La responsabilità per omesso impedimento degli amministratori senza deleghe

Niccolò Bertolini Clerici
07 Giugno 2022

La responsabilità per reati posti in essere dal consiglio di amministrazione di una società, in assenza di deleghe, grava su tutti i consiglieri.
Massima

La responsabilità per reati posti in essere dal consiglio di amministrazione di una società, in assenza di deleghe, grava su tutti i consiglieri.

Il caso

La recente sentenza della Corte di Cassazione trae origine dal sequestro preventivo disposto dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Firenze e confermato con ordinanza dal Tribunale del Riesame nei confronti di un amministratore non esecutivo di un consorzio, indagato a titolo di concorso per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ai sensi dell'art. 2 d.lgs. n. 74/2000.

Tale provvedimento è stato impugnato innanzi alla Corte di Cassazione dall'amministratore indagato, il quale tra i motivi di ricorso lamentava, inter alia, il difetto di motivazione in ordine al fumus commissi delicti, ovvero alla sussistenza di elementi a favore della commissione del reato, che secondo il ricorrente sarebbe stato dedotto dalla mera appartenenza del ricorrente all'organo collegiale, senza invece opportunamente argomentare in ordine agli indizi relativi alla conoscenza o conoscibilità del reato da parte dell'amministratore.

A sostegno della propria tesi, la difesa dell'amministratore ha dedotto che non esisteva alcun obbligo in capo a quest'ultimo di vigilare sull'operato degli altri amministratori, dal momento che, a seguito della riforma di diritto societario intervenuta nel 2003, l'obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione in capo ai singoli componenti non esecutivi del consiglio di amministrazione è stato ridimensionato, proprio al fine di evitare che in capo a questi ultimi sorga una responsabilità di natura oggettiva per i reati commessi dal collegio.

La Corte di Cassazione ha tuttavia ritenuto il ricorso infondato, per i motivi che si vedranno infra, affermando che, in assenza di deleghe, grava in solido su tutti i componenti del consiglio di amministrazione di una società per azioni la responsabilità penale per i reati posti in essere dal collegio.

Le questioni giuridiche

La pronuncia in commento fornisce l'occasione per ribadire alcuni importanti punti cardine in merito al rapporto tra le funzioni ricoperte dai componenti del consiglio di amministrazione all'interno di una società per azioni e la responsabilità penale derivante dal proprio operato. Si tratta evidentemente di due profili inscindibilmente connessi poiché la natura e l'estensione degli obblighi gravanti sugli amministratori determinano il fondamento dell'obbligo giuridico di agire cui è riconnessa la posizione di garanzia e dunque la responsabilità penale degli amministratori per omesso impedimento dell'evento-reato ex art. 40 c.p..

Invero, il tema ha subito una rilevante evoluzione negli ultimi decenni, soprattutto a seguito del mutamento dell'assetto normativo derivante dalla riforma di diritto societario di cui al d. lgs. n. 6/2003. Come noto, infatti, prima di tale riforma, l'art. 2392 c.c. imponeva a tutti gli amministratori gli obblighi di (i) agire con la diligenza del mandatario, (ii) vigilare sul generale andamento della gestione e (iii) impedire fatti pregiudizievoli di cui fossero stati a conoscenza.

Sulla base di queste premesse, la responsabilità dell'amministratore senza deleghe per non aver impedito l'evento dannoso - ovvero il reato commesso dagli amministratori esecutivi - ai sensi dell'art. 40 cod. pen. discendeva dall'inadempimento dei propri doveri di vigilanza, attraverso un meccanismo eccezionalmente derogatorio del principio di irresponsabilità per fatto altrui, poiché il reato di cui l'amministratore non esecutivo risponde è materialmente commesso da un altro soggetto.

Anche con riferimento alla prova del dolo del consigliere senza deleghe, in passato la giurisprudenza ricorreva di fatto ad uno schema presuntivo secondo cui al mancato rispetto dell'obbligo di vigilanza corrispondeva un'implicita accettazione del rischio del verificarsi dell'evento pregiudizievole, talvolta senza accertare l'effettiva rappresentazione dello stesso da parte dell'autore senza deleghe. In definitiva, tale impostazione si traduceva quindi in una responsabilità di natura oggettiva, c.d. di posizione, dal momento che il reato veniva ascritto all'amministratore senza deleghe per il solo fatto di essersi comportato negligentemente ovvero per aver violato le regole e gli obblighi connessi alla propria carica.

Proprio con l'obiettivo di evitare che gli amministratori privi di deleghe potessero rispondere pressoché automaticamente dei reati commessi dagli amministratori esecutivi sui quali ricade la gestione attiva e quotidiana dell'attività d'impresa, come anticipato, nel 2003 il legislatore ne ha rimodulato i rispettivi poteri e doveri, in particolare mediante la sostituzione del più stringente obbligo di vigilanza con quello di impedire fatti pregiudizievoli solo qualora gli amministratori siano stati a conoscenza di tali fatti in virtù del dovere di agire informato sancito dall'art. 2381, comma 6, c.c. che ricade su tutto il consiglio di amministrazione.

Il tema della conoscenza, soprattutto in società di grandi dimensioni, è particolarmente complesso in considerazione del fatto che spesso i consiglieri privi di deleghe sono informati delle operazioni principali che coinvolgono la società soltanto in occasione delle riunioni collegiali.

In quest'ottica occorre dunque valorizzare le norme del codice civile dedicate ai flussi informativi tra amministratore delegato e consiglio di amministrazione: a fronte dell'obbligo in capo agli amministratori esecutivi di riferire periodicamente «sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo», l'intero consiglio deve «valutare l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società».

A tal riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che devono ritenersi rilevanti anche le informazioni di cui l'amministratore sia venuto a conoscenza attraverso fonti o canali esterni alla società, come ad esempio le notizie diffuse dalla stampa (Cass. pen., sez. V, 4 maggio 2007, n. 23838). Fermo restando il divieto di esercitare un autonomo potere ispettivo, è inoltre espressamente riconosciuta la facoltà di richiedere informazioni aggiuntive in merito alla gestione della società.

Il dovere di impedimento del reato, di conseguenza, si parametra sulla base delle informazioni reperite con le modalità descritte: è infatti la conoscenza di eventuali eventi avversi ad identificare il limite all'operatività della responsabilità per omesso impedimento ai sensi dell'art. 40 c.p.. e a guidare l'accertamento dell'elemento soggettivo. Dopo aver valutato se gli elementi conoscitivi raccolti siano stati tali da giustificare l'attivazione dell'amministratore mediante esercizio dei poteri impeditivi, bisogna infatti verificare se il mancato impedimento sia stato doloso ovvero se vi sia stata rappresentazione e volontà dell'evento pregiudizievole.

Sul punto, al fine di accertare l'elemento soggettivo dell'amministratore senza deleghe, la giurisprudenza ha elaborato negli anni la c.d. teoria dei segnali di allarme secondo cui la prova del dolo consiste nell'avvenuta percezione di elementi che, secondo l'orientamento consolidato della Corte di Cassazione, devono essere perspicui e peculiari (Cass. pen., sez. V, 4 maggio 2007, n. 23838), in grado cioè di destare un sospetto idoneo ad indurre l'amministratore ad attivarsi per impedire la consumazione del reato. Nel caso in cui, pur essendo venuto a conoscenza di tali anomalie, l'amministratore sia rimasto comunque inerte, egli risponde a titolo di dolo eventuale ai sensi dell'art. 40, comma 2 c.p. per omesso impedimento del reato dell'amministratore delegato.

Tanto premesso, resta ancora oggi parzialmente irrisolta la questione dei poteri impeditivi dell'amministratore. La responsabilità omissiva richiede infatti la prova del nesso causale tra la condotta omissiva e il verificarsi dell'evento/reato. Occorre in altre parole valutare se, in via ipotetica, l'evento dannoso concreto si sarebbe comunque verificato anche nel caso in cui l'amministratore avesse esercitato i propri poteri impeditivi.

È allora evidente come il tema della responsabilità degli amministratori ruoti attorno alla concreta possibilità di impedire il fatto, rendendo dunque necessario individuare le azioni da questi attuabili per tentare di prevenire l'illecito o almeno ridurne le conseguenze dannose. Tra i principale strumenti impeditivi previsti dal Codice civile rientrano, come anticipato, la richiesta di ulteriori informazioni ai sensi dell'art. 2381, comma 3 c.c., nonchéla possibilità di esprimere un voto contrario nel corso della riunione collegiale e di far annotare tale dissenting opinion nel libro delle adunanze e delle deliberazioni ai sensi dell'art. 2392, comma 3 c.c..

A ciò si aggiunga anche, in ultima istanza, la facoltà di impugnare la delibera eventualmente contraria alla legge o allo statuto, ai sensi dell'art. 2388, comma 4 c.c..

Va tuttavia esclusa la denuncia all'Autorità Giudiziaria, diversamente da quanto previsto invece per i componenti del collegio sindacale ex art. 2409 c.c., dal momento che tale azione potrebbe anche rivelarsi controproducente per la società.

Osservazioni

Il percorso argomentativo seguito dalla Corte di Cassazione nella sentenza in esame trae le proprie mosse proprio dall'interpretazione e dalla portata degli artt. 2381 e 2392 c.c. soprattutto a seguito della riforma del diritto societario.

Anzitutto, la Corte ha nettamente distinto le ipotesi in cui il consiglio di amministrazione abbia delegato alcune proprie attribuzioni al comitato esecutivo o ad altri singoli componenti da quella in cui tale organo operi senza aver trasferito alcun potere.

Nel primo caso, l'art. 2392 c.c., che sancisce la responsabilità in solido tra gli amministratori per i danni cagionati alla società (S.p.A.) derivanti dall'inosservanza dei propri doveri, costituisce anche il fondamento giuridico della posizione di garanzia degli amministratori. In tali ipotesi, secondo la Corte, l'esonero dalla responsabilità opera solo qualora l'amministratore dissenziente faccia annotare la propria opinione in contrasto, sulla base del rimedio sopra descritto di cui all'art. 2392, comma 3 c.c..

Diversamente, nell'ipotesi in cui vi sia stato effettivo trasferimento, il consigliere privo di delega risponde del reato commesso dai delegati non tanto in virtù dell'art. 2392 c.c., bensì a causa della violazione dei doveri informativi che gravano su tutti gli amministratori con riferimento all'andamento della gestione societaria e alle operazioni sociali più rilevanti, violazione che ha consentito la commissione materiale del reato da parte del delegato. In altre parole, l'amministratore non esecutivo risponde per aver omesso di assumere ulteriori informazioni in presenza di segnali di allarme che avrebbero dovuto invece indurlo a richiederle e per non avere impedito il verificarsi o almeno l'attenuazione delle conseguenze pregiudizievoli del reato.

Con riferimento ai fatti oggetto del procedimento in esame, secondo la Corte di Cassazione, non era tuttavia emerso che il consiglio di amministrazione avesse attribuito alcuna delega, con la conseguenza che tutti i consiglieri, compreso il ricorrente, devono rispondere dei reati deliberati collegialmente a titolo di concorso ex art. 110 c.p..

Dunque, sebbene le deliberazioni con riferimento alle obbligazioni tributarie conseguenti ad un sub-appalto non siano state oggetto di specifica competenza di nessun amministratore e non siano state concretamente assunte dall'indagato, ciononostante rientrano tra i compiti di amministrazione diretta che sarebbero stati di competenza dell'intero collegio, compreso l'indagato.

A nulla sono valse le argomentazioni difensive del ricorrente. Secondo la Corte, infatti, la mancanza di un vero e proprio obbligo di vigilanza in capo ai consiglieri privi di deleghe sull'andamento della gestione societaria, il quale è stato certamente ridimensionato dal legislatore del 2003 a favore del dovere di agire informati, vale solo con riferimento all'ipotesi in cui vi sia stata specifica attribuzione di determinate competenze, non applicabile al caso di specie.

È infatti solo con riferimento al consigliere senza deleghe che il tema della “conoscibilità” delle delibere pregiudizievoli assume rilevanza, costituendo “l'antecedente logico della posizione di garanzia”.

In conclusione, la Corte di Cassazione è giunta ad affermare il seguente principio di diritto: «In assenza di deleghe ad alcuno dei componenti del consiglio di amministrazione […], deve ritenersi gravante su tutti i consiglieri la responsabilità solidale per gli illeciti deliberati o posti in essere dal consiglio di amministrazione, da riferirsi solidalmente a ciascuno di essi».

Conclusioni

In definitiva, pur confermando l'orientamento da tempo dominante della giurisprudenza, l'automatismo con cui, secondo la Corte di Cassazione, la responsabilità per omesso impedimento dell'evento pregiudizievole ricadrebbe su tutti i consiglieri, compresi quelli senza deleghe, desta alcune perplessità.

Se da un lato è pacifico che la lettera dell'art. 2392 c.c. sancisce la responsabilità in solido di tutti gli amministratori, dall'altro, tuttavia, la stessa ratio che ha guidato la riforma del 2003 nel senso di un alleggerimento della posizione degli amministratori senza deleghe sembrerebbe essere smentita dalla soluzione dicotomica adottata dalla Corte di Cassazione che riconosce la responsabilità anche in capo a soggetti i quali, pur non avendo il collegio formalmente trasferito deleghe, non hanno potuto di fatto esercitare alcun potere impeditivo effettivo, essendone privi.

Tale ragionamento sembrerebbe riproporre quella giurisprudenza antecedente al 2003 relativa alla responsabilità per posizione in capo al consigliere senza deleghe rispetto al quale vigeva una presunzione di conoscenza di tutte le tematiche attinenti alla gestione societaria, proprio in virtù della mera appartenenza al collegio. In altre parole, il rischio è quello che in capo a tale soggetto sorga una responsabilità oggettiva mascherata soprattutto con riferimento a operazioni di elevato carattere tecnico che richiedono un'elevata expertise di settore, come quella tributaria oggetto del caso di specie.

Sul punto, da ultimo, il Codice della Crisi di Impresa e dell'Insolvenza “CCII”, la cui entrata in vigore è stata ulteriormente posticipata al prossimo 15 luglio, ha rafforzato i doveri dell'imprenditore previsti dall'art. 2086 c.c., introducendo anche per colui che operi in forma societaria l'obbligo di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, soprattutto in funzione della rilevazione dei segnali di allarme sintomatici della crisi di impresa. All'interno di una società per azioni tali obblighi gravano sui singoli consiglieri incaricati della gestione dell'impresa, come anche ribadito dalla stessa Corte di Cassazione nella sentenza in commento.

Preme allora osservare che la posizione di garanzia degli amministratori senza deleghe potrebbe risultare ulteriormente aggravata per effetto del nuovo assetto normativo, essendo ragionevole prospettare che venga imputata a tali soggetti la mancata percezione di specifici segnali prodromici al dissesto, con il conseguente aumento delle ipotesi di responsabilità per omesso impedimento in particolare dei reati di bancarotta.

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