“Lo spazio è una questione di tempo”
04 Dicembre 2020
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La questione che le Sezioni Unite penali hanno risolto il 24 settembre 2020 riguarda il regime di applicabilità degli artt. 582 comma 2 e 583 c.p.p. in ambito cautelare e ciò al fine di stabilire, in particolare, se sia possibile o vietato depositare il ricorso per Cassazione ex art. 311, commi 1 e 2, c.p.p. anche presso le cancellerie degli organi giudiziari, ovvero presso l'agente consolare, dei luoghi indicati dallo stesso art. 582, comma 2, c.p.p. La decisione è frutto della ordinanza della Suprema Corte, Sezione Terza, c.c. 21 maggio 2020, dep. 19 giugno 2020, adita dal ricorrente Mario Bottari (indagato per i reati pp. e pp. dagli artt. 74commi 1-2 e 73 d.P.R. n. 309/90) avverso l'ordinanza emessa il 21 agosto 2019 dal T.d.L. di Reggio Calabria che, solo in parziale accoglimento della richiesta di riesame, aveva confermato nel resto il provvedimento originario e mantenuto la custodia cautelare in carcere applicata dal G.i.p. presso il Tribunale di Reggio Calabria. Dopo aver dedotto il vizio motivazionale per essere rimaste inevase alcune doglianze mosse in punto di gravi indizi di colpevolezza, il ricorrente ha riproposto la questione di legittimità rigettata con l'ordinanza gravata. Si badi bene: come si desume dal § 2.2 del Ritenuto, la q.l.c. sollevata dal Bottari ha riguardato l'art. 309 c.p.p. (non già l'art. 311 c.p.p.), considerato illegittimo nella parte in cui non prevede un termine entro il quale la richiesta di riesame, depositata presso una cancelleria diversa da quella del giudice ad quem, debba essere trasmessa al T.d.L. distrettuale, ovvero nella parte in cui non prevede che il termine di dieci giorni entro cui deve intervenire la decisione debba reputarsi valido anche ove la richiesta medesima sia stata depositata nelle forme di cui all'art. 582, comma 2, c.p.p. La decisione di rimettere la questione relativa, invece, all'applicabilità (soprattutto) di quest'ultima norma al ricorso per Cassazione è nata dalla modalità di deposito del ricorso stesso: il Bottari (cui l'ordinanza del T.d.L. era stata notificata il 14 ottobre 2019) aveva depositato l'atto d'impugnazione proprio il 24 ottobre successivo, ma il deposito era avvenuto presso la cancelleria del Tribunale di Locri (dunque, in virtù dell'art. 582, c. 2, c.p.p.) che, a sua volta, aveva trasmesso l'atto d'impugnazione al Tribunale di Reggio Calabria (giudice a quo,trattandosi della ipotesi di cui all'art. 311, comma 1, c.p.p.) ove il ricorso era pervenuto solo il 12 novembre successivo. Pertanto, si legge sub § 2.2 del Considerato, «Questo essendo lo stato degli atti, rileva il Collegio che, secondo l'orientamento interpretativo sino a questo momento, a quanto risulta, dominante presso la giurisprudenza della Corte, il ricorso del Bottari sarebbe da dichiarare radicalmente inammissibile, quale che fosse la declinazione del predetto orientamento che questa Corte intendesse seguire». Ciò in quanto, si anticipava nel § 1.2, «La ritenuta necessità di rimettere la definizione della questione al magistero delle Sezioni Unite non è (…) legata alla esistenza di un attuale contrasto giurisprudenziale – posto che le indicazioni rivenienti dalla giurisprudenza di legittimità rintracciabile in argomento sarebbero tali da condurre pianamente alla indubbia dichiarazione di inammissibilità del ricorso – quanto alla ritenuta opportunità di prevenire un possibile contrasto quale deriverebbe dall'eventuale valutazione positiva che questa Sezione dovesse fare in merito all'ammissibilità, sotto il profilo della tempestività e regolarità della sua proposizione, del presente ricorso (…), nonché dalla ritenuta speciale importanza della questione, attinente alle modalità di tutela giurisdizionale di diritti di rango assolutamente primario che, sempre ad avviso di questo Collegio, suggeriscono, salva evidentemente la discrezionale decisiva valutazione che sul punto spetta insindacabilmente al Primo Presidente di questa Corte (…), che sia sottoposta alla massima espressione nomofilattica dell'organo preposto, ai sensi dell'art. 65 dell'Ordinamento giudiziario, alla uniforme interpretazione della legge ed alla uniformità del diritto oggettivo, la questione formulata da questa Sezione». Per tali ragioni, con ordinanza n. 18582/2020, la Sezione Terza della Suprema Corte ha rimesso la questione alle Sezioni Unite formulando il seguente quesito di diritto: «Se le specifiche modalità di presentazione del ricorso per cassazione avverso la decisione del Tribunale del riesame ovvero – in caso di ricorso immediato – del giudice che ha emesso la misura, costituiscono eccezione alle norme che regolano, in via generale, la presentazione dell'impugnazione, con la conseguenza che il relativo ricorso deve essere presentato esclusivamente nella Cancelleria dello stesso Tribunale, o comunque dello stesso organo giudiziario, che ha emesso l'atto oggetto di impugnazione, con esclusione, anche per la parte privata, di qualsiasi soluzione alternativa. Nonché, in via gradata: Se, in caso di risposta negativa al precedente quesito, il ricorso per cassazione può essere presentato, ex art. 311, comma 3, cod. proc. pen., dal difensore dell'interessato anche nella Cancelleria del Tribunale o del Giudice di pace ubicato nel luogo ove questi si trovi nonché inviato a mezzo telegramma o con posta raccomandata alla Cancelleria che ha emesso il provvedimento o depositato davanti ad un agente consolare e se, ai fini della tempestività di detta presentazione, il ricorso debba ritenersi tempestivamente proposto solo in quanto esso sia quindi pervenuto entro i termini di cui all'art. 311, comma 1, cod. proc. pen., anche alla Cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, per essere stato ivi inviato a cura della Cancelleria dell'Ufficio giudiziario o consolare ove era stato precedentemente depositato ovvero a seguito della sua trasmissione con gli altri mezzi indicati». 2.
Il bel pragmatismo emerge da diversi passaggi della ordinanza di rimessione, la Sezione Terza avendo ritenuto la questione meritevole di essere esaminata dalle Sezioni Unite «in quanto involgente un profilo di notevole interesse sul quale vi è, con tutta verosimiglianza, una situazione di incertezza applicativa potenzialmente foriera di ingiustificate casuali disparità di trattamento» (§ 1.1 del Considerato). Fa subito riflettere il termine “casuali”; ci si chiede, infatti, se la casualità dipenda dall'assegnazione del singolo ricorso alle singole Sezioni e ai singoli componenti di ognuna di esse, oppure dalla solerzia delle singole cancellerie che abbiano trasmesso il ricorso al “posto giusto” in termini o meno. Tuttavia, la prima ipotesi dovrebbe essere scartata in radice, posto che – secondo i giudici rimettenti e come già ricordato sopra – «le indicazioni rivenienti dalla giurisprudenza di legittimità rintracciabile in argomento sarebbero tali da condurre pianamente alla indubbia dichiarazione di inammissibilità del ricorso»; la seconda, invece, poggerebbe sull'orientamento intermedio riferito anch'esso nella ordinanza. Più esattamente, si legge al § 2.3: «A tale più drastica declinazione dell'orientamento descritto, se ne affianca (più che contrapporsi ad esso) un'altra modalità espressiva, numericamente prevalente, in base alla quale, all'evidente scopo di lenire i rigori del precedente indirizzo, il ricorso per cassazione presentato nella Cancelleria di Ufficio giudiziario diverso rispetto a quello che ha emesso il provvedimento cautelare impugnato non è radicalmente inammissibile – come invece sostenuto, senza alcuna possibilità di ipotesi di recupero dell'atto, secondo l'orientamento precedentemente esposto – ma può essere ritenuto ammissibile allorché esso, pur erroneamente depositato non presso la cancelleria del giudice a quo, sia tempestivamente pervenuto anche nella Cancelleria dell'Ufficio ove ha sede il giudice che ha emesso l'atto impugnato, essendo a carico dell'impugnante il rischio che l'impugnazione in tal modo presentata sia poi dichiarata inammissibile per tardività, ove essa abbia, invece, raggiunto l'Ufficio giudiziario corretto oltre i termini di legge; ciò in quanto la data di presentazione della impugnazione, salvi i casi disciplinati appunto dagli artt. 582 e 583 cod. proc. pen., è, comunque, solo quella in cui l'impugnazione perviene all'Ufficio giudiziario competente a riceverlo (così: da ultimo in ordine di tempo, fra quelle massimate: Corte di Cassazione, Sezione III penale, 13 maggio 2020, n. 14774; idem Sezione II penale, 23 gennaio 2019, n. 3261; idem Sezione I penale, 22 febbraio 2012, n. 6912; idem Sezione V penale, 4 novembre 2009, n. 42401)». Ci si permetta di discostarsi da tale indirizzo, la interpretazione – e conseguente applicazione – delle norme dovendo e potendo avere solo un'alternativa alla soluzione prescelta. Positiva o negativa che sia, ma che sia una e una sola. Detto con maggiore impegno esplicativo, la certezza della norma – e del suo concreto precipitato nelle aule di Giustizia – è l'irrinunciabile faro del giurista, in particolare del difensore dell'indagato/imputato che, come in questo caso, è l'unico ad avere interesse a impugnare l'ordinanza applicativa della misura cautelare personale massimamente afflittiva. Peraltro, se le reminiscenze universitarie non ingannano, in materia di notificazioni in ambito civilistico vale la regola esattamente contraria – in termini di scissione del perfezionamento degli effetti tra notificante e destinatario – e ciò per effetto di Corte cost., 26 novembre 2002, n. 477 oltre che della l. 20 novembre 1982, n. 890. E certamente non inganna – anzi illumina l'intero spettro normativo sì da rendere sempre meno inverosimile l'idea di una logica sinottica comune agli artt. 309-311 c.p.p. – il dato codicistico contenuto nell'art. 583 c.p.p. Il legislatore, all'interno del comma 2, ha posto l'accento proprio sul segmento attivo iniziale: L'impugnazione si considera proposta nella data di spedizione della raccomandata o del telegramma. Strano. O forse no. Già perché, in buona sostanza, non può e non deve essere «a carico dell'impugnante il rischio che l'impugnazione in tal modo presentata sia poi dichiarata inammissibile per tardività, ove essa abbia, invece, raggiunto l'Ufficio giudiziario corretto oltre i termini di legge», dovendo valere – in linea di coerenza prettamente teorica – il principio del “ragionevole affidamento” nell'operato altrui. Proprio per questo, più si riflette e meno ci si persuade della bontà e utilità, concrete e finali, dell'orientamento intermedio che, pur avendo l'innegabile “scopo di lenire i rigori del precedente indirizzo” – cioè, quello della inammissibilità tout-court – rischia di sortire l'effetto (negativo) esattamente contrario. Se si può presentare “fuori sede”, è ovvio e necessario che, per chi procede in tal senso, possa e debba valere la data del deposito ivi avvenuto, non potendo giovare o nuocere al depositante la rapidità o lentezza – random – del personale di cancelleria. Chissà se è questo, allora, il portato pratico del termine “casuale” cui si accennava all'inizio. A questo punto, facendo un passetto indietro (verso il § 2.2), la Sezione terza indica la giurisprudenza di legittimità, «anche recente», in forza della quale il ricorso per Cassazione avverso la decisione del Tribunale per il riesame deve essere depositato presso la cancelleria di quest'ultimo. Ciò «dal momento che le specifiche modalità di presentazione di tale forma di impugnazione sono oggetto di disciplina autonoma cui non si applicano, ove non espressamente richiamate, le norme che regolano in via generale le modalità di presentazione delle impugnazioni ordinarie (in tal senso, di recente, fra quelle oggetto di massimazione: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 27 marzo 2019, n. 13420)». Trattasi, più esattamente, di «ius singulare, le cui regole possono fare eccezione rispetto a quelle che disciplinano l'ordinaria modalità di presentazione dell'impugnazione». Pertanto, seguendo siffatta corrente (nel cui perimetro vi era già Cass. pen., Sez. VI, 20 marzo 1991, n. 3539, citata nel § 2.2), «la presentazione del ricorso per cassazione conseguente al deposito della decisione assunta dal Tribunale del riesame va presentata nella Cancelleria dello stesso Tribunale che ha emanato l'atto impugnando, con esclusione di qualsiasi altra soluzione». Tale scelta esegetica, evidenziano i giudici rimettenti, «è stata argomentata sulla base del rilievo che, in materia, non possono trovare applicazione le diverse norme sulla presentazione dell'atto di impugnazione di cui agli artt. 582 e 583 c.p.p., posto che la operatività delle stesse è limitata – per effetto del rimando ad esse contenuto nel solo art. 309, comma 4, cod. proc. pen. – esclusivamente alla richiesta di riesame e, per effetto del richiamo contenuto nell'art. 310, comma 2, cod. proc. pen., a tale ultima norma citata alla proposizione dell'appello cautelare». Orbene, sia lecito domandarsi se le norme contenute negli artt. 582 e 583 c.p.p. siano davvero diverse, le stesse risultando tra le Disposizioni generali in materia di impugnazioni. Naturalmente, se (come già rilevato) si intendono le norme di cui agli artt. 309, comma 4, 310, comma 2 e 311, comma 3, c.p.p. quale vero e proprio «ius singulare le cui regole possono fare eccezione rispetto a quelle che disciplinano l'ordinaria modalità di presentazione dell'impugnazione», ci si chiede comunque come mai il legislatore abbia voluto limitare il richiamo a tali norme generali solo nel caso del riesame e dell'appello. Se davvero questo è quel che il legislatore ha chiaramente voluto, assegnando valore dirimente al dato letterale che è frutto del noto brocardo: ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. Un pensiero, però, inizia a insinuarsi: posto che il primo periodo dell'art. 309, comma 4, fa comunque riferimento al comma 7 e poi, in modo assolutamente generico, rinvia nel secondo periodo agli artt. 582 e 583 c.p.p. – ancora una volta tout-court e, quindi, integralmente considerati – ipotizzare che il legislatore nell'un caso (artt. 309 e 310 c.p.p.) sia stato più completo/abbondante, mentre nell'altro (art. 311 c.p.p.) sia stato (con minor livello di precisione) incompleto/asciutto non è (forse) così illogico. Diversamente opinando, una Q.L.C. sollevata per ottenere un intervento di tipo additivo sarebbe la soluzione quasi scontata al gap generato (“non creato”) da un legislatore talvolta un po' sbadato. Detto ancora una volta con maggiore impegno esplicativo, probabilmente la volūntas legis sottesa all'art. 311 è di (implicito) rinvio allo schema dei primi e (in questo caso) alternativi gradi di giudizio. E che la considerazione appena svolta non appaia (o non sia) del tutto peregrina lo si ricava dal § 3.4: «Vi è, peraltro, a questo punto, da osservare che il regime delle impugnazioni in materia cautelare non può definirsi un sistema chiuso, per ciò intendendosi un sistema del tutto autonomo rispetto a quello generalmente riferibile alle altre tipologie impugnatorie, che contenga tutte le disposizioni che valgano a strutturarlo come un sistema autosufficiente, tale da non tollerare – in assenza di una espressa disposizione che disciplini in termini peculiari uno specifico aspetto della materia la possibilità di attingere alle regole comuni in materia di impugnazioni – laddove non vi sia, come detto, un'autonoma disciplina – al fine di integrare la normativa particolare tramite il ricorso, appunto, ai principi generali vigenti in argomento (…)». Anche perché poco prima, in calce al § 3.2, la Sezione Terza, pur procedendo dal richiamo esplicito alle forme degli artt. 582 e 583 contenuto nell'art. 309 c.p.p., aveva ben riferito che tale rinvio «ha indotto la giurisprudenza di questa Corte a rilevare in termini non contrastati (…) che la richiesta di riesame può essere validamente presentata anche nella Cancelleria della sezione distaccata del Tribunale del luogo di emissione della decisione impugnata o, comunque, in una Cancelleria diversa da quella del giudice del riesame, indicata a tal fine dall'art. 309, comma 4, cod. proc. pen., dal momento che la disposizione generale sulle impugnazioni, secondo cui le parti private e i difensori possono presentare l'atto di impugnazione anche nella Cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano, in quanto espressiva del principio del favor impugnationis, non ha carattere eccezionale e dunque non deve essere interpretata in senso restrittivo, rigorosamente ancorato al dato testuale(Corte di cassazione Sezione II penale 6 dicembre 2006, n. 40202; idem Sezione II penale, 2 dicembre 2005, n. 44215)» anticipate da Cass. pen., Sez. I, 4 dicembre 1992, n. 1448, menzionata dalla Sezione terza al § 4.2. Ci si chiede, però, a questo punto: atteso il rinvio contenuto nell'art. 309, comma 4 – in modo esplicito, lo si ribadisce – agli artt. 582 e 583 c.p.p., che senso hanno la precisazione e gli interventi giurisprudenziali di cui sopra? Se il dato testuale è nitido – il richiamo agli artt. 582 e 583 essendo limpido e limpidamente integrale – qual è l'utilità di sciogliere un dubbio che non ha ragione di esistere? Certo, l'art. 311 c.p.p. non fa riferimento alcuno agli artt. 582 e 583 c.p.p., fattore letteralmente ineccepibile e doverosamente valorizzato in calce al § 3.3 della presente ordinanza. Ma se la chiave di lettura è quella cristallizzata pure dalla Suprema Corte, perché non utilizzarla per le modalità di deposito anche del ricorso per Cassazione? E infatti, sono gli stessi rimettenti (nel § 4.1) a registrare due «rationes decidendi che potrebbero militare in favore della inammissibilità del ricorso per cassazione in materia cautelare presentato nelle forme di cui agli artt. 582 e 583 cod. proc. pen.: una prima di carattere formale, legata alla littera legis, ed una seconda di tipo funzionale, legata alle finalità perseguite dal tipo di giudizio in discorso ed alle esigenze che pertanto debbono essere salvaguardate». Il ricorso al condizionale del verbo “potere” è quanto mai… indicativo della propensione della Terza a una risposta positiva al quesito posto in via principale alle Sezioni Unite. In ordine alla prima ratio, la censura è contenuta nel § 4.2 ove si legge: «L'argomento appare non pienamente convincente, posto che – diversamente da quanto è previsto dall'art. 311 cod. proc. pen. in relazione al ricorso per cassazione avverso i provvedimenti cautelari, il cui luogo ordinario di presentazione è, come da regola generale sancita dal già dianzi ricordato art. 582, comma 1, cod. proc. pen., la Cancelleria del giudice a quo – nel caso di presentazione di istanza di riesame la sede di deposito dell'atto impugnatorio è, eccezionalmente, la Cancelleria del giudice ad quem; il riferimento, pertanto, alle forme di cui agli artt. 582 e 583 cod. proc. pen. vale a ristabilire nel caso di impugnazione in sede di riesame (o di appello cautelare) la applicabilità per il resto, eccettuata la disposizione eccezionale, della disciplina ordinaria». Chiarisce l'Estensore: «Un siffatto richiamo in materia di ricorso per cassazione non sarebbe stato, pertanto, pertinente, attesa la circostanza che in relazione a tale procedimento non vi è alcuna difformità rispetto alla regola generale la cui applicazione non risulta affatto essere derogata né in via implicita, tantomeno, in via espressa». Si aggiunge: «Sul punto non è, d'altra parte, privo di significato osservare che, nell'originario testo codicistico, l'art. 309, comma 4, cod. proc. pen., il quale prevede, come più volte ricordato, con disposizione che costituisce eccezione alla regola generale, che il ricorso in sede di riesame (e di appello) cautelare sia presentato di fronte al giudice ad quem, richiamasse solamente l'art. 582 cod. proc. pen., e non anche l'art. 583 del codice di rito, cioè solamente la disposizione che risultava essere espressamente derogata che, diversamente sarebbe stata integralmente non applicabile, e non solo nella parte relativa al luogo di presentazione del ricorso, con un'evidente lacuna normativa che avrebbe reso di problematica applicazione per il resto, data la sua incompletezza, la disciplina relativa al deposito del ricorso in sede di riesame (…)». Proprio perché nel testo codicistico successivo il richiamo è tanto all'art. 582 quanto all'art. 583 c.p.p., nessuna deroga (in definitiva) l'art. 309 attuale contiene agli artt. 582 e 583 c.p.p., giacché le loro forme sono espressamente e integralmente contemplate, dunque, tollerate, rectius: legittimate come regola di deposito. Sia pure in via alternativa – lasciata alla determinazione finale della parte – ma proprio perché nelle forme «si intendono per pacifica giurisprudenza ricomprese anche le possibili modalità speciali di presentazione del ricorso(…)». Se ne perdoni il richiamo monotono, ma tant'è. Si legge ancora: «Tali argomenti renderebbero, pertanto, privo di un significativo avallo logico il, peraltro sempre discutibile, tipo di argomentazione che si basasse sul principio di carattere testuale del ubi lex dixit voluit, ubi tacuit noluit, considerato che, in questo caso, al silenzio del legislatore non appare ragionevole attribuire un qualche significato non immediatamente espresso». La scansione dei verbi (invertita rispetto alla costruzione sintattica latina riportata supra: ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) è uno specchio lucidissimo della tesi che qui si sostiene: proprio perché non sempre se il legislatore ha voluto ha detto e se ha taciuto non ha voluto, il prefato vuotoletterale dell'art. 311 c.p.p. è colmabile. Idea che ben si nutre di quanto riferito poco dopo dall'Estensore: «Va, a questo proposito, anche ricordato che la giurisprudenza di legittimità, sebbene ad altri fini e sia pure implicitamente (in particolare allorché ha affermato che l'art. 625-bis cod. proc. pen. non contiene alcuna deroga alla disposizione di carattere generale dettata dall'art. 582 cod. proc. pen.), ha, peraltro, precisato che le eccezioni ai principi generali che regolano la disciplina delle impugnazioni debbono essere espresse (così: Corte di cassazione, Sezioni Unite penali, 27 luglio 2015, n. 31744)». A ben riflettere, nell'art. 311, comma 3, c.p.p. non è contenuta una espressione (per l'appunto eccettuativa) del tipo: Salvo quanto previsto dall'art. 582, c. 2 e dall'art. 583c.p.p. Proseguendo, si giunge al § 4.3 ove si afferma: «Quanto alla restante ratio decidendi, cioè quella legata alle specifiche finalità perseguite attraverso la impugnazione di un provvedimento di carattere cautelare, per il quale una serie di indici normativi evidenziano la valorizzazione che il legislatore ha inteso attribuire alle esigenze di speditezza processuale, si tratta di un argomento che, come suol dirsi, corre il rischio di “provare troppo”, cioè di dimostrare, attraverso la sua astratta riferibilità in termini di assoluta preponderanza alla sola fase connessa al ricorso in sede di riesame, la mancanza di logicità della sua applicazione anche alla fase processuale del ricorso per cassazione avverso il provvedimento cautelare. In esso, infatti, le esigenze di speditezza, pur presenti, hanno una incidenza, sotto il profilo effettuale, assai inferiore di quella che, invece, esse spiegano nella fase del riesame». Vero, sotto entrambi gli aspetti. È noto, d'altronde, che se la richiesta di riesame è il primissimo atto con cui il difensore può chiedere e ottenere la caducazione o comunque una modifica in melius della misura cautelare personale applicata al proprio assistito [gli atti raccolti nei confronti del quale potendo essere oggetto di discovery – talvolta… “ora per allora” (questa è un'altra storia) – ben prima della fase di merito e del relativo avviso ex art. 415-bis c.p.p.], è altrettanto indubbio che – nelle more del deposito della ordinanza di rigetto, notifica e fissazione dell'udienza innanzi al giudice di legittimità – spesso (anche “solo” sulla base della degradazione o sopravvenuta carenza delle esigenze cautelari) l'effetto benefico si ottiene molto prima (e con maggiori probabilità di successo) con una istanza proposta ai sensi dell'art. 299 c.p.p. Sic. A questo punto, al rimettente «appare opportuno considerare sistematicamente il diritto vivente già formatosi in siffatta materia», sicché cita le S.U. n. 11 del 1991 con cui la Suprema Corte ebbe modo di «chiarire che il rinvio che in tema di presentazione della richiesta di riesame l'art. 309, comma 4, cod. proc. pen. (applicabile anche all'appello in virtù del richiamo dell'art. 310, comma 2, cod. proc. pen.) fa alle forme dell'art. 582 stesso codice di rito comprende anche il secondo comma del medesimo art. 582 (…). Nell'affermare tale principio la Corte ebbe a precisare che la tesi, opposta a quella ritenuta migliore, fondata sulle ragioni di celerità che sovraintendono al procedimento di riesame de libertate, appare viziata da un insanabile contrasto logico in quanto – ove si ritenga che dette ragioni siano finalizzate ad assicurare una più tempestiva tutela alla posizione del ricorrente (e questa sarebbe la motivazione che, onde tagliare i tempi procedurali, avrebbe determinato il legislatore ad individuare, eccezionalmente, nella Cancelleria del giudice ad quem il luogo ordinario di deposito del ricorso in sede di riesame) – non sarebbe giustificata la privazione in capo al ricorrente di una altra facoltà a lui spettante – la cui incidenza in termini di maggiore o minore dispendio di tempi e di risorse per il ricorrente non è necessario dimostrare, data la sua palmare evidenza – cioè di quella di depositare l'atto impugnatorio presso un Ufficio giudiziario diverso da quello che ha emesso il provvedimento impugnato, obbligandolo, invece, a compiere tale formalità presso un Ufficio (appunto quello a quo) eventualmente distante rispetto alla sede ove il soggetto depositante si trovi in quel momento». Esattamente. Infatti, rammenta la Sezione terza che riporta a sua volta il decisum delle Sezioni Unite, «“le allegate ragioni di urgenza potrebbero compromettere proprio l'attuazione di quel diritto che si pretende con esse di assicurare ancor più rapidamente”; ciò, fu aggiunto, “non solo in contrasto con il favor impugnationis, cui è indubbiamente ispirato il sistema processuale, ma con intuitive possibilità di implicazione costituzionale, quanto meno in relazione all'art. 24 Cost.”». Giusto. E si tratta di dato inconfutabile, ormai, letteralmente – con le personali riserve già fin qui esternate nella misura in cui le indicate rationes sarebbero ostative alla esportabilità del meccanismo di favore al ricorso per Cassazione – logicamente e garantisticamente. Peraltro, come si legge nel § 4.5, la predetta esportabilità è stata riconosciuta – ancora una volta dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 47374 del 2017 – a favore del riesame cautelare reale di cui all'art. 324, c. 2, c.p.p., ove si rinvia all'art. 582 ma non anche all'art. 583 c.p.p. Ebbene, ci si chiede come mai tale norma non sia stata poi integrata, anche e soprattutto considerato – se il dato strettamente letterale deve proprio aver la meglio (non certo per il diritto di difesa) – che se la l. n. 332/1995 ha ampliato l'art. 309, comma 4, avendo appunto ivi inserito anche il riferimento alle forme di cui all'art. 583, non si comprende perché tale regola – espressiva di altrettanto indubbio favor – non possa e non debba valere anche per il riesame cautelare reale. È stato detto – e lo si è condiviso – non essere affatto scontato che ubi lex dixit voluit, ubi tacuit noluit, sicché delle due l'una: se il legislatore è stato smemorato nel caso dell'art. 324 c.p.p., non si capisce perché si debba negare che lo sia stato anche nel caso dell'art. 311 c.p.p. Lo si ricava proprio dal § 4.7 della ordinanza in esame, ove si legge: «Nella relazione alla proposta di legge, d'iniziativa dei deputati Simeone ed altri, con specifico riferimento all'articolato che (…) si tradusse nell'attuale formulazione legislativa, si affermò come la possibilità di spedire la richiesta di riesame a mezzo telegramma o con altro atto da inviare con raccomandata fosse preordinata a risolvere i numerosi contrasti giurisprudenziali ed, insieme, a facilitare, sotto il profilo operativo, l'azione della difesa». Numerosi contrasti giurisprudenziali che, invece, non esistono nel caso del Bottari – la stessa Sezione terza ha evidenziato una finalità preventiva – a fronte del fatto che, invece, per prassi – di certo non contra, ma secundum legem et rationem suam optimam – moltissimi ricorsi cautelari ex art. 311 c.p.p. sono stati depositati finora… secondo le forme degli artt. 582 e 583 c.p.p. Proprio quel che è accaduto anche alla Sezione terza. Non sarà certo un caso. E adesso, poiché le Sezioni Unite hanno risposto negativamente al quesito principale posto loro, la domanda che sorge davvero spontanea (anche perché molteplici sono i tormenti notturni di chi ha depositato “fuori sede” un ricorso – magari a proprio sommesso ma solido avviso – non manifestamente inammissibile) è la seguente: e ora cosa accadrà a quel che allorae altrove è stato fatto, rectius: depositato? Può una tale decisione delle Sezioni Unite spiegare una efficacia retroattiva in malam partem? Si affronti in seguito la questione più spinosa e si completi il (bel) percorso tracciato nella ordinanza di rimessione. Anche riguardo all'art. 583 c.p.p. (si legge nel § 4.8), «le Sezioni unite penali di questa Corte erano già intervenute a stroncare il contrasto rispetto alle pronunce secondo cui l'indicazione del solo art. 582 cod. proc. pen. da parte dell'art. 309, comma 4, cod. proc. pen. avrebbe escluso che potesse trovare applicazione anche l'art. 583 del codice di rito, operante, invece, come regola generale per la presentazione delle impugnazioni (così, infatti: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 14 novembre 1992, n. 3383), avendo affermato nell'occasione che, in materia di misure cautelari, sia reali che personali, la richiesta di riesame può essere proposta con telegramma o con atto trasmesso a mezzo di raccomandata, a norma dell'art. 583 cod. proc. pen. ed in tal caso “l'impugnazione si considera proposta nella data di spedizione della raccomandata o del telegramma” (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 7 luglio 1993, n. 8) (…). Da ciò si è fatto derivare che non è significativo il rilievo che gli artt. 309, comma 4, e 324, comma 2, cod. proc. pen. richiamassero solo l'art. 582 cod. proc. pen., anche perché, com'è pacifico, questa non è certo l'unica disposizione di carattere generale sulle impugnazioni applicabile al riesame e all'appello relativo alle misure cautelari». Quindi, nel § 4.9, il cerchio inizia a chiudersi in modo perfettamente lineare: «Sotto tale profilo apparirebbe, ad avviso del Collegio, allora insostenibile un'interpretazione che – rispetto a una disposizione (cioè l'art. 311, comma 3, cod. proc. pen.) che, a sua volta, non deroga al principio generale, secondo il quale l'impugnazione è presentata presso il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato – trarrebbe argomenti per sostenere che proprio l'assenza di richiami alle norme, che della disciplina generale costituiscono fondamento, equivarrebbe a deroga implicita di tali disposizioni. Ed a tali conclusioni si giungerebbe pur ammettendosi, invece, che laddove il principio generale è espressamente derogato (art. 309, comma 4, cod. proc. pen.), esse, cioè le altre disposizioni di carattere generale, troverebbero piena applicazione in quanto richiamate, senza considerare tuttavia che, nel secondo caso, è proprio la deroga ad una regola generale ad esigere il richiamo delle altre; esigenza questa, invece, del tutto estranea alla fisiologia dell'art. 311, comma 3, cod. proc. pen., non essendo questa norma eccezionale». Chapeau! Ed è nel § 4.10 che la Sezione terza, dopo aver concluso che «anche l'argomento funzionale, così come quello testuale, non appare, pertanto, ostativo alla applicazione anche alla fattispecie di cui all'art. 311 cod. proc. pen. dei principi generali in tema di modalità di deposito del ricorso», disvela l'anima più bella del contrasto nei termini che seguono: «(…) l'applicazione delle regole dettate in materia di impugnazioni in generale, laddove non espressamente derogate dalle norme relative alle impugnazioni de libertate, secondo questo Collegio, consentirebbe attraverso la conservazione nella medesima ampiezza delle ordinarie facoltà della difesa, un più rassicurante allineamento ai principi convenzionali espressi dall'articolo 6 della Convenzione Edu ed il superamento, come infra meglio chiarito, di eventuali questioni di costituzionalità prospettabili ex artt. 3 e 24 della Costituzione». È incredibile ed emozionante pensare che, talvolta, il senso di tutto sia racchiuso in una sola parola, in questo caso: conservazione. “Come se” si trattasse di un diritto definitivamente aggiudicato, magari proprio perché è un diritto della difesa procedere al deposito anche del ricorso per Cassazione cautelare in applicazione dei principi generali, artt. 582 e 583 c.p.p. complessivamente considerati, in quanto non espressamente derogati. Ciò che nasce – nel codice – non può e non deve essere modificato se non da un intervento di pari rango, rectius: di garantista e tecnicamente perfetta condivisibilità. Non si neghi quel (poco) che è rimasto di obiettivo, liberale, giusto e, dunque, indiscutibile: la procedura (davvero) ristora e lo fa in tutta la sua meravigliosa onestà. Si custodisca, si conservi intatto il diritto di difesa che (v. § 5.1) «potrebbe anche apparire» – personalmente si preferisce dire che appare – «ingiustificatamente compresso, se non del tutto compromesso, dalla imposizione di una modalità procedimentale che, in assenza di apprezzabili ragioni, privi il ricorrente di talune facoltà» – personalmente si preferisce l'espressione “diritto d'alternativa” – «ordinariamente riconosciutegli (quelle di cui ai più volte ricordati artt. 582, comma 2, e 583 cod. proc. pen.) che gli avrebbero reso più agevole il tempestivo esercizio del diritto di cui sopra». Certo che sì! Anche perché, si specifica con gran dose di indispensabile praticità, «a rendere ancor meno agevole il rispetto della prescrizione riguardante il necessario deposito del ricorso per cassazione in materia cautelare presso la Cancelleria del giudice a quo milita la circostanza che la relativa competenza sarebbe (salva la sola eccezionalità del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere) concentrata, quanto alle misure reali, presso i soli Tribunali ubicati in città capoluogo di provincia – catalogo questo che non solo non esaurisce, com'è noto, tutti i Tribunali, essendovi ancora, in ragioni di peculiari esigenze territoriali, taluni Uffici giudiziari di tal tipo in sedi non provinciali, ma taglierebbe fuori tutte le sedi ove è ubicato un ufficio del Giudice di pace – mentre, quanto alle misure cautelari personali, la lista dei possibili giudici a quibus è ristretta ai soli Tribunali che hanno sede nelle 26 città capoluogo di distretto giudiziario, la cui ubicazione nel territorio nazionale non renderebbe sempre agevole l'accesso ad essi anche a quanti dovessero raggiungerli pur dai luoghi ricompresi nel medesimo distretto ed a maggior ragione al di fuori di esso». Ancora, si puntualizza nel § 5.2: «Vi è, altresì, da rilevare la possibile implicazione di una violazione dell'art. 3 della Costituzione, sia sotto il profilo della disparità di trattamento di cui sarebbero vittima coloro i quali intendano impugnare un provvedimento de libertate di fronte alla Corte di cassazione, anche in ipotesi saltando la fase di fronte al riesame, e coloro i quali lo intendano impugnare in sede di riesame od appello cautelare, posto che, in assenza di ragionevoli motivi, solo ai secondi sarebbe consentita la modalità di presentazione del ricorso ai sensi degli artt. 582 e 583 cod. proc. pen., sia sotto quello della intrinseca irragionevolezza di una interpretazione normativa che, senza adeguate ragioni, privi un soggetto di una facoltà, in questo caso connessa al diritto soggettivo processuale di impugnazione, abitualmente riconosciuta a chi si trovi in condizioni analoghe alle sue». Inoltre, «con riferimento al possibile esito cui potrebbero condurre tali dubbi di costituzionalità, appare non estraneo alla economia della presente ordinanza rammentare che, per costante giurisprudenza della Corte costituzionale, un incidente di costituzionalità ha rilievo non in quanto sia possibile attribuire alla disposizione (o alle disposizioni) indubbia/e un significato che contrasti coi principi costituzionali, ma solo in quanto non sia possibile, come non sembra sia questo il caso, dare di essa (o di esse) una interpretazione che sia conforme a tali principi (…)». Vero. Tuttavia, a fronte del recente non licet opposto dalle Sezioni Unite, sembra che l'incidente di legittimità costituzionale sia l'unico modo per riempire il vuoto normativo contenuto negli artt. 311 e 325 c.p.p.; diversamente opinando, la violazione degli artt. 3 Cost. e 6 C.E.D.U. sarebbe lo scontato esito infausto del novum introdotto dal Supremo Consesso. Non solo. Il rimettente si avvia al termine della propria ordinanza, rassegnando conclusioni degne dello stesso pragmatismo degli esordi: «Non ultima fra le criticità che la, al momento prevalente, interpretazione giurisprudenziale presenta attiene alla assai verosimile violazione del principio di affidamento sulle modalità di una determinata applicazione normativa che potrebbero, secondo l'avviso di questo Collegio, essersi andate formando nel ceto forense.Si osserva, infatti, per un verso, che la questione attinente alle modalità di presentazione del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti resi in materia cautelare ha dato luogo, in tempi relativamente recenti, ad un non modesto numero di decisioni (se è consentito il riferimento immediato», eccome se lo è, «- che non vuole avere, evidentemente, alcuna valenza statistica, ma che, tuttavia non appare neppure privo di significato - alla odierna udienza tutti i ricorsi, benché fra loro del tutto autonomi sotto il profilo processuale, soggettivo e territoriale, trattati da questo relatore presentavano la medesima caratteristica di essere stati depositati non presso la Cancelleria del Tribunale del riesame che aveva pronunziato la ordinanza di volta in volta impugnata ma presso un diverso Ufficio giudiziario, così come analoga questione si era proposta alla udienza tenuta da questa Sezione in data 16 aprile 2020 e, in relazione a due altri distinti ricorsi, in quella tenuta in data 30 aprile 2020) fattore questo che fa ritenere l'esistenza di una non isolata prassi forense indirizzata nel senso sopra indicato (che non compete nella presente sede a questo Collegio valutare se distorta o meno) in relazione alla quale parrebbe opportuno l'intervento, nella massima sede nomofilattica, di questa Corte al fine di: o riconoscerne la legittimità ovvero ribadirne definitivamente la natura patologica. Ciò, sia consentito osservare, tanto più vale ove si rifletta sul dato, incontrovertibile, che i casi esaminati da questa Corte sono stati valutati dopo che gli stessi non erano stati segnalati, in sede di esame preliminare ai sensi dell'art. 610 cod. proc. pen., come affetti da una causa di inammissibilità che ne avrebbe potuto giustificare la immediata assegnazione alla apposita Sezione indicata dalla norma sopra citata, pur a fronte della oggettività, ove si segua la giurisprudenza dominante, del motivo di inammissibilità riscontrabile nella modalità e nella tempistica di presentazione dei relativi ricorsi. Elemento questo che induce quanto meno a ritenere non improbabile l'esistenza di un'aliquota di ricorsi omologhi a quello ora in esame che consapevolmente non sono stati ritenuti per tale ragione immediatamente inammissibili, in sede di esame preliminare, con il rischio di, non rilevate, disparità di trattamento di situazioni fra loro identiche, tale da fornire, fra l'altro, nei fatti un possibile alimento alla dianzi ricordata prassi forense». 3.
Il Primo Presidente della Cassazione ha fissato per il 24 settembre 2020 la discussione davanti alle Sezioni Unite della questione controversa: Se il ricorso per cassazione avverso la decisione del tribunale del riesame o, in caso di ricorso immediato, del giudice che ha emesso la misura debba essere presentato esclusivamente presso la cancelleria del tribunale o, comunque, dell'organo giudiziario che ha emesso il provvedimento impugnato ovvero possa essere presentato dal difensore dell'interessato anche presso le cancellerie degli organi giudiziari, o presso l'agente consolare, dei luoghi di cui all'art. 582, comma 2, cod. proc. pen. 4.
Le Sezioni Unite – Presidente Cassano, Relatore Sarno – all'esito dell'udienza tenutasi il 24 settembre 2020 hanno definito la questione controversa nel modo seguente: Il ricorso per cassazione deve essere presentato esclusivamente presso la cancelleria del tribunale del riesame o, in caso di ricorso immediato, nella cancelleria dell'organo giudiziario che ha emesso il provvedimento impugnato, non trovando applicazione gli artt. 582, comma 2, e 583 cod. proc. pen.
E allora… tempus regit actum (?) È la domanda che assilla chiunque si trovi nella situazione indicata dai rimettenti in calce al § 5.2 della ordinanza: ottimi i riferimenti al principio di affidamento della classe forense, molti difensori avendo l'abitudine – data l'agevolazione insita nel favor impugnationis di cui sopra – di depositare il ricorso nel luogo in cui si trovano; assai opportuna la sottolineatura del dato «incontrovertibile che i casi esaminati da questa Corte sono stati valutati dopo che gli stessi non erano stati segnalati, in sede di esame preliminare ai sensi dell'art. 610 cod. proc. pen., come affetti da una causa di inammissibilità (…)». Inammissibilità temuta, odiata, inaspettata da chi ha sempre dato all'art. 311 c.p.p. una interpretazione sistematicamente (costituzionalmente e convenzionalmente) compatibile con quanto scritto e ammesso, sia pure a fatica, in materia di riesame e appello cautelari. Inammissibilità fugata (si spera) dal Bottari anche nel “merito”, il merito della questione e/o la scorretta impostazione del ricorso non essendo stato riproposto e/o non essendo risultata manifesta innanzi a Chi solo di legittimità e solo nei casi tipizzati dal codice di rito si occupa. Inammissibilità ripudiata da chi non può e non deve subirla ora per un deposito [da intendersi sbagliato (ma non si è affatto d'accordo) solo a partire da ora] avvenuto allora, cioè, prima del 24 settembre 2020. Si tratta del principio del tempus regit actum, essenza del diritto processuale penale, talvolta amata e rispettata, talaltra negata e inspiegabilmente violata. Non è un caso che tra le più recenti vi sia una massima della Sezione terza che, coerentemente con sé stessa, del principio in esame fa corretta applicazione. Anzi, perfetta. Ci si riferisce a Cass. pen., Sez. III, 4 marzo 2020, n. 18297, rv. 279238-01, che così si è pronunciata:«È abnorme, in quanto determina una indebita regressione del procedimento, l'ordinanza del giudice dell'udienza preliminare che, investito di richiesta di rinvio a giudizio, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero sull'erroneo presupposto che debba procedersi con citazione diretta a giudizio. (Fattispecie relativa al reato di cui all'art. 4, comma 4-bis, legge 13 dicembre 1989, n. 401, trasformato in delitto punito con pena detentiva superiore nel massimo a quattro anni dal d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modifiche, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, in cui la Corte ha precisato che, essendo stata esercitata l'azione penale dopo l'anzidetto intervento normativo, correttamente il pubblico ministero aveva formulato richiesta di rinvio a giudizio, anziché procedere con decreto di citazione diretta, trovando applicazione il principio tempus regit actum). (Annulla senza rinvio, Giudice udienza preliminare Palermo, 17/10/2019)». Splendido – perché tecnicamente inattaccabile – è quanto argomentato, in particolare, nel § 5: «(…) il principio qui affermato si pone (…) in linea con quanto in altre occasioni osservato e ritenuto da questa Corte interpretando l'art. 4 c.p.p. nel caso di successione di leggi che, modificando il trattamento sanzionatorio, incidano, per un verso, sulle regole processuali (nella specie, quelle sulla competenza per materia) e, per altro verso, sul principio dell'applicabilità della lex mitior: se a quest'ultimo proposito deve trovare applicazione il principio codificato nell'art. 2 c.p., le regole processuali (sulla competenza come sulle modalità di esercizio dell'azione penale e sul rito conseguentemente applicabile) dipendono invece dal principio del tempus regit actum. Con riguardo alla legge con cui era stato modificato il trattamento sanzionatorio del reato di guida in stato d'ebbrezza e si era determinata la competenza per il giudizio in capo al tribunale anziché al giudice di pace, il maggioritario orientamento di questa Corte (contra, Sez. 1, n. 28545 del 16/06/2004, Murtas, Rv. 228854), poi confermato da una pronuncia delle Sezioni unite che aveva definitivamente risolto il contrasto (Cass. pen. Sez. Unite, 17 gennaio 2006, n. 3821, Timofte, Rv. 232592), aveva, appunto, affermato che, in applicazione del principio tempus regit actum che governa la successione nel tempo delle norme processuali, la competenza per materia in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza va determinata sulla base della normativa in vigore al momento in cui il pubblico ministero esercita l'azione penale, non assumendo alcun rilievo, in mancanza di una disciplina transitoria ad hoc, il momento di consumazione del reato (Cass. pen., Sez. I, 6 luglio 2005, n. 26787, Mezzalana, Rv. 231845), ferma restando l'applicazione da parte del giudice competente delle disposizioni sanzionatorie più favorevoli al reo, in considerazione della data di consumazione del reato, ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 3, (Cass. pen., Sez. I, 2 marzo 2005, n. 12148, Norcini, Rv. 231844). Nella motivazione della citata decisione delle Sezioni unite, richiamandosi il principio generale secondo il quale “la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo” (art. 11 preleggi, comma 1), si afferma che «a questa regola non si sottraggono le disposizioni del diritto processuale penale, salvo che il legislatore non abbia previsto apposite norme transitorie, atte a regolare il passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina» (Cass. pen., Sez. Unite, n. 3821/2006, Timofte, in motivazione). Dandosi atto che «la regola suddetta condensata con riferimento alla materia processuale nel brocardo latino tempus regit actum, pur essendo universalmente riconosciuta, è di difficile applicazione quando deve essere riferita a situazioni che non si esauriscono in un determinato momento, ma perdurano nel tempo», la decisione limpidamente afferma che «la legge processuale non contempla i reati e non “dispone” rispetto a questi, ma provvede soltanto per l'avvenire, cioè per tutti i procedimenti e per tutti gli atti processuali da compiersi nel momento in cui entra in vigore, salve le eccezioni stabilite dalla legge medesima. Con la conseguenza che è erroneo parlare di retroattività delle leggi processuali allorquando esse vengono applicate a fatti commessi prima della loro entrata in vigore: tale pretesa retroattività si riferisce infatti ai reati, e cioè a cosa in ordine alla quale la legge processuale non dispone; mentre le norme sono irretroattive rispetto ai procedimenti e agli atti processuali, che costituiscono il vero oggetto delle loro disposizioni» (Cass. pen., Sez. Unite, n. 3821/2006, Timofte, in motivazione). Benché, nel caso esaminato dalla decisione da ultimo citata, la conclusione raggiunta fosse obiettivamente agevolata dal fatto che lo spostamento della competenza dipendeva non soltanto dall'intervenuto inasprimento della pena, recando la nuova legge anche un'espressa attribuzione (il d.l. 27 giugno 2003, n. 151, conv. in l, nel modificare l'art. 186 cod. strada inasprendo la sanzione per chi guida in stato di ebbrezza dispose contestualmente che “per l'irrogazione della pena è competente il tribunale”), reputa il Collegio che gli argomenti più sopra esposti inducano a preferire la tesi secondo cui, per quanto qui interessa, il richiamo quoad poenam ai reati per i quali l'art. 550 c.p.p., comma 1, impone che si proceda con citazione diretta a giudizio vada effettuato in relazione al trattamento sanzionatorio previsto nel momento dell'esercizio dell'azione penale, indipendentemente da quale eventualmente sarà – peraltro, soltanto all'esito del giudizio e soltanto laddove lo stesso dovesse concludersi nel senso dell'affermazione di penale responsabilità – l'individuazione del trattamento sanzionatorio applicabile in base alla lex mitior». La precisione e la fluidità di siffatte argomentazioni sono innegabili. Di analoga portata è l'arresto siglato da Cass. pen., Sez. VI, 14 gennaio 2020, n. 14433, rv. 278848-01: «In tema di giudizio di rinvio, sussiste l'obbligo del giudice di uniformarsi al principio di diritto enunciato con la sentenza di annullamento anche se questo, successivamente, risulti contrario al diverso principio affermato dalle Sezioni Unite in analoga fattispecie, salvo restando che il mutamento giurisprudenziale integra un “nuovo elemento” di diritto, idoneo a legittimare la riproposizione di richiesta di revoca o modifica della misura cautelare personale non più suscettibile di gravame. (In motivazione, la Corte ha precisato che il regime di stabilità delle sentenze delle Sezioni Unite, conseguente alla novella dell'art. 618 c.p.p., non consente di assimilare il mutamento giurisprudenziale alla successione di leggi processuali nel tempo applicabili anche nel giudizio di rinvio disposto a seguito di annullamento, in base al principio tempus regit actum). (Rigetta, Trib. Libertà Palermo, 26/08/2019)». Non è un caso che pure con riferimento alla fase esecutiva si registrino pronunce favorevoli. Per Cass. pen., Sez. I, 11 dicembre 2019 (dep. 2 aprile 2020), n. 11202, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, Massima redazionale, 2020, «In tema di ordini di carcerazione, e di provvedimenti di sospensione emessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 (la c.d. "Spazza-corrotti"), qualora il provvedimento di sospensione dell'esecuzione della pena è precedente, vige la normativa di favore, per il principio del tempus regit actum, a nulla rilevando la sopravvenienza di una nuova normativa (e, per di più, sfavorevole)». Ancora, per la coeva Cass. pen., Sez. I, 11 dicembre 2019, n. 11203,«In tema di esecuzione penale, la vigenza sopravvenuta, anche se in un momento che precede la decisione del Tribunale di Sorveglianza sulla richiesta del condannato di misura alternativa alla detenzione, di una disciplina “peggiorativa” non può determinare la perdita di efficacia dei provvedimenti emessi nel vigore della disciplina più favorevole, proprio in ragione del generale principio per cui tempus regit actum» [Conformi, Cass. pen., Sez. I, 20 settembre 2019, n. 48499, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord c. V.U., Quot. giur., 2020 e Cass. pen., Sez. VI, 14 febbraio 2019, n. 10260, rv. 275201-01]. Infine, Cass. pen., Sez. Unite, 31 marzo 2011, n. 27919, P.M. e Ambrogio, Giur. It., 2012, 5, ha statuito: «In assenza di una disposizione transitoria, l'ampliamento del catalogo dei reati per i quali vale una presunzione legale assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere non può essere in sé causa di modifica delle misure cautelari in corso di esecuzione nel momento di entrata in vigore della novella». Sostanziale e processuale si fondono in un sapiente meccanismo di (giusto) favore per il cautelato. Purtroppo però, se si volge lo sguardo altrove, molta della luce che la Sezione terza ha irradiato rischia di essere – oggi più che mai – tremendamente oscurata. Per esempio – non pochi sono gli arresti di simile tenore – Cass. pen., Sez. VI, 25 febbraio 2020, n. 14051, rv. 278843-01, ha stabilito quanto segue: «Il principio tempus regit actum si applica solo alla successione nel tempo delle leggi processuali e non anche al mutamento dell'interpretazione giurisprudenziale di queste ultime, sicché qualora si succedano, in sede di legittimità, interpretazioni difformi di norme processuali, il provvedimento assunto nell'osservanza di un orientamento in seguito non più condiviso non può considerarsi legittimo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio l'ordinanza del tribunale del riesame che aveva ritenuto l'utilizzabilità delle intercettazioni, recependo l'interpretazione successivamente non condivisa da Sez. U., n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, Cavallo). (Annulla con rinvio, Trib. Libertà Napoli, 26/11/2019)». Identico approdo si segnala riguardo a Cass. pen., Sez. II, 16 ottobre 2019 (dep. 4 novembre 2019), n. 44678, rv. 278000-01:«Il principio tempus regit actum riguarda solo la successione nel tempo delle leggi processuali e non anche delle interpretazioni giurisprudenziali di queste ultime, sicché qualora si succedano, in sede di legittimità, interpretazioni difformi di norme processuali, il provvedimento assunto nell'osservanza di un orientamento in seguito non più condiviso non può considerarsi legittimo. (Annulla senza rinvio, Corte Appello Genova, 06/07/2018)» [Conformi Cass. pen., Sez. VI, 26 maggio 2008, n. 29684, rv. 240455 e Cass. pen., Sez. II, 6 maggio 2010, n. 19716, rv. 247114]. Preme ricordare quanto steso nel § 3.1 di quest'ultima: «Si afferma nella decisione impugnata - come più volte evidenziato - che gli effetti della sentenza a sezioni unite devono ritenersi assimilabili a quelli di un intervento legislativo che, ratione materiae, sono destinati ad operare per il futuro». Esattamente. Sennonché, la Sezione seconda ha rilevato quanto segue: «Non si ignora che l'assimilazione del fenomeno della successione nel tempo di orientamenti giurisprudenziali diversi a quello della successione di leggi diverse trova espressione in sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che hanno esteso il principio della irretroattività anche all'interpretazione giurisprudenziale, quando il suo mutamento non fosse ragionevolmente prevedibile. Si è cioè ritenuto che la sopravvenuta interpretazione estensiva della norma incriminatrice, tale da far rientrare nell'ambito di applicazione della stessa fatti e comportamenti che ne venivano in precedenza esclusi, sia fenomeno assimilabile a quello dell'introduzione di una nuova norma incriminatrice e comporti pertanto, in forza del principio dell'irretroattività della legge penale, l'inapplicabilità della nuova interpretazione ai fatti pregressi. Il discorso riguarda tuttavia norme di diritto sostanziale e non - come nel caso di specie - norme di diritto processuale». Sarà. Ed è proprio il caso di esprimersi in questi termini… temporali. Si deve comunque ammettere, per onestà intellettuale, la… sostanziale conferma che promana dal celebre caso Scoppola, in cui la Corte di Strasburgo si era così pronunciata: «L'art. 7 della Convenzione, consacrando il principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale, incorpora anche il corollario del diritto dell'accusato al trattamento penale più lieve. Si tratta di un principio fondamentale del diritto penale riconosciuto pacificamente a livello europeo (inteso anche come diritto dell'Unione). L'applicazione di una norma successiva sfavorevole determina pertanto una violazione della Convenzione. Nel caso di specie la Corte ha ritenuto che l'art. 442 del codice di rito che disciplina il rito abbreviato è norma soggetta al principio della irretroattività a danno dell'imputato. Costituisce, pertanto, violazione dei principi dell'equo processo, sanciti dall'art. 6 della Convenzione, la privazione di un effetto premiale, fondata sull'intervento legislativo successivo volto ad eliminare tale vantaggio, specie se non accompagnato dal ripristino delle garanzie processuali attenuate in virtù della scelta del rito stesso» (Corte E.d.u., Grande Camera, 17 settembre 2009, Foro It., 2010, 5, 4, 229). Ciò in quanto «Una norma processuale che disciplini la severità della pena da infliggere in caso di condanna è una norma di diritto penale materiale, coperta dalle garanzie di cui all'art. 7, par. 1, CEDU». Incontestabile. La commistione emerge anche in tal caso e la natura ibrida, rectius: sostanzialmente penale della norma processuale è stata valorizzata da Cass. pen., Sez. Unite, 17 luglio 2014 (dep. 28 ottobre 2014), n. 44895, rv. 260927. Ché, poi, non sfuggirà di certo l'interessante arrêt – sia pure non in materia penale – di Corte Edu, Sez. II, 24 giugno 2014, n. 48357/07, Azienda Agricola Silverfunghi Sas e altri c. Italia, Giornale Dir. Amm., 2014, 10, 954 : «È incompatibile con il diritto a un processo equo l'introduzione di una legge retroattiva, anche se di interpretazione autentica, avente l'effetto di influire sulla definizione dei giudizi in corso, salvo che non sia giustificata da inderogabili motivi di interesse pubblico». Lascia perplessi (a dir poco) un tale assunto e quasi fa sorridere (ma amaramente) l'idea che la interpretazione giurisprudenziale, quella nomofilachia (o nomopoiesi?) che l'ordinamento giudiziario esalta ed eleva agli onori degli altari del “diritto vivente” possa spiegare una indebita, illegittima, gravissima e dunque inaccettabile efficacia retroattiva in malam partem. Spaventa il pensiero di tornare indietro nel... futuro, perché – la tentazione è irresistibile – se Oltralpe le Sezioni Unite sono state considerate vero e proprio spartiacque tra la Contrada del lecito e quella dell'illecito penale, quasi certamente Oltralpe ci si dovrà recare per ottenere il riconoscimento della istantanea processuale: essa ha il dono di fotografare e immortalare l'atto compiuto in quel preciso, unico, irripetibile e immodificabile frame. Ciò che ne è l'effigie non potrà subire variazioni, la certezza della sua identità – scritta o (da taluno solo) contemplata nei suoi nitidi contorni e per prassi (assai sovente) acclarata – integrando un “diritto acquisito”. Il dato statistico, quasi timidamente evidenziato nella ordinanza di rimessione, rivela più che mai la dirompente (e non cieca) speranza di chi nell'ultimo atto processuale scorge l'ultimo atto della propria scena cautelare. Una scena messa su nella giusta dimensione spazio-temporale che il Supremo spettatore è invitato a osservare e giudicare (non deviare). Sì perché, come ha ben scritto David Blanco Laserna, «Lo spazio è una questione di tempo». Davvero. |