Prova illecita nel procedimento penale e controlli c.d. difensivi

Teresa Zappia
28 Giugno 2022

Sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate...
Massima

Sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore per esercitare un controllo in funzione della tutela del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto la L. n. 300/1970, posta a presidio della loro riservatezza, non proibisce i c.d. controlli difensivi e non giustifica, pertanto, l'esistenza di un divieto probatorio ex art. 191 c.p.p.

Il fatto

Il Tribunale di Roma, costituito ai sensi dell'art. 309 c.p.c., confermava il provvedimento del GIP con il quale era stata disposta nei confronti del lavoratore la misura della custodia cautelare in carcere in relazione ai delitti di cui agli artt. 257 e 261 c.p.

Il lavoratore, capitano di fregata della Marina Militare, in servizio presso lo Stato maggiore della difesa, con incarico di ufficiale addetto alla sicurezza, era impiegato per la gestione del flusso di informazioni che transitavano nel reparto di appartenenza. In tale qualità si procurava notizie a scopo di spionaggio politico e militare, rilevando a terzi, dietro corrispettivo, informazioni oggetto di segreto.

Un superiore, in ragione di alcuni dubbi circa l'operato del lavoratore, procedeva all'installazione (16 marzo 2021) di alcune telecamere nell'ufficio del capitano di fregata, nel rispetto della privacy e in osservanza delle disposizioni dello Statuto dei lavoratori. Il 25 marzo 2021 dalle riprese effettuate all'interno dell'ufficio emergeva che, con uno smartphone, il lavoratore aveva estratto delle foto dal computer e aveva fotografato documenti cartacei. In seguito, estratta la scheda Sim, egli inseriva questa in una scatola di medicinali, insieme al telefono.

Le intercettazioni, successivamente autorizzate dall'Autorità Giudiziaria, al contrario, non davano riscontro alcuno. Il 30 marzo 2021 il lavoratore veniva trovato in compagnia di un diplomatico russo al quale era stata consegnata la Sim come corrispettivo di una certa somma di denaro. All'interno della Sim erano rinvenute 181 fotografie.

Il Tribunale riteneva utilizzabili le riprese eseguite poiché, al momento di acquisizione delle immagini da parte del superiore gerarchico, erano emersi dei sospetti nei confronti del lavoratore. L'eventuale inutilizzabilità, d'altronde, sarebbe stata non decisiva, essendo stati acquisiti da fonti diverse gli elementi probatori risolutivi a carico del dipendente.

Veniva ritenuto sussistente sia il pericolo di inquinamento probatorio che di recidiva.

Il Tribunale, infine, riteneva adeguata la misura cautela applicata.

Il lavoratore presentava ricorso ex art. 606 c.p.p. fondato su cinque motivi.

In particolare, con il terzo motivo, il ricorrente lamentava il mancato accertamento dell'inutilizzabilità delle registrazioni eseguite per violazione degli artt. 191 e 271 c.p.p. Le intercettazioni sarebbero state effettuate a tutela del patrimonio aziendale ma in difetto dei presupposti di legge previsti dal codice di procedura penale.

La questione

Sono utilizzabili nel procedimento penale i dati raccolti mediante controlli c.d. difensivi sul luogo di lavoro?

La soluzione della Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato infondato il ricorso.

Per quel che rileva in questa sede, con riferimento al terzo motivo di doglianza, la Corte ha escluso la dedotta inutilizzabilità per violazione degli artt. 191 e 271 c.p.p. delle registrazioni eseguite dal superiore gerarchico del ricorrente.

Non è stata ritenuta condivisibile la prospettazione secondo cui risulterebbe violata la disciplina che regola le intercettazioni delle comunicazioni (artt. 266 e ss. c.p.p.).

Si trattava, infatti, di registrazioni operate secondo uno statuto diverso da quello del codice di rito, recte le prescrizioni di cui alla L. n. 300/1970. Le riprese, inoltre, avevano ad oggetto immagini non comunicative e non potevano essere annoverate tra le intercettazioni in senso stretto.

Pertanto la Corte ha condiviso la posizione del Tribunale della libertà secondo cui le operazioni effettuate mediante installazione delle telecamere nell'ufficio del ricorrente dovevano ritenersi legittime ed utilizzabili ai fini del quadro dimostrativo.

D'altronde, evidenziano i giudici di legittimità, al momento dell'installazione delle telecamere, vi erano solo una serie di sospetti da parte del superiore gerarchico, con la conseguenza che, pur ipotizzando comportamenti infedeli del ricorrente, essi non sarebbero stati ex se idonei a fondare una richiesta e un provvedimento di autorizzazione delle intercettazioni da assumere d'urgenza o da richiedere al GIP.

La Corte ha richiamato la propria giurisprudenza in ordine all'utilizzabilità nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, dei risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore per esercitare un controllo in funzione della tutela del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto la L. n. 300/1970, posta a presidio della loro riservatezza, non proibisce i c.d. controlli difensivi e non giustifica, pertanto, l'esistenza di un divieto probatorio.

Si è rammentato, inoltre, che non è configurabile la violazione della disciplina di cui agli artt. 4 e 38 St. Lav. (penalmente sanzionata in forza dell'art. 171 D.lgs. n. 196/2003, come modificato dal D.lgs. n. 101/2018) quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti e resti strettamente funzione all'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.

Osservazioni

La sentenza in commento torna sulla questione della utilizzabilità, nell'ambito del procedimento penale, dei dati raccolti dal datore in occasione dei c.d. controlli difensivi.

L'art. 4 St. Lav., si rammenta, non solo subordina l'installazione di apparecchiature di videosorveglianza al previo accordo con le rappresentanze sindacali ovvero all'autorizzazione della sede territoriale dell'Ispettorato del lavoro, ma condiziona l'utilizzazione dei dati raccolti alla previa informazione dei lavoratori interessati.

Primo punto da affrontare è quello della riconducibilità o meno dei controlli difensivi al perimetro applicativo dell'art. 4 prefato.

Con l'art. 23 D.lgs. n. 151/2015, infatti, tra le esigenze legittimanti l'installazione di strumenti di controllo sono state incluse anche quelle connesse alla tutela del patrimonio aziendale, sicché non sono mancate voci a favore dell'applicabilità dei limiti sopra indicati anche a quei controlli diretti ad accertare condotte illecite dei lavoratori a danno dei beni dell'azienda.

Secondo una diversa opinione interpretativa, invece, è necessario distinguere tra controlli difensivi “in senso stretto” ed “in senso lato”. Solo i primi interesserebbero un singolo lavoratore o un determinato gruppo di dipendenti, rispetto ai quali il datore abbia ragionevoli sospetti. I secondi, invece, verrebbero effettuati nei confronti della generalità del personale operante in azienda, con conseguente applicazione dell'art. 4 St. Lav.

Secondo taluni, inoltre, il concetto di controllo difensivo non sarebbe assimilabile a quello di controllo effettuato a salvaguardia dei beni aziendali, essendo quest'ultimo determinato da esigenze diverse da quelle di accertamento dei comportamenti illeciti, così distinguendosi tra controlli difensivi ex ante ed ex post: nel primo caso sussisterebbe una generale necessità di protezione che, rendendo continuo e costante il controllo, richiederebbe l'applicazione dell'art. 4 St. Lav.; nel secondo, invece, derivando l'esigenza di controllo da elementi specifici e contingenti, non potrebbero operare le medesime limitazioni.

Alla luce di quanto sopra, non si dubiterebbe della liceità della condotta datoriale ove l'art. 4 St. Lav. si ritenesse inoperante per i controlli “in senso tecnico” o ex post, sempre entro i limiti di proporzionalità ed adeguatezza, richiesti dalla tutela della privacy del singolo. Sul punto, tuttavia, non può celarsi il dubbio di una possibile “correzione” a valle, qualora i dati acquisiti rivelino in concreto la commissione di reati da parte di lavoratori rispetto ai quali, tuttavia, non sussistessero già in principio dei sospetti.

Qualora, invece, si ritenesse che il datore sia tenuto anche con riferimento ai controlli difensivi al rispetto dell'art. 4 St. Lav., ulteriore questione da risolvere sarebbe quella della utilizzabilità dei dati acquisiti contra legem in sede processuale, distinguendosi tra giudizio civile e penale.

La Corte di Cassazione, in una recente pronuncia (Sez. Lav., n. 33809/2021) ha richiamato l'art. 2-decies D.lgs. n. 196/2003 il quale, nel vietare l'utilizzo dei dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali, fa espressamente salvo quanto previsto dall'art. 160-bis che riserva alle “pertinenti disposizioni processuali” la disciplina della validità, dell'efficacia e dell'utilizzabilità nel procedimento giudiziario di atti, documenti e provvedimenti basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di regolamento. Secondo i giudici di legittimità, Il difetto di una disposizione processualcivlistica che vieti l'utilizzo di prove formate o assunte in violazione del diritto alla privacy lascerebbe la questione aperta.

Nella richiamata decisione, tuttavia, la Corte ha posto l'accento su due aspetti: la non estensibilità dell'art. 191 c.p.p. al processo civile; l'imprescindibile bilanciamento tra diritto di difesa e tutela della riservatezza, con applicazione del c.d. “criterio di gerarchia mobile” in base al quale il giudice deve procedere, di volta in volta, all'individuazione dell'interesse da privilegiare a seguito di un'equilibrata comparazione tra i diritti in gioco, così evitando che la piena tutela dell'uno pregiudichi il nucleo essenziale dell'altro.

Nell'ambito del procedimento penale, invece, l'art. 191 del codice di rito dispone l'inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti previsti dalla legge.

L'illegittimità, quale presupposto applicativo dell'art. 191 c.p.p., è riferibile tanto ai casi di violazione di norme processuali penali quanto ad ipotesi di violazione di divieti sanciti da norme di carattere penale sostanziale. La lettera della disposizione summenzionata, infatti, non circoscrive la previsione del divieto alla fonte della legge processuale, per cui è ammissibile la traduzione di precetti penalistici in divieti probatori rilevanti ai sensi dell'articolo prefato (Cass., Sez. Un. Pen., n. 26795/2006).

Ciò sembra possibile con riferimento all'art. 171 D.lgs. n. 196/2003, il quale dispone l'applicazione dell'art. 38 St. Lav. anche per le violazioni della normativa in materia di controlli dei lavoratori. Il controllo difensivo posto in essere senza rispettare quanto disposto dall'art. 4 St. Lav. configurerebbe un illecito penalmente rilevante, con conseguente inutilizzabilità dei dati eventualmente raccolti dal datore.

D'altronde, seguendo la giurisprudenza formatasi in materia di esercizio del diritto di difesa (Cass. pen., sez. II, n. 2457/2020), includente tutte le sue estrinsecazioni di natura anticipatoria ove funzionalmente collegate alla tutela giudiziaria, potrebbe dubitarsi, applicando l'art. 51 c.p., dell'illiceità dell'attività di controllo giustificata da ragionevoli sospetti del datore. Diversa soluzione si adotterebbe nei casi di in cui il fine perseguito sia quello di prevenire un generico rischio per il patrimonio aziendale (c.d. controllo ad explorandum). L'eventuale errore incolpevole sui presupposti di fatto della scriminante dell'esercizio del diritto di difesa potrebbe, inoltre, ricadere nell'art. 59 c.p.

La questione è indubbiamente problematica ed evidenzia un punto di tensione tra istanze di tutela della dignità morale e della riservatezza del lavoratore e la facoltà di invocare detta tutela da parte di chi abbia, a sua volta, posto in essere condotte penalmente illecite, lesive di altri beni giuridici.

Ad ogni modo, l'orientamento attuale della giurisprudenza – di cui è espressione la sentenza in commento – sostiene l'utilizzabilità dei dati raccolti mediante i controlli c.d. difensivi, escludendo l'applicazione dell'art. 191 c.p.p.

Per approfondire

A. Nisco, Prospettive penalistiche del controllo a distanza sull'attività lavorativa nell'attuale contesto normativo e tecnologico, in Dir. Pen. Cont., 2021, 4, pp. 87 ss.

L. Di Paola, Sopravvivenza dei controlli cd. “difensivi” dopo la modifica dell'art. 4 st. lav., in questa rivista, 30 settembre 2021.

L. Tebano, I confini dei controlli difensivi e gli equilibri della Corte Edu, in Riv. It. Dir. Lav., 2020, I, pp. 211 ss.

P. C. Ruggeri, Ancora sull'utilizzabilità in giudizio dei documenti ottenuti o prodotti in violazione della privacy, in Judicium.it, 11 giugno 2020.

F. G. Pasquarelli, Grande fratello sul luogo di lavoro: il contrasto fra sezione penale e sezione civile della Corte di Cassazione, in www.questionegiustizia.it, 8 aprile 2015.

P. Tullini, Videosorveglianza a scopi difensivi e utilizzo delle prove di reato commesso dal dipendente, in Riv. It. Dir. Lav., 2011, I, pp. 86 ss.

G. Dossi, Controlli a distanza e legalità della prova: tra esigenze difensive del datore di lavoro e tutela della dignità del lavoratore, in DRI, 2010, pp. 1155 ss.

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