Indumenti di lavoro-DPI: quando non li deve lavare il datore di lavoro

Paolo Laguzzi
01 Luglio 2022

L'obbligo per il datore di lavoro di mantenere in efficienza e di assicurare le condizioni d'igiene, mediante manutenzione, degli abiti da lavoro costituenti...
Massima

L'obbligo per il datore di lavoro di mantenere in efficienza e di assicurare le condizioni d'igiene, mediante manutenzione, degli abiti da lavoro costituenti Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), previsto dall'art. 77, comma 4, lett. a), D Lgs. n. 81/2008, è comprensivo anche della pulizia soltanto se la stessa risulta indispensabile al fine di garantire la funzione protezionistica specifica dei dispositivi stessi.

Il caso

Due elettricisti qualificati, dipendenti di impresa che opera nel settore della distribuzione di energia elettrica, ricorrono al Giudice del Lavoro lamentando di avere dovuto provvedere personalmente alla pulizia dei capi di abbigliamento avuti in dotazione.

Sostengono la natura di D.P.I. di tali abiti, il cui obbligo di mantenere in efficienza assicurandone altresì le condizioni d'igiene, secondo quanto sancito dall'art. 77, comma 4, lettera a), D.lgs. n. 81/2008, graverebbe invece sul datore di lavoro.

I ricorrenti ne chiedono quindi la condanna ad attivare, di lì in avanti, a propria cura e spese, i predetti servizi obbligatori per tutti i DPI e, per il pregresso, a risarcire nei limiti della prescrizione decennale il danno da loro patito quantificandolo come pari alla retribuzione oraria di un'ora di lavoro straordinario per ciascuna settimana lavorata.

L'azienda, costituitasi in giudizio, contesta che il “lavaggio” dei DPI, allorquando, come nella specie, non costituisce attività necessaria al mantenimento in efficienza, possa rientrare tra gli obblighi datoriali previsti dall'invocata disposizione di legge, disponendo per contro l'art. 78 dello stesso T.U. n. 81/2008 che i lavoratori “provvedono alla cura dei DPI messi a loro disposizione” e la pulizia rappresenta una delle fondamentali modalità attraverso le quali tale cura si esplica.

In via subordinata, il datore di lavoro contesta comunque la sussistenza del danno lamentato dai lavoratori sottolineando al contempo l'incongruità del criterio di liquidazione da questi prospettato.

Il Tribunale non svolge istruzione orale né accertamenti tecnici decidendo dunque la causa allo stato degli atti.

La questione

Il caso descritto concerne il tema degli obblighi datoriali connessi alla fornitura e all'utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI).

In particolare, è discussa l'estensione oggettiva dello specifico obbligo di provvedere alla loro manutenzione. Più precisamente, ci si interroga se tale obbligo comprenda anche la pulizia ed il lavaggio degli indumenti di lavoro allorquando gli stessi abbiano natura di DPI.

Richiamiamo preliminarmente la disciplina generale sulla materia dei DPI, attualmente contenuta nel D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (T.U. sulla Salute e Sicurezza sul Lavoro), artt. da 74 a 79, sotto il Capo denominato Uso dei dispositivi di protezione individuale, recentemente modificato dal D.lgs. n. 17/2019 di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento UE n. 425/2016.

Tale normativa, oltre a stabilire la nozione delle attrezzature di protezione, ne prevede le specifiche necessità d'uso sui luoghi di lavoro, i requisiti essenziali di sicurezza, le regole per la loro conformità e certificazione, nonché gli strumentali obblighi a carico, rispettivamente, del datore di lavoro (afferenti alla valutazione dei casi di necessità d'uso, l'adeguata scelta, la preventiva informazione e formazione dei lavoratori circa il loro utilizzo, l'effettiva distribuzione tra questi ultimi nonché la manutenzione, riparazione o sostituzione a seconda delle necessità) e del lavoratore (il quale, corrispettivamente, deve sottoporsi ai programmi di formazione ed addestramento all'uso organizzati dal datore di lavoro; provvedere alla cura dei DPI messi a sua disposizione, non apportandovi modifiche di propria iniziativa e segnalandone eventuali difetti o inconvenienti; riconsegnare gli stessi dopo l'uso secondo le procedure aziendali).

Secondo la definizione normativa fornita dall'art. 74 D.lgs. cit., la quale ripropone immutata quella già presente nel previgente D.lgs. n. 626/1994, sono DPI le attrezzature destinate ad essere indossate e tenute dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo.

La giurisprudenza ha peraltro precisato che, avuto riguardo al contenuto della prestazione lavorativa e alle modalità di tempo e di luogo in cui essa viene effettuata, le elencazioni dei DPI contenute nei testi normativi hanno portata meramente esemplificativa:

La nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non si riduce alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 c.c.” (Cass., 11 marzo 2022, n. 8042; conformi Cass., n. 16749/2019; Cass., n. 33133/2019; Cass., n. 5748/2020).

Due, pertanto, sono in sostanza gli elementi identificativi del presidio: il fatto che l'attrezzatura vada indossata o tenuta dal lavoratore; il fatto che essa sia idonea a proteggere i lavoratori dai rischi per la salute e sicurezza durante il lavoro.

Esemplificando, è indubbio doversi annoverare tra i DPI le scarpe antiscivolo, i guanti, i caschi, gli occhiali, le visiere, le maschere antigas o antipolvere e, dall'inizio della pandemia, le mascherine protettive Covid-19.

Vale a dire, strumenti di protezione per le varie parti del corpo che, in relazione ai pericoli per salute e sicurezza presenti nell'ambiente di lavoro, risultano concretamente esposte a rischio specifico.

Più controversa è l'inclusione nella categoria de qua degli abiti da lavoro.

Nelle ordinarie condizioni di lavoro, infatti, in assenza di particolari fattori di rischio, la protezione generale del corpo del lavoratore è affidata al comune vestiario, sufficiente a tutelare l'individuo dalle moderate sollecitazioni ambientali: termiche, atmosferiche e/o di polverosità.

Ed in effetti il sopra citato art. 74 D.lgs. n. 81/2008 al suo secondo comma espressamente dispone: “Ai fini del presente decreto non costituiscono DPI: a) gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore”.

In presenza però di rischi particolari, di natura infortunistica o igienico-ambientale, al lavoratore occorrono indumenti aventi specifiche caratteristiche protettive.

Si pensi, ad esempio, alla necessità di protezione anticorrosiva nell'ipotesi di rischio di contatto con sostanze chimiche pericolose; oppure, alla necessità di indumenti in tessuto, a seconda dei casi, ignifugo, autoestinguente, termo-riflettente o ad alta coibenza contro il calore radiante o il rischio di contatto diretto con fiamme o materiale incandescente.

Questione introduttiva e determinante l'accesso del lavoratore alla tutela in questione è pertanto quella dell'accertamento, nel caso concreto, che tali indumenti siano, effettivamente, qualificabili come DPI.

In seguito, va stabilita la concreta attività manutentiva da espletarsi sui medesimi ai fini del mantenimento in efficienza.

Il caso in discussione attiene all'individuazione, appunto con specifico riferimento alla categoria degli abiti da lavoro costituenti DPI, delle prestazioni manutentive attese dal datore di lavoro in adempimento dell'obbligazione posta a suo carico dall'art. 77, comma 4, lettera a), D.lgs. n. 81/2008che, peraltro assai genericamente, si limita a prevedere che lo stesso “mantiene in efficienza i DPI e ne assicura le condizioni d'igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie e secondo le eventuali indicazioni fornite dal fabbricante”.

Al riguardo, se può dirsi intuitivo che per garantire la costante efficienza di questi come di ogni altro DPI, vale a dire il mantenimento nel tempo delle caratteristiche specifiche, la manutenzione deve avvenire attraverso il controllo continuo dello stato di conservazione, il ricambio delle parti eventualmente usurate o guaste e, se necessario, la disinfezione o la bonifica; senz'altro meno agevole è l'accertamento dei contenuti tangibili di tale obbligo manutentivo.

L'attuale panorama giurisprudenziale mostra un articolato approccio alla questione, legato alle multiformi particolarità della casistica.

Nella vicenda portata all'attenzione del giudice veneto, specificamente, i DPI sono costituiti dagli indumenti di lavoro forniti al personale tecnico dipendente di impresa operante nel settore della distribuzione di energia elettrica e l'attività manutentiva degli stessi invocata dai lavoratori ricorrenti a carico del datore di lavoro è data dalla pulizia ed il lavaggio.

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Treviso, nella pronuncia in commento (n. 191 in data 7 aprile 2022), incentra la ratio decidendi sull'individuazione della specifica funzione protettiva degli abiti da lavoro-DPI.

Per fare ciò, in via preliminare, qualifica come DPI gli abiti utilizzati dai ricorrenti, de plano vista l'assenza di controversia sulla questione tra le parti.

Non sempre è così. Le corti, in effetti, hanno spesso negato l'inclusione degli abiti da lavoro nella categoria in oggetto.

Ad esempio, si è ritenuto che le tute di stoffa distribuite da un Comune ai propri operai addetti ai servizi di manutenzione e pulitura dei parchi e dei giardini pubblici non potessero essere considerate dispositivi di protezione individuale, in quanto indumenti strumentali alla sola preservazione degli abiti civili dall'ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa (Cass. n. 5176/2014; conformi T.A.R. Roma (Lazio), sez. I, 18 ottobre 2010, n. 32839 in Diritto & Giustizia 2019, 26 agosto).

Nello stesso senso si è espresso il giudice chiamato ad esprimersi sulla qualifica di DPI, sempre ai fini dell'attribuzione al datore di lavoro dell'onere delle spese di lavaggio, delle divise aziendali indossate da alcuni dipendenti di azienda cantieristica navale per esigenze di ordine, decoro e visibilità oltre che per preservare gli abiti civili dall'ordinaria usura e dallo sporco, senza alcun riguardo a fattori nocivi o patogeni connessi all'espletamento dell'attività lavorativa (Trib. Gorizia 3 ottobre 2013, n. 207 su ilgiuslavorista.it, 26 gennaio 2015, con nota di L. Carleo, Indumenti di lavoro: non sempre la manutenzione delle tute spetta al datore di lavoro solo se le stesse hanno le caratteristiche dei D.P.I.; in termini, per le uniformi indossate da agenti di Polizia Municipale, Trib. Catania 20 maggio 2015, n. 2268; contra, con riferimento a giacche e pantaloni fluorescenti utilizzati da addetti alla raccolta differenziata dei rifiuti su strada, Cass. n. 8042/2022; conforme Trib. Reggio Calabria 10 luglio 2019, n. 1013; così come, nello stesso settore della raccolta rifiuti ma perla funzione protettiva di giubbotti e pantaloni dal contatto con sostanze nocive o patogene, Cass. n. 25401/2019; Cass. n. 18674/2015, relativa ad una lavoratrice addetta ad attività di pulizia delle vetture dei treni; in termini analoghi, Trib. Crotone 19 novembre 2020, n. 770 e Trib. Bari 4 maggio 2021, n. 1378).

Tornando al caso trevigiano, il giudice, dopo aver accertato che gli indumenti oggetto della domanda avevano i requisiti costitutivi necessari per essere considerati DPI, afferma di ritenere ulteriore elemento fondante la propria decisione l'individuazione del rischio che gli indumenti stessi, specificamente, mirano ad evitare.

Quest'ultimo, nel caso di specie, a giudizio del Tribunale è soltanto quello “elettrico” (elettrocuzione, folgorazione, ustioni da arco elettrico, etc.).

L'opposta tesi avanzata da parte ricorrente, secondo la quale gli indumenti sporcandosi durante il lavoro si contaminerebbero anche di agenti chimici e biologici, non è accolta: per ritenuta genericità della deduzione e comunque per mancanza di prova.

Il ricorso, a parere del giudicante, è privo di una specifica descrizione dell'ambiente di lavoro asseritamene a rischio e della costanza dell'esposizione del lavoratore agli agenti contaminanti in questione. Né i ricorrenti hanno in merito offerto prove.

Al contrario, l'azienda resistente ha sostenuto l'estraneità, rispetto alla propria attività tipica, del rischio chimico e da infezioni patogene anche in ragione dell'uso prescritto di specifiche tute usa e getta nelle rare fasi di lavorazione in presenza di gas (SF6) o di olio minerale contenente PC.

Confermano tali allegazioni, secondo il giudice, le risultanze di una relazione ASL, servizio Spresal, prodotta dalla resistente medesima: in base alla quale nell'ambito aziendale ispezionato il rischio chimico era scongiurato dai predetti DPI monouso; ed il rischio biologico era impedito a priori stante l'accesso ai luoghi critici, allorché segnalati dall'operatore del servizio elettrico, del solo diverso personale in seguito incaricato della bonifica.

Del resto, osserva il Tribunale, la norma in oggetto – art. 77, comma 4, lettera a) D.lgs. n. 81/2008 - non menziona il lavaggio e la sua formulazione letterale evidenzia come le “condizioni di igiene” che il datore è obbligato ad assicurare altro non sonno che il mantenimento dell'efficienza protettiva da garantirsi attraverso le tre azioni elencate, consistenti della manutenzione, riparazione, sostituzione.

Peraltro, si aggiunge, l'art. 77 non è norma dettata per gli abiti da lavoro-DPI ma che riguarda ogni possibile dispositivo di protezione individuale per i quali il concetto di igiene, inteso lavaggio, asciugatura, eventuale stiratura, non è neanche concepibile (si pensi a corde, funi, imbracature, maschere); ne deriva che il termine “igiene” non può che essere stato usato nel suo significato letterale ed originario che non è “pulizia” bensì “salute, salubrità”, da cui assicurare le condizioni di igiene non significa assicurare le condizioni di pulizia ma quelle di salubrità e, quindi, efficienza e sicurezza.

Il giudice valuta poi un ulteriore questione: se la pulizia domestica degli abiti da lavoro oggetto di causa sia idonea a vanificare, o anche solo ridurre, la loro efficacia protettiva dal rischio elettrico.

Come a dire, nel caso in cui illavaggio degli indumenti di lavoro-DPI non sia utile alla funzione protettiva può, al contempo e per contro, risultare nocivo alla stessa? Ed è quindi comunque necessario, cautelativamente, che vi provveda il datore di lavoro?

Il quesito rispecchia l'esistenza di un pericolo già considerato in giurisprudenza, la quale al riguardo ha sottolineato come configuri un “obbligo datoriale quello di porre in essere tutte le misure necessarie per garantire la salute e sicurezza dei lavoratori e quindi per prevenire, con specifico riferimento agli operatori ecologici, l'insorgere e la diffusione di infezioni in danno dei medesimi e dei loro familiari, a cui il rischio si estenderebbe in caso di lavaggio degli indumenti da lavoro in ambito domestico” (sic Cass. n. 5748/2020).

Il Tribunale di Treviso, nell'occasione, ritiene il lavaggio ininfluente rispetto alla funzionalità protettiva dei DPI, anche per il fatto che le specifiche tecniche del prodotto non indicano nessuna prescrizione di lavaggio diversa da quella della maggior parte degli indumenti ordinari.

In conclusione, data la circoscritta funzione protettiva – riferita cioè al solo rischio elettrico - degli abiti da lavoro utilizzati dal personale ricorrente, funzione per la cui concreta efficacia risultano irrilevanti le comuni attività di lavaggio e pulizia, il Tribunale ritiene che per gli specifici DPI in esame le attività stesse non rientrino nell'obbligo manutentivo posto dalla legge a carico del datore di lavoro.

Il giudice respinge pertanto la domanda attorea.

Lo stesso giudice, opportunamente, sottolinea a contrario la portata oggettiva della propria pronuncia: tale obbligo datoriale, viceversa, ben può concernere gli abiti da lavoro-DPI allorché la pulizia ed il lavaggio ne contribuiscano a garantire la funzione protezionistica specifica.

In altri termini, se e solo se un indumento da lavoro viene indossato con lo scopo di proteggere il lavoratore dal contatto con agenti chimici e/o biologici pericolosi sorge per il datore di lavoro l'obbligo di mantenerne le condizioni di efficienza ed igiene attraverso il lavaggio, ai sensi del citato art. 77 comma 4.

Nella sentenza si richiama in proposito il precedente costituito da Cass. n. 8585/2015, nel quale lo scopo specifico di prevenire l'insorgenza ed il diffondersi d'infezioni risultava presente nella concreta fattispecie decisa e, per conseguenza, risultando il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti di lavoro in stato di efficienza, tale onere non poteva non essere in capo al datore di lavoro quale destinatario degli obblighi previsti dalla disposizione di legge.

In simili ipotesi, ha affermato la S.C., la pulizia domiciliare dei DPI finirebbe oltretutto per comportare la vanificazione della loro funzione di protezione, determinando il protrarsi del contatto con gli agenti biologici e, addirittura, l'esposizione al rischio di contaminazione anche degli ambienti domestici e delle persone, diverse dal lavoratore, ivi potenzialmente presenti.

Osservazioni

Condivisibile e meritorio l'approfondimento ermeneutico svolto sull'argomento dal Tribunale di Treviso.

Il giudice, respingendo l'automatica sovrapposizione, troppo spesso presente nella giurisprudenza, tra l'accertamento della funzione di DPI di alcuni indumenti da lavoro e l'attribuzione dell'obbligo di loro pulitura a carico del datore di lavoro, ha previamente verificato la specifica idoneità protettiva degli indumenti stessi. Concludendo, nel caso particolare, per l'estraneità del lavaggio rispetto alle azioni funzionali a mantenere in efficienza il dispositivo.

Ai fini protettivi, se ne deduce, nessuna differenza vi è tra l'appaltare ad una lavanderia o, invece, demandare ai lavoratori il lavaggio di tali abiti, posta l'assenza di rischio biologico e/o chimico da cui guardarsi.

Infatti, una cosa è accertare la funzione di protezione concretamente svolta dal vestiario utilizzato al lavoro dal dipendente, altra è imputarne al datore di lavoro l'obbligo della manutenzione attraverso il lavaggio periodico.

Quand'anche il responso della prima indagine sia affermativo, il lavaggio potrebbe, come si è ritenuto nel caso considerato, essere ininfluente sulle funzioni di salvaguardia proprie del DPI.

A dire il vero, tempo addietro una Circolare del Ministero del Lavoro (circ. 26 aprile 1999, n. 34), rubricata Indumenti e DPI, dissertando sulle tre funzioni che gli indumenti di lavoro possono assolvere (“A) elemento distintivo di appartenenza aziendale, ad esempio uniforme, divisa; B) mera preservazione degli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all'espletamento della attività lavorativa; C) protezione da rischi per la salute e la sicurezza”) e, in particolare, precisando che solo nell'ultimo caso gli indumenti rientrano tra i dispositivi di sicurezza, peraltro apoditticamente affermava essere compito del datore di lavoro – per tutti gli indumenti di lavoro che assumono la caratteristica di dispositivi personali di protezione - “provved(ere) alla loro pulizia stabilendone altresì la periodicità”.

Tale assunto, e cioè l'assimilazione meccanica tra l'accertamento nel caso concreto della natura di DPI degli abiti da lavoro e l'obbligo di loro pulizia e lavaggio a carico del datore di lavoro, come detto non pare oggi in linea con il migliore approdo della giurisprudenza all'argomento.

Un altro esempio giunge dalla Corte di Appello di Milano, con la sentenza 22 febbraio 2021, n. 196, relativa al caso di un addetto alla pulizia delle stazioni della metropolitana e degli annessi parcheggi il cui vestiario aziendale era costituito da una pettorina gialla ed un giaccone, entrambi impermeabili, in poliestere e con fasce catarifrangenti.

La Corte ha ritenuto insussistente la funzione protettiva di tali indumenti per l'esposizione ad agenti patogeni, riconoscendo invece quella volta a scongiurare eventuali sinistri in danno dell'operatore, consentendone la visibilità anche a lunga distanza.

Circostanza, quest'ultima, tale da giustificare comunque l'attribuzione dell'onere del loro lavaggio, ai fini del mantenimento in stato di efficienza, a carico del datore di lavoro.

Un'ultima notazione.

Discorso a parte va fatto nell'evenienza in cui sussista un'obbligazione contrattuale gravante sul datore di lavoro al lavaggio in sé, cioè a prescindere dall'efficacia manutentiva del medesimo, degli abiti del personale al lavoro.

Tale obbligo, che generalmente scaturisce dalla contrattazione collettiva o dalla disciplina convenzionale nell'ambito degli appalti di servizi (bandi, capitolati, etc.), impone all'imprenditore il lavaggio di tute, uniformi o divise aziendali non tanto, o non solo, per esigenze di tutela della salute e dell'igiene del dipendente bensì, soprattutto, allo scopo di favorire l'identificazione e l'appartenenza del gruppo organizzato di lavoratori.

Il paradigma può ricavarsi dalla pronuncia del Tribunale di Pavia, sezione lavoro, in data 11 gennaio 2021, n. 259, nella quale in riferimento ad una non meglio precisata tuta di lavoro indossata dagli operai addetti alla pulizia e disinfezione degli ambenti interni ed esterni alle stazioni della rete ferroviaria, si è ritenuto che, in forza dell'art. 36 del c.c.n.l. mobilità–area attività ferroviarie, l'azienda convenuta si era resa inadempiente all'obbligo del lavaggio sancito dalla predetta disposizione collettiva, con conseguente condanna a risarcire i lavoratori ricorrenti del danno patrimoniale costituito dalla mancata remunerazione del lavoro necessario al lavaggio medesimo.

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