospensione del processo con messa alla prova in base all'istanza presentata dall'imputato e al programma di trattamento (ad essa allegato o da predisporre in seguito alla citata richiesta). A norma dell'art. 464-bis, comma 5, c.p.p., inoltre, al fine di decidere sull'ammissione al rito e sulla determinazione degli obblighi e delle prescrizioni cui eventualmente subordinarla, il giudice può acquisire tutte le ulteriori informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell'imputato.
Prima di decidere occorrerà, infine, che il giudice verifichi l'insussistenza di cause di immediato proscioglimento ex art. 129 c.p.p., l'idoneità del programma in base al parametro di cui all'art. 133 c.p. ed effettui una valutazione prognostica circa l'insussistenza del pericolo di commissione di ulteriori reati da parte del soggetto richiedente (art. 464-quater c.p.p.).
La Corte costituzionale ha poi chiarito che, nei casi in cui la richiesta venga avanzata nel corso degli atti introduttivi al dibattimento, il giudice potrà ordinare l'esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero ove ritenuto necessario od opportuno per assumere le proprie determinazioni. La disciplina contenuta nell'art. 135 disp. att. c.p.p. in riferimento all'applicazione della pena su richiesta delle parti, infatti, è stata ritenuta analogicamente applicabile anche alla messa alla prova (Corte cost., 27 aprile 2018, n. 91). Le soluzioni giuridiche
Richiamando alcune proprie precedenti decisioni (Corte cost., n. 16/2022, n. 153/2012 e n. 131/1996), la Corte costituzionale ribadisce che l'incompatibilità endoprocessuale del giudice debba ritenersi “costituzionalmente necessaria” allorché concorrano quattro condizioni:
Il Giudice delle Leggi chiarisce, riportando una formula già utilizzata in diversi precedenti, che il citato assetto mira al contempo a garantire che all'interno di ciascuna delle fasi resti preservata l'esigenza di continuità e a prevenire una “assurda frammentazione del procedimento”, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere.
Ai fini della soluzione del caso in esame, la Corte rileva che appaiono sussistenti le prime tre condizioni ma non anche l'ultima. Nella sentenza in commento si precisa, infatti, che quella degli atti introduttivi (artt. 484 e ss. c.p.p.) non è un'autonoma fase processuale, ma una semplice "sub-fase" dell'unitaria fase del dibattimento al pari di quelle dell'istruzione dibattimentale, della discussione finale e della deliberazione. Per queste ragioni la questione viene dichiarata infondata.
I Giudici ripropongono un ragionamento già posto a fondamento di precedenti decisioni volto a sostenere il principio di non configurabilità di una incompatibilità “endofasica”. Nella motivazione si chiarisce inoltre che il precedente di segno contrario - rappresentato dalla sentenza n. 186 del 1992 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 34, comma 2, c.p.p. nella parte in cui non prevedeva l'incompatibilità a partecipare al giudizio del giudice del dibattimento che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata ai sensi dell'art. 444 c.p.p. - non sarebbe rilevante dal momento che esso sarebbe risalente e superato dalla successiva evoluzione della giurisprudenza costituzionale. Osservazioni
La decisione in commento offre diversi spunti di riflessione in ordine al significato e ai presupposti dell'incompatibilità endoprocessuale del giudice e all'evoluzione dei relativi approdi giurisprudenziali. Essi attengono: al delicato rapporto fra imparzialità e naturalità del giudice, agli orientamenti giurisprudenziali in ordine alla sussistenza dell'incompatibilità del giudice che emetta una decisione in sede di atti preliminari al dibattimento a partecipare al successivo giudizio e al grado di autonomia da riconoscere alla fase introduttiva del dibattimento.
1. Imparzialità e naturalità del giudice
Deve preliminarmente evidenziarsi che il principio di diritto che costituisce il punto di partenza da cui prende le mosse la Corte costituzionale sembrerebbe profondamente ridimensionato a causa di esigenze di carattere pratico ed efficientistico.
All'esordio si chiarisce, infatti, che le norme sull'incompatibilità risultano finalizzate a evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione - ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto - scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda.
Successivamente, tuttavia, le condizioni indicate dal Giudice delle Leggi come indispensabili per ritenere sussistente (o più precisamente “costituzionalmente necessaria”) una causa di incompatibilità endoprocessuale appaiono ispirate a salvaguardare esigenze di carattere concreto. Esse sono costituite dalla necessità di garantire continuità del processo e da quella di evitare un'eccessiva frammentazione dello stesso.
Come detto, secondo l'orientamento riportato, in mancanza anche di una sola delle circostanze elencate, il giudice, pur potendo obiettivamente apparire condizionato da una precedente valutazione in ordine alla res iudicanda, non verserà, tuttavia, in alcuna situazione di incompatibilità.
Forse per questa ragione la Corte utilizza nella sentenza in commento il riferimento ai casi in cui la incompatibilità debba ritenersi “costituzionalmente necessaria” quasi a voler esprimere un concetto almeno parzialmente differente dalla mera obiettiva sussistenza di una circostanza pregiudicante, nell'ottica di rimettere la rilevanza della stessa a una più ampia valutazione che tenga in considerazione anche altri valori di rango costituzionale, fra i quali, in primo luogo, il principio di naturalità e precostituzione del giudice.
In diverse occasioni, infatti, è stato precisato che non può attribuirsi “alle parti la potestà di determinare l'incompatibilità nel corso di un giudizio del quale il giudice è già investito” poiché «lo stesso giudice verrebbe spogliato di tale giudizio in ragione del compimento di un atto processuale cui è tenuto a seguito di un'istanza di parte». Tale esito, a giudizio della Corte, sarebbe irragionevole e contrastante con il principio del giudice naturale precostituito per legge (Corte cost., 28 febbraio 1997, n. 51 e Corte cost. 3 giugno 1998, n. 206).
Sul punto va, tuttavia, richiamata anche la decisione con la quale è stata esclusa la violazione degli artt. 25, 97, 112, 3 e 24 Cost. prospettata dai remittenti per il timore che si potesse generare una paralisi dell'attività giurisdizionale provocata dal diritto a reiterare senza limiti la medesima richiesta di applicazione della pena sulle parti davanti a un giudice sempre nuovo rispetto a quello che l'abbia già respinta (Corte cost., 16 dicembre 1993, n. 439). I Giudici hanno dichiarato l'infondatezza delle censure evidenziando la erroneità del presupposto interpretativo su cui le stesse si reggevano atteso che, per consolidata giurisprudenza, deve escludersi la possibilità di reiterazione indefinita della medesima richiesta di patteggiamento.
L'introduzione di una simile preclusione anche in materia di messa alla prova avrebbe potuto forse indurre a ritenere infondati i timori messi in risalto anche nella decisione in commento.
2. Gli orientamenti della Corte in ordine alla sussistenza dell'incompatibilità del giudice che emetta una decisione in sede di atti preliminari al dibattimento
Nel corpo della motivazione la Corte enfatizza diverse proprie pronunce emesse in materia di oblazione (Corte cost., n. 370/2000 e n. 232/1999), condotte riparatorie ex art. 35 d.lgs. n. 273/2000 (Corte cost., n. 76/2007) e di richiesta di giudizio abbreviato condizionato all'assunzione di determinati mezzi di prova (Corte cost., n. 433/2006). Si tratta di casi in cui è stata ritenuta insussistente la incompatibilità del giudice che aveva deciso le relative questioni (incidentalmente nel corso degli atti preliminari) a prendere parte al dibattimento.
Si ritiene, viceversa, non significativo l'unico precedente di segno contrario, rappresentato dalla sentenza n. 186/1992, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 34, comma 2, c.p.p. nella parte in cui non prevedeva l'incompatibilità a partecipare al giudizio del giudice del dibattimento che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata ai sensi dell'art. 444 c.p.p.
Tale pronuncia viene, infatti, considerata eccessivamente risalente, «collocandosi temporalmente a monte delle sentenze n. 177 e n. 131/1996, con le quali questa Corte ha puntualizzato in modo definitivo i presupposti dell'incompatibilità costituzionalmente rilevante, e in particolare quello della diversità di fase».
L'affermazione svela un punto critico della questione in esame. Infatti, pur non essendo mai mutato il quadro normativo di riferimento, la disciplina in esame è stata oggetto di un chiaro revirement giurisprudenziale. Ci si riferisce, al noto precedente di segno contrario richiamato nella decisione e a un successivo arresto con il quale è stata dichiarata l'incompatibilità a partecipare al giudizio abbreviato da parte del giudice dell'udienza preliminare (o del G.i.p.) che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata (Corte cost., 16 dicembre 1993, n. 439). Proprio per tale ragione probabilmente il riferimento alla “puntualizzazione definitiva” dei presupposti dell'incompatibilità costituzionalmente rilevante non appare convincente dal momento che la decisione pare basarsi su un indirizzo giurisprudenziale attualmente prevalente piuttosto che su un chiaro ed esplicito quadro normativo.
Il citato orientamento, peraltro, pur apparendo condivisibile in riferimento all'intento di tutelare i principi di naturalità e precostituzione del giudice e buon andamento dell'amministrazione, lascia sullo sfondo una disomogeneità di trattamento, se non persino un potenziale attrito con il principio di uguaglianza, in riferimento alla disciplina dell'incompatibilità prevista nei casi in cui l'interessato avanzi richiesta di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. al giudice del dibattimento nella fase degli atti introduttivi. Circostanza ancor più evidente in seguito alla citata pronuncia del 2018 con la quale la disciplina contenuta nell'art. 135 disp. att. c.p.p. è stata ritenuta analogicamente applicabile anche alla messa alla prova (Corte cost., 27 aprile 2018, n. 91).
Sul punto merita evidenziarsi che la sentenza in commento ritiene infondate le censure di legittimità mosse all'art. 34 c.p.p. esclusivamente per l'identità della fase in cui viene adottata la prima decisione senza operare alcuna distinzione in ordine alle ragioni (di carattere sostanziale o formale) che inducono il Giudice a rigettare la richiesta di ammissione alla messa alla prova. Differenziazione, viceversa, prevista in materia di patteggiamento ove si esclude che il giudice possa essere dichiarato incompatibile (soltanto) nei casi in cui la decisione si basi sulla valutazione di requisiti squisitamente formali (in questi termini Cass. pen., 31 gennaio 2013, n. 18669).
3. Il criterio della diversità di fase
Con specifico riferimento al criterio della “diversità di fase”, si sottolinea che il passaggio della motivazione in cui si chiarisce che la fase degli atti introduttivi non è una autonoma fase processuale ma una semplice "sub-fase" dell'unitaria fase del dibattimento, non risulta del tutto persuasivo.
Il criterio, infatti, non appare perfettamente in linea con il dato normativo e con alcuni precedenti della giurisprudenza di Legittimità che hanno ritenuto la fase che precede l'apertura del dibattimento distinta rispetto alla successiva fase del giudizio.
Quanto al primo aspetto, l'art. 34, comma 2-bis, c.p.p. prevede ipotesi in cui la incompatibilità si verifica nella stessa fase del procedimento. Così avviene, per esempio, in riferimento alla preclusione prevista per il giudice che ha esercitato funzioni di G.i.p. ad emettere decreto penale di condanna (norma, peraltro, in linea con la giurisprudenza costituzionale che aveva preceduto la sua introduzione, si veda in proposito Corte cost. 21 novembre 1997, n. 346).
Sotto altro punto di vista non sembra ragionevole ricollegare in maniera meccanica alla definizione di una diversa fase del procedimento il rischio di prevenzione discendente dall'aver assunto una decisione sulla res iudicanda.
Questo criterio consentirebbe, in ipotesi, di considerare incompatibile a partecipare al giudizio il giudice che abbia rigettato la richiesta di messa alla prova nel corso delle indagini o dell'udienza preliminare. Eppure non pare vi siano ragioni, ulteriori rispetto alle esigenze di carattere sistematico richiamate in precedenza, per escludere che la stessa forma di prevenzione possa generarsi in capo al giudice che decida la medesima questione - anche per ragioni di carattere sostanziale - nel corso del predibattimento.
Conforta questa sensazione anche la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che ha ritenuto non conforme sotto il profilo oggettivo ai requisiti di imparzialità del giudice, il Tribunale di primo grado i cui componenti si siano pronunciati nella stessa fase, in sede di riesame sulle misure cautelari nei confronti dell'imputato (Corte EDU, 22 aprile 2004, Cianetti c. Italia).
Quanto al grado di autonomina da riconoscere alla fase degli atti introduttivi, la decisione non risulta, inoltre, perfettamente in linea con la giurisprudenza della Corte di Cassazione. Ed infatti, prima della pronuncia delle Sezioni Unite Penali, con la nota sentenza “Bajrami”, la Suprema Corte aveva affermato -rimarcando l'indipendenza di tale momento prodromico al dibattimento - che «Il dibattimento ha inizio, secondo quanto previsto dall'art. 492 c.p.p., con la dichiarazione di apertura, una volta compiute le attività che compongono la fase degli atti introduttivi in cui si collocano le questioni preliminari. Non può dunque rilevare, al fine di assicurare l'identità del giudice del dibattimento con quello della decisione, la fase degli atti introduttivi, perché antecedente la dichiarazione di apertura e quindi il dibattimento» (Cass. pen., sez. I, 5 luglio 2018, n. 36032 negli stessi termini si era già espressa Cass. pen., sez. II, 11 luglio 2013, n. 31924).
In conclusione, la decisione in commento sembra porre in risalto alcune criticità della disciplina contenuta nell'art. 34 c.p.p., norma che, pur essendo già stata oggetto di numerose modifiche legislative, meriterebbe probabilmente un aggiornamento anche in materia di incompatibilità endofasica. L'intervento dovrebbe mirare a individuare una soluzione equilibrata che riesca nel difficile risultato di tener conto delle necessità di tutelare, da un lato, la continuità del procedimento e il principio di naturalità del giudice e, dall'altro, di garantire la coerenza delle ipotesi disciplinate e il rispetto dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza. Riferimenti
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