Bancarotta. La natura della dichiarazione di fallimento ancora al centro del dibattito giurisprudenziale
05 Ottobre 2018
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L'individuazione della natura giuridica e del ruolo che la dichiarazione di fallimento assume nell'ambito dei reati di bancarotta prefallimentare è ancora oggetto di contrasto in giurisprudenza. Abbandonata rapidamente l'isolata tesi secondo cui tale provvedimento giudiziale assumeva il ruolo di evento del reato, la Cassazione oggi divisa fra il ribadire la assai risalente tesi che vede nella dichiarazione di fallimento un elemento costitutivo sui generis dell'illecito di bancarotta e la posizione, che trova conforto in dottrina, che qualifica la predetta sentenza come condizione obiettiva di punibilità dell'illecito.
Il tema connesso alla natura e al ruolo che va attribuito alla sentenza dichiarativa di fallimento nell'ambito dei delitti di bancarotta è stato per lungo tempo “sopito” nella giurisprudenza. In tempi lontani, infatti, la Cassazione aveva definito la pronuncia dichiarativa dello stato di insolvenza dell'impresa – e più generale qualsivoglia provvedimento che apriva la procedura concorsuale nei confronti della società o dell'imprenditore individuale – quale elemento costitutivo del reato quale condizione di esistenza del reato o elemento costitutivo dello stesso, con la rilevante particolarità – che differenziava la sentenza di fallimento rispetto a quanto di regola è dato riscontrarsi per gli elementi costitutivi dell'illecito – che tale provvedimento giudiziale non doveva essere oggetto di consapevolezza e volontà da parte del soggetto agente (Cass. pen., Sez. unite, 25 gennaio 1958, Mezzo). Secondo le Sezioni unite, «la dichiarazione di fallimento, rispetto ai fatti di bancarotta che siano anteriori alla sua pronuncia, costituisce una condizione di esistenza del reato, oltre a determinare la punibilità. Pertanto si differenzia concettualmente dalla condizione obiettiva di punibilità, perché mentre queste presuppongono un reato già perfetto oggettivamente e soggettivamente, essa inerisce, invece, così intimamente alla struttura del reato da qualificare quei fatti, i quali, come fatti di bancarotta sarebbero penalmente irrilevanti fuori del fallimento. Segnando la dichiarazione di fallimento il momento consumativo del reato di bancarotta, e cioè il momento in cui si realizza la fattispecie penale, ne discende, che ove essa sia successiva alla data di applicazione di un decreto di amnistia, detto beneficio è inoperante per il reato di bancarotta semplice, non potendosi ritenere estinto per amnistia un reato che non esista nel momento in cui questa è intervenuta». Del tutto chiaramente, quindi, detta pronuncia aveva attratto la sentenza dichiarativa di fallimento nell'area degli elementi costitutivi del reato di bancarotta, pur attribuendo a essa rilievo determinante ai fini della punibilità della fattispecie, benché non in quanto elemento estraneo alla struttura del reato ma proprio in quanto elemento qualificante i fatti; proprio in ciò, quindi, la sentenza dichiarativa di fallimento si differenziava, secondo le Sezioni unite Mezzo, dalla condizione obiettiva di punibilità, la cui nozione si colloca a valle di un reato strutturalmente completo in tutte le sue componenti, mentre «la condizione obiettiva di punibilità, quali che siano le incertezze in ordine alla esatta nozione della stessa, risponde alla caratteristica di non fare parte dell'insieme degli elementi necessari per la esistenza del reato, questo inteso come fatto lesivo di un interesse penalmente protetto». Tale tesi, fortemente contrastata in dottrina, quanto meno con riferimento al ruolo che la dichiarazione di insolvenza assume nell'ambito della bancarotta fraudolenta prefallimentare (PEDRAZZI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi persone diverse dal fallito, in Commentario Scialoja - Branca della legge fallimentare, a cura di Bricola – Galgano - Santini, Bologna - Roma 1995, 25; SANTORIELLO, I reati di bancarotta, Torino, 2000, 80; COCCO, Il ruolo delle procedure concorsuali e l'evento dannoso nel reato di bancarotta, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2014, 67; CONTI, Fallimento (reati in materia di), in Dig. Disc. Pen., vol. V, Torino 1991, 12), non era di fatto mai stata abbandonata dalla Corte di cassazione, la quale ha continuato a sostenere che il reato di cui all'art. 216, comma 1 n. 1, r.d. 267/1942 si perfeziona in tutti i suoi elementi costitutivi solo nel caso in cui il soggetto, che abbia commesso anche in precedenza attività di sottrazione dei beni aziendali, sia dichiarato fallito (Cass pen.., Sez. V, 14 ottobre 2014, n. 48739, Grillo Luigi; Cass. pen., Sez. V, 19 marzo 2014, n. 26548, Nauner). Questo orientamento assolutamente consolidato e indiscusso è stato però posto in discussione dalla decisione Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012, n. 47502, Corvetta, decisione in cui i giudici di legittimità affermarono (contrariamente alla giurisprudenza precedente secondo cui, come si è detto, la sentenza di fallimento non doveva essere oggetto di consapevolezza e volontà da parte del soggetto agente) la necessità di rinvenire un nesso psicologico e oggettivo fra le condotte dell'imprenditore e lo stato di dissesto dell'impresa, non potendosi punire condotte dissipative dei beni aziendali che non ne avessero causalmente cagionato o concorso a cagionare la crisi economica. In particolare, secondo la prospettazione accolta dalla Suprema Corte nella decisione in parola, i delitti di bancarotta – ed in specie la bancarotta patrimoniale – si perfezionerebbero non con il semplice verificarsi di un potenziale pregiudizio del ceto creditorio ma esclusivamente in presenza di una effettiva lesione dei diritti di credito e poiché tale lesione si determina e si realizza solo con la dichiarazione di fallimento, le scelte dell'imprenditore aventi ad oggetto la gestione dei propri beni sarebbero penalmente rilevanti solo nella misura in cui abbiano avuto un'incidenza almeno concausale rispetto all'insolvenza e quindi alla dichiarazione di fallimento che la accerta. Queste affermazioni son però rimaste assolutamente isolate (numerose sono le perplessità espresse nei confronti della decisione: ZANCHETTI, Incostituzionali le nuove fattispecie di bancarotta?, cit., 141; GIULIANI BALESTRINO, Un mutamento epocale nella giurisprudenza relativa alla bancarotta prefallimentare, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2013, 157; SANDRELLI, Note critiche sulla necessità di un rapporto di causalità fra lla condotta di distrazione e lo stato di insolvenza nel delitto di bancarotta “propria”, in Cass. Pen., 2013, 1429; VIGANO', Bancarotta fraudolenta: confermato l'orientamento tradizionale sull'irrilevanza del causale fra condotta e fallimento, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, D'ALESSANDRO, Reati di bancarotta e ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento: la Suprema Corte avvia una revisione critica delle posizioni tradizionali, ivi.In senso favorevole invece LANZI, La Cassazione “razionalizza” la tesi del fallimento come evento del reato di bancarotta, in Ind. Pen., 2014, 117; TROYER – INGRASSIA, Il dissesto come evento della bancarotta fraudolenta per distrazione: rara avis o evoluzione della (fatti)specie, in Soc., 2013, 335; COCCO, Il ruolo delle procedure concorsuali e l'evento dannoso, cit., 67; BALATTO, Sentenze Parmalat vs. Corvetta: il dilemma della struttura della bancarotta fraudolenta, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.) e la giurisprudenza è prontamente ritornata a ribadire l'orientamento consolidato secondo cui «ad integrare il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione non si richiede l'esistenza di un nesso causale fra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento» (Cass. pen., Sez. V, 18 settembre 2014, n. 38325, Ferro; Cass. pen., sez. V, 18 novembre 2014, n. 47616, Simone; più di recente, Cass. pen., Sez. V, 4 novembre 2016, n. 6904, Gandolfi, e Cass. pen., Sez. V, 8 febbraio 2017, n. 13910, Santoro, entrambe inedite, nonché Cass. pen., Sez. unite, 31 marzo 2016, n. 22474, Passarelli, secondo cui «ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l'esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione e il successivo fallimento, essendo sufficiente che l'agente abbia cagionato il depauperamento dell'impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività». Unica adesione all'orientamento della decisione Corvetta è stato espresso da Cass. pen., Sez. V, 12 febbraio 2013, n. 27993, Di Grandi. Fra le ragioni che hanno determinato il rigetto della posizione ora esposta si richiama l'incongruità di subordinare la punibilità dell'imprenditore alla circostanza che egli non solo si rappresenti la possibilità di fallire ma voglia anche pervenire a tale esito: come correttamente sottolineato da un autore, «l'imprenditore – nella grande maggioranza dei casi – non vuole fallire» per cui a seguire la posizione giurisprudenziale sopra esaminata diventerebbero non punibili moltissimi fatti di bancarotta e verrebbe «posto a carico dell'accusa l'onere di una prova quasi sempre diabolica» (GIULIANI BALESTRINO, Un mutamento epocale, cit., 166. Nello stesso senso, PANTANELLA, La Corte di cassazione e la damnatio memoriae della "sentenza Corvetta" in tema di bancarotta fraudolenta propria e nesso di causalità, in Cass. Pen., 2015, 3720). Del pari, la posizione assunta con la sentenza Corvetta rischia di mandare esenti da pena comportamenti che sicuramente realizzano un depauperamento del patrimonio aziendale ma che al contempo non possono qualificarsi come causativi del dissesto dell'impresa; si pensi ad esempio a fatti di bancarotta che si verificano quando il fallimento è ormai sicuro, certo e inevitabile, i quali non assumerebbero rilievo penale in quanto il fallimento era ormai prossimo e quindi l'ultima distrazione non ha determinato l'insolvenza ormai già in atto. Inoltre, la sentenza Corvetta, nel qualificare la dichiarazione di fallimento quale evento del reato di bancarotta – e quindi pretendere che lo stesso sia causalmente ricollegato al fatto di distrazione patrimoniale – partiva da un'erronea valutazione della condotta dell'imprenditore che dispone nel suo esclusivo interesse ed a danno dei creditori dei beni aziendali: tali condotte, infatti, ben lungi dall'essere – come sostenuto nella decisione Corvetta - lecite e quanto espressive delle facoltà connesse al diritto di proprietà di cui è titolare, determinano in maniera illecita una diminuzione della garanzia per i creditori dando così corso ad un evento pregiudizievole per i terzi prima e indipendentemente dalla declaratoria fallimentare, come peraltro dimostra la presenza nell'ordinamento di molteplici rimedi – si pensi alle azioni revocatoria o surrogatoria o alla segnalazione al pubblico ministero ai sensi dell'art. 238, comma 2, r.d. 267/1942 – cui il creditore può far ricorso quando si avveda che il debitore sta ponendo in essere atti dannosi per la consistenza della sua garanzia (Cass. pen., Sez. unite, 31 marzo 2016, n. 22474, Passarelli). Rigettata la tesi secondo cui la sentenza di fallimento rappresenterebbe l'evento del reato di bancarotta – con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di nesso causale fra condotta distrattiva ed insolenza ed in tema di necessaria volontà di cagionare la crisi economica dell'impresa – per la giurisprudenza si aprivano due strade ovvero ritornare alla precedente impostazione secondo cui, si ricorda, la pronuncia giudiziale di insolvenza è una condizione costitutiva del reato ma assolutamente sui generisoppure finalmente aderire alla tesi di origine dottrinale secondo cui la pronuncia giurisdizionale è una condizione obiettiva di punibilità dell'illecito di cui all'art. 216 r.d. 267/1942.
Ad oggi, entrambe queste possibilità sono percorse dalla Corte di cassazione. Un primo orientamento, infatti, dopo aver sconfessato la tesi presente nella sentenza Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012, n. 47502, Corvetta, ha affermato che la dichiarazione di fallimento, ponendosi come evento estraneo all'offesa tipica e alla sfera di volizione dell'agente, costituisce condizione obiettiva di punibilità, che circoscrive l'area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali alle condotte del debitore - di per sé offensive degli interessi dei creditori in quanto espongono a pericolo la garanzia di soddisfacimento delle loro ragioni - segue la dichiarazione di fallimento (Cass. pen., Sez. V, 12 ottobre 2017, n. 53184, Fontana; Cass. pen., Sez. V, 6 ottobre 2017, n. 4400, Cragnotti; Cass. pen., Sez. V, 8 febbraio 2017, n. 13910, Santoro). Secondo questa impostazione, «l'imprenditore non è il dominus assoluto e incontrollato del patrimonio aziendale; egli non ha una sorta di jus utenti ed abutendi sui beni aziendali, i quali, viceversa, pur essendo strumentali al legittimo obiettivo del raggiungimento del profitto dell'imprenditore medesimo, sono finalisticamente vincolati, per così dire, “in negativo”, nel senso che degli stessi non può farsi un utilizzo che leda o metta in pericolo gli interessi costituzionalmente tutelati». Ecco perché non è affatto necessario che il comportamento dissipativo del patrimonio aziendale presenti un'articolazione causale rispetto all'evento fallimento realizzandosi «l'offesa agli interessi patrimoniali dei creditori già con l'atto depauperativo … [e] la dichiarazione di fallimento non aggrava in alcun modo l'offesa che i creditori soffrono per effetto delle condotte dell'imprenditore …. [ma] precludendo all'imprenditore ogni margine di autonoma risoluzione della crisi rende semplicemente applicabile (perché ritenuta necessaria dal legislatore) la sanzione penale» (Cass. pen., Sez. V, 8 febbraio 2017, n. 13910, Santoro). In altre decisioni, invece, si è ribadita la tesi della dichiarazione di fallimento quale elemento costitutivo del reato, ribadendone tuttavia la particolare connotazione trattandosi di un elemento costitutivo che non deve essere né conosciuto o voluto dall'imprenditore insolvente né in qualche modo legato da un nesso di causalità rispetto alle attività distrattive posta in essere dall'amministratore societario (Cass. pen., Sez. V, 18 maggio 2018, n. 40477, Alampi). In tali decisioni, si sostiene che la nozione di condizione obiettiva di punibilità risulta del tutto sfuggente, il che ha consentito il proliferare, in dottrina, di contrastanti punti di vista, direttamente proporzionali all'elasticità del concetto, attraendo la categoria della condizione obiettiva di punibilità nell'alveo degli elementi funzionali all'integrazione del reato, mentre l'art. 44 c.p. si riferisce alla punibilità del reato, per cui appare – a detta di tale orientamento – più coerente con il dettato normativo ritenere che la condizione obiettiva di punibilità sia richiesta al fine di rendere applicabile la pena, a fronte di un reato ontologicamente sussistente e perfetto nei suoi elementi essenziali. Ne discende che per detta ragione si ritiene di non condividere l'orientamento secondo cui la sentenza dichiarativa di fallimento sia una condizione obiettiva di punibilità, proprio in quanto il reato fallimentare, in assenza della sentenza dichiarativa di fallimento, non può essere considerato ontologicamente integrato in tutte le sue componenti essenziali. Si noti tuttavia che dalla differente qualificazione nell'individuazione della natura della sentenza dichiarativa di fallimento non discendono particolari conseguenze pratiche, giacché, quale sia la posizione che si sceglie di assumere, è pacifico che il reato di bancarotta fraudolenta deve intendersi perfezionato – con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di prescrizione e di applicazione di eventuali provvedimenti di amnistia e indulto – sempre e solo nel momento in cui la dichiarazione di insolvenza viene emessa dall'organo giurisdizionale (Cass. pen., Sez. V, 22 marzo 1999, n. 7814, Di Maio; Cass. pen., Sez. V, 8 febbraio 2017, n. 13910, Santoro). |