L'insussistenza non più manifesta del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e i rimedi conseguenti

Francesco Pedroni
17 Giugno 2022

Quanto alle conseguenze del recesso datoriale illegittimo, ai sensi dell'art. 18, comma 7 Stat. Lav., all'esito delle sentenze n. 59/2021 e n. 125/2022 della Corte Costituzionale, il Giudice applica...
La massima

Quanto alle conseguenze del recesso datoriale illegittimo, ai sensi dell'art. 18, comma 7 Stat. Lav., all'esito delle sentenze n. 59/2021 e n. 125/2022 della Corte Costituzionale, il Giudice applica la medesima disciplina di cui al comma 4° (c.d. tutela attenuata) nelle ipotesi in cui accerti la (manifesta) insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Deve ribadirsi che la verifica della “insussistenza” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti l'attività produttiva, organizzativa del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore.

Il caso

Una lavoratrice, addetta alla reception, veniva licenziata per motivo oggettivo consistente nella riorganizzazione del dipartimento dei Servizi Generali della società datrice di lavoro, attuato per motivi di razionalizzazione dei costi e della struttura.

In particolare, la società aveva deciso di esternalizzare il servizio di Reception della sede romana cui era addetta la lavoratrice che veniva pertanto soppresso e affidato a fornitore esterno.

La lavoratrice impugnava il licenziamento, contestando sia la carenza dell'effettiva soppressione del posto di lavoro, sia l'inadempimento datoriale dell'obbligo di ripescaggio, avendo la società assunto nuovo personale successivamente al licenziamento.

La società datrice di lavoro resisteva deducendo, tra l'altro, di non aver effettuato nuove assunzioni successivamente al licenziamento e che le assunzioni precedenti riguardavano unità organizzative differenti e personale con professionalità e per mansioni diverse da quelle della ricorrente che era l'unica addetta ai servizi di reception sia con riferimento alla sede di Roma, sia con riferimento alle altre sedi della società.

Il Tribunale di Roma non riteneva adempiuto l'onere allegativo e probatorio circa i fatti a base del licenziamento da parte dell'azienda e si interrogava sulla sanzione applicabile per il caso d'illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo, alla luce dei recenti arresti della giurisprudenza costituzionale.

La questione

Si tratta di valutare quale sia la conseguenza applicabile al licenziamento per motivo oggettivo illegittimo nelle ipotesi in cui il datore di lavoro non sia riuscito ad allegare e dimostrare il fatto posto alla base del recesso tra i diversi rimedi offerti dall'art. 18 Stat. Lav. (applicabile alla fattispecie).

La soluzione giuridica

Il Tribunale di Roma, esaminate le allegazioni e la documentazione prodotta dalle parti, premessa la insindacabilità della scelta organizzativa aziendale, ha ritenuto che la società non avesse adempiuto ai propri oneri allegativi e probatori “dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del c.d. repechage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro cui utilmente ricollocare il lavoratore”.

Secondo il Tribunale, in particolare, il dato dimensionale della società evidenziava la portata millesimale della ristrutturazione (limitata alla sola ricorrente), rendendo inverosimile l'impossibilità aziendale di ricollocare la ricorrente ad altra mansione coerente con il suo inquadramento contrattuale e con il suo bagaglio professionale.

Ciò considerando anche le numerose nuove assunzioni, anche nel medesimo inquadramento della lavoratrice, effettuate dalla datrice di lavoro nei sei mesi a cavallo del licenziamento e le relative professionalità che erano sovrapponibili con quella della ricorrente (anche in considerazione dei ruoli che aveva ricoperto in passato).

Sotto il profilo dell'impostazione, il Giudice romano si allinea all'orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. 12101/2016; 5592/2016; 160/2017; 23789/2019; 13379/2017), richiamando espressamente Cass. 10435/2018 secondo cui la verifica del requisito della manifesta sussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per motivo oggettivo ai sensi dell'art. 18, comma 7 Stat. Lav. (nella novella del 2015) si compone di due elementi:

(a) le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa e

(b) l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (c.d. onere di ripescaggio). In tale verifica, fermo l'onere della prova datoriale, “la “manifesta sussistenza” va riferita ad una evidente e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza di entrambi i suddetti presupposti che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso”.

In conseguenza del predetto accertamento, ove sia accertato il requisito della “manifesta sussistenza del fatto posto alla base del licenziamento” il Giudice applica la tutela reintegratoria “attenuata” prevista dal comma 4 dell'art. 18.

Il Tribunale di Roma prosegue il ragionamento interpretativo della norma (art. 18, comma 7 Stat. Lav.) ricordando dapprima l'obbligatorietà della tutela reintegratoria attenuata alla luce del recente intervento della Consulta che ne ha abolito l'originaria facoltatività (la Corte Costituzionale, con sentenza 1° aprile 2021, n. 59 in Gazz. Uff. 7 aprile 2021, n. 14, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del secondo periodo della norma, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» - invece che «applica altresì» - la disciplina di cui al medesimo art. 18, comma 4).

Il Giudice romano accenna poi agli effetti dell'ulteriore recente pronuncia costituzionale con cui il Giudice delle leggi ha dichiarato l'illegittimità costituzionale sempre del medesimo comma 7, limitatamente alla parola «manifesta» (Corte Cost., 19 maggio 2022, n. 125 in Gazz. Uff. 25 maggio 2022, n. 21), per giungere poi alla propria conclusione circa l'applicabilità al caso di specie della tutela reintegratoria.

Con particolare riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame, infatti, il Tribunale di Roma osserva che “sia la scarsa consistenza della ristrutturazione aziendale effettuata dalla resistente, sia il dinamismo assunzionale della resistente, nonché l'accertata esistenza di altri posti di lavoro disponibili e assegnabili a personale con inquadramento della ricorrente, determinano la pretestuosità del recesso datoriale e quindi la (manifesta) insussistenza del giustificato motivo oggettivo”.

Osservazioni

La pronuncia in commento è necessariamente coerente con il quadro normativo delineatosi a seguito degli interventi della Consulta sopra ripercorsi che si aggiungono a quelli diretti a riformare l'impianto originario della revisione delle tutele in caso di licenziamento illegittimo introdotto con la riforma del Jobs Act del 2015 in relazione alla determinazione dell'indennità risarcitoria per i licenziamenti viziati dal punto di vista sostanziale (sent. 194/2018) o formale (sent. 150/2020).

Per quanto riguarda specificamente l'intervento di Cost. 125/2022, la Consulta parte dal presupposto normativo previsto dalla legge n. 92 del 2012 per la reintegrazione che consiste, sia per i licenziamenti disciplinari sia per quelli oggettivi, nella nozione di insussistenza del fatto, che chiama in causa l'aspetto qualificante dei presupposti di legittimità del licenziamento (Cost. 59/2021) correlato al relativo onere allegativo e probatorio che spetta al datore di lavoro allo scopo di salvaguardare la dignità della persona del lavoratore ingiustamente licenziato (Cost. 45/1965).

In relazione ai licenziamenti motivati da ragioni oggettive, la Corte ricorda che il fatto che è all'origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo include tali ragioni e il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso, da intendersi come extrema ratio, per l'impossibilità di collocare altrove il lavoratore.

Al fatto si devono dunque ricondurre l'effettività e la genuinità della scelta imprenditoriale. Su questi aspetti il giudice è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità, che non può “sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità” (Cost. 59/2021).

Passando al tema oggetto di censura costituzionale, continua la Corte, la previsione del carattere manifesto di una insussistenza del fatto, già delimitata e coerente con un sistema che preclude il sindacato delle scelte imprenditoriali, è innanzitutto intrinsecamente irragionevole (come rilevato da Cost. 59/2021 che ha ritenuto incostituzionale la facoltatività dell'applicazione della tutela reintegratoria).

In secondo luogo, il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, è indeterminato in quanto lascia la definizione di un elemento di fattispecie, che richiede un apprezzamento imprevedibile e mutevole, senza alcuna indicazione utile a orientarne gli esiti e che, in definitiva, lascia al giudice la scelta tra due forme di tutela (indennitaria e reale) profondamente diverse, secondo una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico.

In terzo luogo, la Corte motiva la propria censura sotto un profilo di apprezzamento logico: il licenziamento intimato non è più grave solo perché l'insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio. E l'accertamento, non di rado complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto, impegna le parti, e con esse il giudice, nell'ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell'eventuale insussistenza.

Inoltre, secondo la Consulta, il criterio della manifesta insussistenza risulta eccentrico nell'apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell'accertamento.

In definitiva, il Giudice delle leggi motiva il suo ultimo intervento demolitivo ritenendo che il requisito della manifesta sussistenza del fatto “vanifica l'obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni e finisce per contraddire la finalità di una equa redistribuzione delle tutele dell'impiego che ha in tali caratteristiche della tutela giurisdizionale il suo caposaldo”.

Eliminata la necessità di indagine del carattere manifesto della insussistenza del fatto, assistiamo a un ribaltamento dell'impianto di tutela del Jobs Act secondo cui la regola generale era quella della tutela indennitaria, mentre la tutela reale costituiva rimedio residuale.

Peraltro, proprio in conseguenza di tale diminuita resistenza della stabilità del rapporto di lavoro, la giurisprudenza ha ritenuto che con la riforma del Jobs Act il termine di decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi decorra dal termine del rapporto di lavoro anche per i lavoratori in regime di art. 18 Stat. Lav. (Tribunale Milano, 31 marzo 2021; Tribunale Milano, 29 settembre 2016; Tribunale Milano, 16 dicembre 2015, n. 10803).

La tutela indennitaria passa dunque in secondo piano e pare relegata ad ipotesi di illegittimità del licenziamento per profili diversi dal fatto giuridicamente rilevante.

A tale ultimo riguardo, la Consulta (sempre nella sent. 125/2022) fornisce la seguente indicazione: “Rientrano nell'area della tutela indennitaria le ipotesi in cui il licenziamento è illegittimo per aspetti che, pur condizionando la legittimità del licenziamento, esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto. In tale ambito si colloca il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile (Cass., sez. lav., 19 maggio 2021, n. 13643)”.