La Corte di Cassazione, il controllore troppo zelante e l'interpretazione della giusta causa di licenziamento
07 Giugno 2022
Massime
L'art. 2119 c.c. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell'estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto.
L'operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell'applicare clausole generali come quella dell'art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento.
La valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nell'art. 18, comma 4, della Legge n. 300 del 1970 (come novellata dalla L. n. 92 del 2012) solamente nell'ipotesi in cui lo scollamento tra la gravità della condotta realizzata e la sanzione adottata risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa.
Al di fuori di tale caso, secondo la consolidata esegesi dell'art. 18 della Legge n. 300 del 1970 in base alla quale il regime risarcitorio del comma 5, deve ritenersi di carattere generale, la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali l'art. 18, comma 5, della Legge n. 300 del 1970 prevede la tutela indennitaria c.d. forte. Il caso
La particolare vicenda alla base della pronunzia in commento riguardava il licenziamento irrogato ad un capotreno troppo solerte nell'esercizio delle funzioni di controlleria. In particolare, la compagnia ferroviaria datrice di lavoro contestava al proprio dipendente di avere riscontrato un abnorme numero di irregolarità sui titoli di viaggio, procurandosi in tal modo un vantaggio pari alle provvigioni previste sulle sanzioni irrogate.
Per tali motivazioni, l'impresa decideva di licenziare per giusta causa il lavoratore. La questione
Il capotreno aveva impugnato il licenziamento, richiedendone l'annullamento, ed il Tribunale di Venezia aveva accolto la domanda; tale decisione, contro cui l'impresa ferroviaria aveva svolto impugnazione, era stata confermata dalla Corte d'Appello veneta.
Secondo i Giudici del merito le condotte contestate al lavoratore, pur presentando rilevanza disciplinare e legittimando pertanto l'irrogazione di sanzioni datoriali, non rivestivano una gravità tale da giustificare l'adozione del provvedimento di recesso.
Da un punto di vista oggettivo, l'istruttoria aveva consentito di ricostruire un quadro solamente presuntivo ed incerto, con riguardo alle modalità di elevazione delle irregolarità da parte del soggetto deputato a svolgere compiti di controlleria ed alle prassi a tal proposito invalse presso l'azienda di trasporto. Dal punto di vista soggettivo, invece, era stato dimostrato lo “zelo non comune” del capotreno.
Tale circostanza, tuttavia, seppur unita al rilievo di errori oggettivi nell'attività di verifica dei titoli di viaggio, non era considerata sufficiente alla configurazione di una condotta dolosa o fraudolenta o comunque animata da malafede verso l'impresa. Secondo il ragionamento seguito dalle Corti venete, infatti, il conseguimento di provvigioni sulle contravvenzioni elevate, peraltro di valore economicamente modesto, rappresentava un mero effetto indiretto del peculiare impegno profuso dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni affidategli.
Le decisioni di primo e di secondo grado rilevavano altresì come la violazione di norme regolamentari fosse sanzionata, dal CCNL di settore, con sanzione di tipo conservativo e come non fosse sussistente, nella specie, alcun dolo di appropriazione di somme e/o di danneggiamento dell'azienda o di terzi soggetti. Di qui, ne discendevano la pronunzia dell'illegittimità del licenziamento e l'applicazione del regime sanzionatorio di cui all'art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori.
La compagnia ferroviaria ricorreva per Cassazione avverso la pronunzia della Corte d'Appello di Venezia, denunziando la violazione e/o la falsa applicazione di norme: tra le altre, dell'art. 2119 c.c., dell'art. 18, L. n. 300 del 1970, del contratto collettivo Mobilità.
Secondo la prospettazione del ricorrente, i Giudici del merito avevano errato nel trascurare di valutare se le condotte del lavoratore potessero in ogni caso integrare giusta causa di licenziamento, a prescindere dai contenuti del CCNL applicabile, per cui la sanzione del recesso senza preavviso risulta irrogabile solo qualora ricorrano comportamenti dolosi.
In altre parole, secondo la società datrice di lavoro, il contegno tenuto dal capotreno nell'esercizio delle mansioni di controlleria, di cui si era accertata l'abnormità, poteva e doveva essere comunque sussunto nella nozione legale di giusta causa di licenziamento.
Ancora, la parte ricorrente lamentava che la Corte d'Appello avesse trascurato, nell'applicare la tutela reintegratoria, che i fatti contestati al lavoratore erano risultati effettivamente sussistenti. Le soluzioni giuridiche
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso.
La Suprema Corte esamina dapprima la problematica della sussunzione del comportamento contestato al lavoratore nella nozione legale di giusta causa di recesso.
Tale operazione, viene precisato, deve prendere le mosse dalla considerazione per cui l'art. 2119 c.c. costituisce una norma elastica, ampia, polivalente, la cui latitudine è determinata anche per mezzo della attività nomofilattica della Corte medesima. Spetta infatti ai Giudici di legittimità il controllo dell'applicazione di norme siffatte da parte delle corti di merito, affinché sia garantito il rispetto dei criteri e principi dell'ordinamento.
Tanto premesso, la sentenza sottolinea che l'addebito integrante giusta causa di licenziamento si distingue per la sua speciale gravità, consistendo in una seria violazione degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro tale da ledere in modo irrimediabile l'elemento fiduciario tipico del rapporto.
Onde verificare se la sanzione espulsiva possa definirsi veramente congrua rispetto alla contestazione mossa al lavoratore, il giudice del merito è dunque chiamato a soppesare ogni elemento concreto della singola vicenda processuale, prescindendo, invece, da ogni valutazione astratta sulla contestazione in sé.
Nell'effettuare tale valutazione assumono rilevanza le indicazioni della contrattazione collettiva, ma parimenti è necessario tenere conto di ulteriori elementi quali, ad esempio, la portata soggettiva dei fatti contestati, le circostanze in cui essi si sono verificati, il grado del dolo o della colpa, la gravità dell'addebito rispetto alla prosecuzione del rapporto laburistico.
Secondo la Corte di Cassazione, la decisione impugnata aveva fatto un corretto impiego dei principi appena richiamati, sì che doveva essere condivisa la conclusione raggiunta, quella cioè della mancanza di proporzionalità tra l'infrazione contestata al dipendente e la sanzione successivamente applicata.
In particolare, viene considerato correttamente motivato il passaggio della decisione di merito con il quale si era analizzato l'elemento psicologico del lavoratore, ricostruito nei termini di una “intransigenza zelante” e dunque incompatibile con l'intenzione di danneggiare l'azienda onde realizzare un proprio tornaconto economico.
La pronunzia in esame passa poi all'esame del secondo motivo di ricorso, concludendo parimenti per la sua infondatezza.
Con l'occasione, la Corte di legittimità ribadisce alcune utili indicazioni allo scopo di individuare con sicurezza il regime delle conseguenze per la parte datoriale da ricollegarsi ai casi di accertata mancanza di proporzionalità tra la mancanza disciplinare contestata al dipendente e la sanzione applicata al medesimo. Queste eventualità sono disciplinate dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori attraverso previsioni articolare.
In altre parole, il Legislatore ha ritenuto che la mancanza di proporzionalità appena citata possa manifestarsi in forme più o meno gravi e che pertanto la risposta dell'ordinamento debba essere graduata di conseguenza, attribuendo al lavoratore coinvolto in tali vicende una tutela più o meno completa.
In particolare, ricorda la sentenza in commento, la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, della L. n° 300 del 1970 va riconosciuta quando lo scollamento tra la gravità della condotta imputata al dipendente e la sanzione irrogata dalla parte datoriale emerga dalle previsioni del CCNL o dai codici disciplinari applicabili. Per dirla altrimenti, il licenziamento deciso per ragioni disciplinari andrà annullato ed il lavoratore avrà diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro qualora la mancanza disciplinare assunta a sostegno del recesso sia invero suscettibile di essere punita, stando alle fonti testé richiamate, solo con una più lieve sanzione di tipo conservativo.
Al di fuori di questo caso, invece, la sproporzione tra mancanza disciplinare e punizione della medesima costituisce una mera ipotesi di mancanza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di recesso di cui all'art. 18, comma 5, dello Statuto, alla quale è dunque da ricollegare la tutela di tipo risarcitorio.
Tornando al caso di specie, la Suprema Corte rileva come i giudici del merito avessero ritenuto di sussumere le condotte attribuite al capotreno nell'ambito di previsioni della contrattualistica collettiva prevedenti sanzioni conservative.
L'esclusione, in capo al dipendente, di un dolo diretto all'appropriazione di somme o al danneggiamento dell'azienda o di terzi aveva viceversa precluso la sussunzione dei comportamenti sotto più gravi fattispecie “incriminatorie” del CCNL punite con il licenziamento, come invece avrebbe preteso il datore di lavoro.
Consequenzialmente, in virtù di quanto appena visto, si conclude per la correttezza dell'applicazione, da parte dei giudici di prime cure, della tutela reintegratoria: la ragione di tale approdo, lo si ribadisce, risiede nella erroneità “qualificata” della scelta datoriale di applicare la punizione consistente nel licenziamento pure in presenza di illeciti disciplinari espressamente qualificabili come punibili con sanzione conservativa da parte delle fonti contrattuali applicabili al rapporto. Osservazioni
La decisione in commento si è guadagnata l'attenzione della stampa a ragione della peculiare fattispecie sulla quale ha deciso.
La figura del capotreno troppo solerte, licenziato perché elevava troppe multe, come hanno riferito alcune testate giornalistiche, possedeva senz'altro un'originalità tale da attirare la curiosità del pubblico. Dal punto di vista giuslavoristico, quello che naturalmente sarà oggetto di approfondimento in questo contributo, la pronunzia della Corte di Cassazione appare invece meno eterodossa, intervenendo su temi classici della materia, quali la definizione della nozione di giusta causa di licenziamento ed il problema della proporzionalità tra illecito disciplinare e sanzione inflitta.
Come noto, con l'espressione “giusta causa” si è soliti far riferimento alla locuzione impiegata dall'art. 2119 c.c., a mente della quale il recesso dal rapporto di lavoro è ammesso qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del legame contrattuale. La definizione di tale concetto costituisce una questione classica del diritto del lavoro; in particolare, l'individuazione dell'ambito di applicazione dell'istituto rappresenta un argomento sempre attuale e sul quale la giurisprudenza – come ben dimostra la sentenza in commento – torna spesso a pronunziarsi.
In linea di principio, la giusta causa di licenziamento è identificabile nell'accadimento che cagioni una serissima lesione del rapporto fiduciario che costituisce il fondamento del rapporto di lavoro, tanto da impedire che lo stesso possa proseguire oltre.
Ci si domanda, tuttavia, se simili accadimenti debbano coincidere con un qualsiasi inadempimento del lavoratore ai doveri gravanti sul medesimo oppure se possano avere rilevanza anche comportamenti diversi.
Ad accogliere la prima soluzione, si dovrebbe constatare una sostanziale sovrapponibilità del licenziamento per giusta causa al licenziamento disciplinare e per giustificato motivo soggettivo. In effetti, in alcune sentenze di legittimità, le citate tipologie di recesso vengono tra loro avvicinate quanto al momento della valutazione della proporzionalità tra la decisione aziendale – quella appunto di recedere dal rapporto di lavoro – ed il comportamento del lavoratore, identificato in un inadempimento (cfr. Cass., Sez. Lav., 10 dicembre 2007, n°25743).
Non mancano tuttavia attente voci dottrinali secondo le quali è comunque rintracciabile una differenza tra licenziamento disciplinare e licenziamento per giusta causa, essendo ipotizzabile che quest'ultima tipologia di recesso possa punire il comportamento del dipendente tale da menomare il rapporto fiduciario pur non attenendo agli aspetti “organizzatori e collaborativi del rapporto” (v. in tal senso AMOROSO, DI CERBO, MARESCA, Diritto del lavoro).
La giurisprudenza sembra propensa a riconoscere alle condotte “extralavorative” il valore di giusta causa di recesso soprattutto in relazione a particolari ambiti di attività, specialmente attinenti al lavoro pubblico.
In quest'ultimo settore, infatti, vengono in rilievo principi costituzionali (artt. 54 e 97 Cost.) tali da riverberare i loro contenuti sul modo in cui il lavoratore si comporta e si atteggia anche al di fuori del contesto strettamente lavorativo, sì da rendere, per così dire, più facile la rottura del vincolo fiduciario qualora i suddetti standards di condotta non vengano rispettati.
Più nello specifico, un orientamento interpretativo assolutamente consolidato vede nella giusta causa una nozione necessariamente articolata e mutevole nel tempo, in quanto bisognosa di essere sempre adeguata alla realtà da disciplinare: una “clausola generale”, sostiene la giurisprudenza (v. ad esempio la sentenza di legittimità n°6495 del 2021), che richiede di essere di essere specificata “in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama”.
In sostanza, la ricorrenza dell'irreparabile lesione dell'elemento fiduciario costituente il fondamento e l'essenza del licenziamento per giusta causa va accertata non in astratto ma caso per caso, facendo riferimento ad una pluralità di indici rivelatori.
Tra questi, la costante elaborazione giurisprudenziale tiene in gran conto la gravità dell'addebito, le circostanze in cui lo stesso è stato perpetrato, l'intensità dell'elemento psicologico in capo all'agente, le conseguenze sofferte dal datore di lavoro; inoltre, come anticipato, viene in rilievo anche la posizione lavorativa occupata dal dipendente, occorrendo tener conto del fatto che alcune mansioni richiedono di essere affidate a soggetti di speciale fiducia.
L'elaborazione pretoria ha anche avuto modo di precisare come le specificazioni del parametro normativo della giusta causa appena passate in rassegna hanno natura giuridica e dunque la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (v. in tal senso già la pronunzia della Suprema Corte 29 aprile 2004, n°8254). Naturalmente, si pone invece sul piano del giudizio di fatto l'operazione di pratica considerazione della ricorrenza, nel singolo caso concreto, degli indici rivelatori in parola, utili a porre in evidenza l'effettiva sussistenza della giusta causa.
Proprio questa circostanza viene ripresa e ribadita dalla sentenza in commento, nella parte ove si torna ad evidenziare che il carattere di norma elastica proprio dell'art. 2119 c.c. implica che il significato della medesima sia puntualizzato attraverso la continua esegesi perpetrata dalla Suprema Corte.
Evidentemente – prosegue la decisione in esame – le indicazioni dei Giudici di legittimità muovono da un piano generale ed astratto ma nondimeno servono a fissare l'ambito dei principi a cui va informata l'operatività delle norme elastiche, così giustificando (ed alimentando) il controllo della Corte di Cassazione sull'applicazione della norma allo studio. Sicché, come notato da attenta dottrina, la funzione nomofilattica della Suprema Corte assume, in materia, un significato doppio: al controllo della motivazione delle pronunzie avverso le quali è proposto il ricorso per Cassazione si abbina un intervento più spiccatamente decisorio, attraverso il quale la clausola generale della giusta causa è definita ricostruendone i tratti distintivi.
Discende da quanto appena considerato che neppure le elencazioni di ipotesi di giusta causa eventualmente contenute nella contrattualistica collettiva di riferimento potrebbero considerarsi esaustive.
Più volte la giurisprudenza ha affermato in maniera esplicita che elenchi siffatti possono avere un significato esemplificativo ma non tassativo, essendo pur sempre rimesso al Giudice del merito il compito di valutare la sussistenza di un inadempimento o di un comportamento del prestatore di lavoro di gravità tale da incrinare irrimediabilmente il rapporto fiduciario.
Nella materia che ci occupa non è dunque possibile rinvenire alcun tipo di automatismo: il prudente apprezzamento del Giudice può essere guidato dalle previsioni del contratto collettivo, ma non è ipotizzabile alcuna circostanza in cui l'Autorità Giudiziaria possa prescindere da una concreta valutazione della condotta del lavoratore e così adagiandosi in modo acritico sulle espressioni del testo contrattuale.
Sarebbe tuttavia errato ritenere che al Giudice sia riconosciuta una discrezionalità assoluta.
Ove si trattasse di una mancanza disciplinare espressamente punita dalle fonti contrattuali con l'irrogazione di una sanzione di tipo conservativo, non sarebbe consentito all'Autorità Giudiziaria di applicare la diversa e più severa “pena” del licenziamento. Infatti, se si ragionasse diversamente, si finirebbe per ammettere che il Giudice possa far prevalere la propria volontà su quella delle Parti sociali, finendo per porre nel nulla la valutazione di determinate condotte che quest'ultime avessero ritenuto di consacrare nell'accordo collettivo.
Del resto, anche il più risalente – ma non superato – orientamento secondo cui la natura di nozione legale della giusta causa implica che le previsioni collettive in tema abbiano una valenza non vincolante per il giudicante ha cura di fare “salvo il caso in cui il trattamento contrattuale sia più favorevole al lavoratore” (cfr. Cass., Sez. Lav., 19 agosto 2004, n°16260).
Il fulcro del tema risiede ancora una volta nella valutazione del fatto rimesso all'attenzione del Giudicante; con più precisione, nella latitudine della valutazione appena evocata. Il Giudice del lavoro ha il diritto – dovere di procedere alla qualificazione della mancanza contestata al prestatore di lavoro e gli esiti di questa operazione di verifica ben possono portare a conclusioni differenti da quelle raggiunte in proposito dal datore di lavoro.
Se si verifica una tale divergenza, occorre procedere ad un altro controllo, quello della congruità della sanzione irrogata, ed in ciò le intese collettive serviranno da utile guida.
Diversamente, nel caso in cui l'inquadramento della fattispecie non muti, il codice disciplinare o il contratto diverranno un parametro molto più stringente ed il Giudice sarà chiamato a verificare se è stata effettivamente irrogata la punizione prevista da tali fonti, non potendo dunque sovrapporre a quest'ultime alcuna propria valutazione inerente alla gravità dell'accaduto.
La sentenza in commento, ai paragrafi 4 e seguenti, lo conferma, analizzando il tema dal punto di vista dei rimedi previsti dall'ordinamento nell'eventualità in cui il licenziamento per giusta causa sia stato illegittimamente assunto dal datore di lavoro.
Infatti, la Suprema Corte ha ritenuto applicabile la tutela reintegratoria, prevista dall'art. 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori, nel caso in cui la sproporzione tra fatto contestato e sanzione emerga dalle previsioni collettive: ciò che nella fattispecie si era verificato, in quanto i Giudici del merito non avevano condiviso la valutazione del fatto contestato al dipendente effettuata dalla parte datoriale, sussumendo piuttosto detta condotta nell'ambito di diverse previsioni del CCNL, prevedenti sanzioni di tipo conservativo. Al contrario, sottolinea la Corte di Cassazione, deve essere accordata la tutela meramente risarcitoria (ex art. 18, comma 5, L. n° 300 del 1970), laddove la citata sproporzione non emerga per tabulas.
Il Giudice del merito, pertanto, non è legittimato a porre nel nulla gli effetti del licenziamento per giusta causa che pure gli appaia come sproporzionato alla gravità della mancanza imputata al lavoratore laddove tale “percezione” non trovi conferma nelle fonti collettive che regolano il rapporto, eventualmente a seguito di una nuova qualificazione disciplinare data alla mancanza medesima. Giurisprudenza: Tribunale di Roma, IV Sez. Lav., 29 marzo 2022, n°1359, in questa Rivista
Corte di Cassazione, Sez. Lav., 15 ottobre 2021, n°28368
Corte di Cassazione, Sez. Lav., 9 marzo 2021, n°6495
Corte di Cassazione, VI Sez., 7 novembre 2018, n°28492
Corte di Cassazione, Sez. Lav., 10 novembre 2017, n°26679
Dottrina: G. Alessandro Tonelli, La condotta extra lavorativa di rilievo penale ai fini del licenziamento per giusta causa, in questa Rivista, 17 gennaio 2022.
G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, Diritto del lavoro. Lo Statuto dei lavoratori e la disciplina dei licenziamenti, V ed., Milano, 2017.
A. Boati, Illegittimo il licenziamento del dirigente per fatti emersi dall'istruttoria ma non contestati, in questa Rivista, 5 giugno 2018.
J. Mugneco, La giusta causa di licenziamento tra tecnica del precedente e certezza del diritto, in Riv. It. Dir. Lav., 2017, pagg. 268 segg.
L. Ratti, Alla ricerca dei fondamenti teorici del sindacato di legittimità sulla giusta causa di licenziamento, in Riv., It. Dir. Lav., 2013, pagg. 895 segg.
T. Zappia, Le previsioni negoziali in materia disciplinare costituiscono parametri integrativi della giusta causa, in questa Rivista, 5 aprile 2021. |