La prova del reato di omesso versamento delle ritenute operate dal sostituto di imposta commesso ante d.lgs. 158/2015

11 Luglio 2018

Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione sono chiamate a comporre il contrasto interpretativo sulla possibilità di provare la sussistenza del reato di omesso versamento delle ritenute certificate di cui all'art. 10-bis, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 ...
1.

Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione sono chiamate a comporre il contrasto interpretativo sulla possibilità di provare la sussistenza del reato di omesso versamento delle ritenute certificate di cui all'art. 10-bis, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, commesso in epoca antecedente alle modifiche introdotte dall'art. 7, comma 1, lett. b), d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, in base alla sola dichiarazione di sostituto di imposta.

L'omesso versamento delle ritenute d'acconto operate dal sostituto di imposta era penalmente sanzionato dall'art. 2, commi 2 e 3, d.l. 429 del 1982, convertito, con modificazioni, dalla legge 516 del 1982 (nota come “manette agli evasori”).

In particolare, il comma 2 così recitava: «È punito con l'arresto fino a tre anni o con l'ammenda fino a lire sei milioni chiunque, in qualità di sostituto d'imposta, al di fuori del caso di cui al comma 3, non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale ritenute alle quali è obbligato per legge relativamente a somme pagate, per un ammontare complessivo per ciascun periodo d'imposta superiore a lire cinquanta milioni. Non si tiene conto delle ritenute non versate che, in relazione al singolo percipiente, risultano inferiori al 5 per cento delle ritenute ad esso relative».

Il comma 3 recitava: «Chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare complessivo superiore a lire venticinque milioni per ciascun periodo d'imposta, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire tre milioni a lire cinque milioni; se il predetto ammontare complessivo è superiore a dieci milioni di lire ma non a venticinque milioni di lire per ciascun periodo d'imposta si applica la pena dell'arresto fino a tre anni o dell'ammenda fino a lire sei milioni».

Si trattava di una figura di reato del tutto nuova che la giurisprudenza di legittimità si era affrettata a distinguere dall'appropriazione indebita di cui all'art. 646 c.p., con cui non condivideva gli aspetti strutturali e con la quale non concorreva né materialmente, né formalmente. Il sostituto di imposta, si affermava, è debitore in proprio e non meramente responsabile per un debito altrui. In quanto tale egli è direttamente e personalmente obbligato verso lo Stato per le somme dovute dai lavoratori dipendenti a titolo di imposta sul reddito delle persone fisiche e da lui ritenute sulla retribuzione, sulle quali non può configurarsi una titolarità attiva del lavoratore (Cass. pen., Sez. II, 26 maggio 1983, n. 8221; cfr., altresì, Cass. civ., Sez. unite, 27 aprile 1983, n. 2889).

Benché oggetto materiale dell'omissione fossero in entrambi i casi le somme dovute all'Erario, le due figure di reato si diversificavano per il presupposto della condotta: se la ritenuta non versata era certificata erano integrati gli estremi del delitto, ricorrendo in tal caso il limite minimo dei venticinque milioni; se la ritenuta non versata non era certificata ricorrevano gli estremi del meno grave reato di cui al comma secondo dell'art. 2 cit., indipendentemente dal fatto che il sostituto avesse o meno effettivamente operato la ritenuta (così Cass. pen., Sez. III, 24 febbraio 1998, n. 4846).

L'art. 2 è stato abrogato, insieme con l'intero Titolo I del d.l. 429 del 1982, dall'art. 25,d.lgs. 74 del 2000, decreto legislativo che, in attuazione della delega conferita con legge 205 del 1999 (art. 9), ha introdotto una nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto espressamente caratterizzata dalla rilevante offensività per gli interessi dell'erario e dal fine di evasione o di conseguimento di indebiti rimborsi di imposta delle sole condotte aventi a oggetto:

  1. le dichiarazioni annuali fraudolente fondate su documentazione falsa ovvero su altri artifici idonei a fornire una falsa rappresentazione contabile;
  2. l'emissione di documenti falsi diretti a consentire a terzi la realizzazione dei fatti indicati nel numero 1);
  3. l'omessa presentazione delle dichiarazioni annuali e le dichiarazioni annuali infedeli;
  4. la sottrazione al pagamento o alla riscossione coattiva delle imposte mediante compimento di atti fraudolenti sui propri beni o altre condotte fraudolente;
  5. l'occultamento o la distruzione di documenti contabili.

L'omesso versamento delle ritenute non era più previsto dalla legge come reato ma costituiva condotta sanzionata esclusivamente a livello amministrativo dall'art. 13 d.lgs. 471 del 1997, sanzionata a prescindere dal fatto che le ritenute non versate fossero o meno oggetto di corrispondente certificazione. All'indomani dell'abrogazione dell'art. 2 d.l. 429 del 1982, la giurisprudenza di legittimità, “rispolverando” il vecchio insegnamento, aveva ribadito che l'omesso versamento di ritenute operate alla fonte sui redditi da lavoro dipendente non può trovare inquadramento e sanzione nell'art. 646 c.p., sulla base di un preteso concorso apparente di norme preesistenti regolato in precedenza dal criterio della prevalenza della disposizione speciale, atteso che in tale condotta difetta il requisito dell'altruità della cosa che costituisce elemento integrativo dell'ipotesi delittuosa codicistica (Cass. pen., Sez. III, 5 ottobre 2001, n. 39178).

L'omesso versamento delle ritenute d'imposta è stato nuovamente “elevato” a fatto-reato dall'art. 1, comma 414, legge 30 dicembre 2004, n. 311, che ha introdotto nel d.lgs. 74 del 2000 l'art. 10-bis che così recitava: «È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d'imposta».

Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge, il Governo aveva spiegato le ragioni della reintroduzione del reato in questo modo: «È prevista una nuova disposizione che reintroduce la fattispecie di reato di omesso versamento di ritenute operate e certificate già prevista dal decreto legge 429 del 1982 e successive modificazioni. La constatata frequenza del fenomeno ed il danno che da tali comportamenti deriva all'erario, rendono necessario assicurare tutela penale all'interesse protetto della corretta e puntuale percezione dei tributi, ancor di più quando il comportamento dell'omesso versamento è posto in essere da soggetti quali i sostituti d'imposta che trattengono per riversare all'erario tributi di altri soggetti che con essi hanno rapporti: i sostituiti. La fattispecie si configura, in armonia con le previsioni del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, quale delitto sanzionato con la pena della reclusione da sei mesi a due anni».

Appare chiaro (ma tale argomento è stato sempre trascurato dalla giurisprudenza di legittimità) che della “vecchia” norma incriminatrice il Legislatore aveva “riesumato” la sola fattispecie delittuosa prevista dal comma 3 dell'art. 2, d.l. 429/1982, cit., e ciò non tanto per colmare un vuoto normativo in realtà inesistente (come visto, la condotta omissiva costituiva – e costituisce tutt'ora – illecito amministrativo), quanto per rafforzare, con la minaccia della pena detentiva, un precetto presidiato dalla sola sanzione amministrativa pecuniaria, evidentemente incapace di contrastare il fenomeno evasivo soprattutto nei casi in cui, in considerazione degli importi da versare e delle modalità della condotta, gli interessi finanziari dell'Erario erano esposti al rischio di danni maggiori. Tali danni, infatti, sono suscettibili di aggravamento in caso di omesso versamento di somme certificate perché, in questi casi, il debitore sostituito documenta l'adempimento della propria obbligazione tributaria mediante la produzione del certificato (il Cud) che può sostituire in tutto e per tutto la stessa dichiarazione dei redditi ovvero integrarla (se il contribuente percepisce anche redditi non soggetti a ritenuta alla fonte).

Dunque, secondo la chiara lettera della norma, ai fini della integrazione del “nuovo” delitto, era necessario che le ritenute operate e non versate risultassero dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti. Di conseguenza, ai fini dell'affermazione della penale responsabilità dell'autore del fatto era necessario dimostrare che: a) il sostituto avesse effettivamente erogato le retribuzioni o i compensi; b) le ritenute operate dovessero risultare dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti; c) alla scadenza del termine previsto il sostituto non avesse adempiuto all'obbligo di versare tali somme.

La faccenda si è complicata allorquando secondo alcune iniziali pronunce della Suprema Corte la prova del rilascio delle certificazioni poteva essere desunta anche dal contenuto della dichiarazione presentata dal sostituto di imposta. Il “solco” è stato lentamente scavato dall'azione coordinata di due principi ricavabili dagli artt. 187, 188, 192, 193, 546, c.p.p.: a) quello della libertà della prova nel processo penale; b) quello del libero convincimento del giudice penale. Si è così affermato che l'avvenuto rilascio della certificazione attestante l'ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle trattenute operate ai sostituiti nell'anno precedente, poteva essere dimostrato dal pubblico ministero anche mediante prove documentali, testimoniali o indiziarie (Cass. pen., Sez. III, 15 novembre 2012, n. 1443; Cass. pen., Sez. III, 12 giugno 2013, n. 33187; Cass. pen., Sez. III, 6 marzo 2014, n. 20778). Da qui a ritenere sufficiente la mera allegazione del c.d. mod. 770 proveniente dallo stesso datore di lavoro il passo è stato breve (Cass. pen., Sez. III, 27 marzo 2014, n. 19454; Cass. pen., Sez. III, 3 maggio 2014, n. 27479; Cass. pen., Sez. III, n. 1443/2012, cit.).

Questo il ragionamento seguito dalla sentenza “capostipite” di tale indirizzo:

  1. l'art. 10-bis, d.lgs. 74 del 2000, è stato inserito per colmare un vuoto normativo (in realtà inesistente, come visto);
  2. pur costituendo una nuova fattispecie criminosa introdotta (rectius, reintrodotta) senza alcuna continuità normativa con le disposizioni previgenti, tale norma operava indubitabilmente sullo stesso piano di quella abrogata (d.l. 429 del 1982, art. 2, comma 2, conv. in l. 516 del 1982)che sanzionava "chiunque non versa all'erario le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto o di imposta, sulle somme pagate” (in realtà la norma reintrodotta era quella contemplata dal terzo comma);
  3. sulla stessa falsariga si muoveva anche il d.l. 12 settembre 1983, n. 463, conv. in l. 638 del 1983 che prevedeva ugualmente la sanzione penale per l'omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti;
  4. con sentenza n. 27641 del 2003, le Sezioni unite affermarono il principio che non fosse configurabile il reato di cui alla l. 638 del 1983, art. 2, comma 1 senza il materiale esborso delle somme dovute al dipendente;
  5. il Legislatore, nel reintrodurre la sanzione penale di cui all'art. 10-bis, non poteva non tener conto della formulazione della norma di cui alla l. 516 del 1982, art. 2, nonché dei contrasti e delle incertezze relative alla necessità dell'effettivo esborso delle somme dovute al lavoratore dipendente, sicché, nel riformulare la norma sanzionatoria, ha inteso esplicitare in modo assolutamente chiaro che la sanzione penale trova applicazione soltanto sulle ritenute effettivamente operate sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti;
  6. di qui il riferimento esplicito alle "certificazioni rilasciate ai sostituiti" in luogo della più generica formula contenuta nel d.l. 429 del 1982, art.2 conv. in l. 516 del 1982 («le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto o di imposta, sulle somme pagate […]») (in realtà, come detto, altra era la norma “riesumata”);
  7. se dunque la norma di cui al d.lgs. 74 del 2000, art. 10-bis si propone di sanzionare l'omesso versamento, nel termine previsto, delle ritenute operate dal datore di lavoro, quale sostituto di imposta, sulle retribuzioni effettivamente corrisposte ai sostituiti, non vi è ragione per ritenere che la prova di ciò debba ricavarsi solo dalle "certificazioni" senza possibilità di ricorrere ad “equipollenti”;
  8. l'onere della prova delle certificazioni attestanti le ritenute operate, trattandosi di elemento costitutivo del reato, grava, senza dubbio alcuno, sulla pubblica accusa, anche se può assolverlo sia mediante il ricorso a prove documentali o testimoniali oppure attraverso la prova indiziaria.

Cass. pen., Sez. III, n. 20778/2014, cit., aveva a sua volta affermato che quel che si pone non è tanto una questione di mancato rilascio delle certificazioni, bensì piuttosto di ripartizione degli oneri probatori, incombendo al pubblico ministero di provare i fatti costitutivi dell'addebito contestato, tra cui, per quanto qui interessa, il rilascio delle certificazioni (onere che può assolvere per via documentale, testimoniale o indiziaria). All'imputato invece incombe, se il pubblico ministero ha adempiuto al proprio onere, l'ulteriore onere di provare «i fatti (estintivi o modificativi) che paralizzino la "pretesa punitiva", con la conseguenza che la pura e semplice affermazione di non avere rilasciato le certificazioni ai sostituiti o di non aver retribuito i dipendenti, e di conseguenza neppure operato le ritenute, non è idonea all'assolvimento dell'onere probatorio a suo carico e dunque non lo esonera dalle responsabilità, al cospetto di prove documentali provenienti dallo stesso imputato o testimoniali, che a queste si riferiscano, che comprovino l'esatto contrario».

Un diverso filone interpretativo ha invece escluso con forza che la prova dell'elemento costitutivo del reato, espressamente rappresentato dal rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate, potesse essere costituito dal solo contenuto della dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro (Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2014, n. 40526; Cass. pen., Sez. III, 9 ottobre 2014, n. 10475; Cass. pen., Sez. III, 15 ottobre 2014, n. 11335; Cass. pen., Sez. III, 29 ottobre 2014, n. 6203).

Questi gli argomenti a sostegno di tale indirizzo:

  1. l'elemento specializzante che determina il configurarsi della natura delittuosa della fattispecie di cui all'art. 10-bis, d.lgs. 74 del 2000 è costituito proprio dal rilascio della certificazione al sostituito;
  2. il rilascio della certificazione è elemento costitutivo della fattispecie, al pari della effettiva corresponsione delle retribuzioni e della trattenuta alla fonte;
  3. anche a volerlo ritenere mero presupposto della condotta, è necessario che se ne fornisca la prova, non desumibile dalla mera dichiarazione di sostituto di imposta;
  4. il modello 770 e la certificazione rilasciata ai sostituti sono documenti disciplinati da fonti normative distinte, rispondono a finalità non coincidenti, e non devono essere consegnati o presentati contestualmente;
  5. da nessuna casella o dichiarazione contenuta nei modelli 770 emerge che il sostituto attesta (sia pure indirettamente o implicitamente) di avere rilasciato ai sostituiti le relative certificazioni;
  6. se la presentazione della dichiarazione di sostituto presupponesse, secondo il criterio dell'id quod plerunique accidit, sempre e comunque la formazione e consegna dei certificati ai sostituiti, il legislatore ne avrebbe certamente tenuto conto ed avrebbe, con notevole semplificazione probatoria, punito unicamente il mancato versamento delle ritenute riportate nella dichiarazione modello 770;
  7. in ogni caso la dichiarazione del sostituto di imposta costituirebbe un mero indizio, insufficiente a costituire prova del fatto ai sensi dell'art. 129, c.p.p..

Facendo leva sul fatto che la presentazione del modello 770 costituisce mero indizio del rilascio delle certificazioni della presentazione del mod. 770, un indirizzo interpretativo intermedio ne ha ritenuto la sufficienza ai fini della adozione delle misure cautelari reali, in particolare del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di cui all'art. 322-ter c.p. (oggi art. 12-bis, d.lgs. 74 del 2000) (Cass. pen., Sez. III, 26 aprile 2016, n. 4859; Cass. pen., Sez. III, 27 settembre 2017, n. 8049; Cass. pen., Sez. III, 10 ottobre 2017, n. 2741 del 10 ottobre 2017, dep. 2018).

Il contrasto interpretativo è già stato portato all'attenzione delle Sezioni unite con ordinanza della Sezione III, 29 maggio 2015, n. 21629.

Dopo aver dato conto delle opposte interpretazioni dell'art. 10-bis, d.lgs. 74 del 2000, l'ordinanza aveva sviluppato un argomento inedito (e originale) a sostegno dell'utilizzabilità tout court della dichiarazione di sostituto di imposta quale prova dell'effettivo rilascio ai sostituiti delle certificazioni.

Veniva affermato in particolare che:

  1. nessuno degli opposti orientamenti si era soffermato analiticamente sulla natura della dichiarazione contenuta nel mod. 770 e, in ipotesi, sulla assoggettabilità di tale dichiarazione, una volta sottoscritta e inviata all'ente finanziario, alla disciplina prevista dal combinato disposto del d.P.R. 445 del 2000, artt. 46 e 76;
  2. in particolare, non era stato esaminato se la dichiarazione in parola potesse eventualmente rientrare nella categoria delle dichiarazioni sostitutive di certificazioni di cui alla lettera p) dell'art. 46, del citato d.P.R. 445/2000, inerenti all'assolvimento di specifici obblighi contributivi con la indicazione dell'ammontare corrisposto, posto che una eventuale dichiarazione infedele nel mod. 770 contenente l'asserzione di avere operato ritenute in realtà mai effettuate potrebbe essere qualificata come dichiarazione non veritiera assoggettabile - ove ne ricorrano le condizioni - alle sanzioni penali previste dall'art. 76, del predetto d.P.R. 445/2000;
  3. nelle avvertenze contenute nella prima pagina del mod. 770 sono riportate nella apposita casella intitolata conferimento dati le seguenti indicazioni: «I dati richiesti devono essere forniti obbligatoriamente al fine di potersi avvalere degli effetti delle disposizioni in materia di dichiarazione dei redditi. L'indicazione di dati non veritieri può fare incorrere in sanzioni amministrative o, in alcuni casi, penali [...]». Si tratta di avvertenze che intendono attribuire un significato formale ad una dichiarazione destinata, oltretutto, ad un soggetto pubblico e suscettibile di controlli, sicché a parte la considerazione empirica che non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e, perciò stesso, certificato, va chiarito quale responsabilità incomba sul soggetto autore della dichiarazione mod. 770, indipendentemente dal profilo concernente il delitto di cui all'art. 10-bis del d.lgs. 74 del 2000: altro è affermare che si tratta di una dichiarazione non avente alcun carattere di solennità (e dunque abbisognevole di riscontri), altro è dire che si tratta di una dichiarazione formale, di tenore sostanzialmente confessorio, non scevra di conseguenze sul piano contenutistico;
  4. un utile riferimento potrebbe farsi alla dichiarazione rilasciata da datore di lavoro all'Inps nei c.d. mod. DM10 comprovanti il pagamento delle retribuzioni ed il versamento delle ritenute previdenziali in quanto, anche in quel caso, tale modello, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte costituisce prova dell'avvenuto pagamento delle retribuzioni e dunque prova del delitto di cui alla l. 638 del 1983, art. 2, comma 3. A conferma della valenza probatoria di tale dichiarazione e del carattere vincolante di essa sotto il profilo penale va ricordato che l'eventuale falsa dichiarazione da parte del datore di lavoro contenuta nel mod. DM10 di aver corrisposto prestazioni previdenziali in realtà mai effettuate e tuttavia detratte contabilmente a conguaglio dei contributi dovuti all'INPS, integra il reato di cui alla l. 689 del 1981, art. 37, (Cass. pen., Sez. III, 2 marzo 2006, n. 15077) ovvero, ancora, il reato di cui all'art. 640 cpv. c.p. (Cass. pen., Sez. III, 3 novembre 2014, n. 45225);
  5. una interpretazione autorevole da parte delle Sezioni unite di questa Corte si impone anche in riferimento alla portata della dichiarazione fiscale. Se infatti essa dovesse assumere una valenza formale di tipo confessorio, le ricadute sul piano probatorio relative al delitto di cui al d.lgs. 74 del 2000, art. 10-bis, sarebbero particolarmente pregnanti.

La morte dell'imputata prima dell'udienza fissata per la discussione ha impedito alla Corte di cassazione di esprimersi nel suo massimo consesso, per cui la questione era rimasta irrisolta.

Nel dichiarato intento di porre fine alle incertezze applicative, il Legislatore è intervenuto modificando l'art. 10-bis d.lgs. 74 del 2000. L'art. 7, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. 158 del 2015 l'ha rimodellato come segue: «È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d'imposta».

Oltre all'innalzamento della c.d. soglia di punibilità, l'elemento di forte novità è costituito dal recupero, ai fini della integrazione del reato, della mera presentazione della dichiarazione di sostituto di imposta quale presupposto della condotta omissiva. Come ricordato, tale requisito differenziava le due ipotesi di omesso versamento delle ritenute d'imposta sanzionate dall'art. 2, commi 2 e 3, d.l. 429 del 1982: contravvenzione, l'omesso versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione; delitto, l'omesso versamento di quelle risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti (se superiore a venticinque milioni di lire). La prima ipotesi era stata scartata dal Legislatore del 2000; quello del 2015 l'ha rispolverata, ampliando inevitabilmente l'ambito applicativo della fattispecie penale anche ai fatti costituenti mero illecito amministrativo, quando il debito erariale è superiore alla c.d. soglia di punibilità.

La giurisprudenza di legittimità ha metabolizzato il novum utilizzandolo quale strumento interpretativo della precedente fattispecie: «l'inserimento del presupposto alternativo dell'omissione penalmente rilevante dimostra come non fosse sufficiente la mera produzione del mod. 770 ai fini della prova del reato nella sua versione precedente» (in questo senso, Cass. pen., Sez. III, 7 gennaio 2016, n. 10104, secondo cui, alla luce della modifica apportata dall'art. 7 del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, all'art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, che ha esteso l'ambito di operatività della norma alle ipotesi di omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione proveniente dal datore di lavoro – c.d. mod. 770 –, deve ritenersi che per i fatti pregressi la prova dell'elemento costitutivo del reato non può essere costituita dal solo contenuto della dichiarazione, essendo necessario dimostrare l'avvenuto rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro quale sostituto di imposta. Più esplicitamente, Cass. pen., Sez. III, 16 dicembre 2016, n. 10509, ha affermato che l'estensione del reato, operata dalla novella, anche alle ipotesi di omesso versamento di ritenute dovute sulla base della sola dichiarazione mod. 770 va interpretata, "a contrario", come dimostrazione che la precedente formulazione del citato art. 10-bis non soltanto racchiudesse nel proprio parametro di tipicità solo l'omesso versamento di ritenute risultanti dalla predetta certificazione, ma richiedesse anche, sotto il profilo probatorio, la necessità di una prova del suo rilascio ai sostituiti).

La citata ordinanza n. 21629 del 2015 aveva ritenuto che la modifica normativa, all'epoca contenuta nel disegno di decreto legislativo attuativo della delega conferita con legge 23 del 2014, intendesse dare valenza probatoria proprio alla dichiarazione del sostituto di imposta finendo con l'assecondare, in ultima analisi, l'orientamento interpretativo favorevole a tale soluzione.

Tale argomento è stato disatteso dalla cit. sentenza n. 10104 del 2016: «uno dei limiti, connessi al principio di irretroattività della norma incriminatrice, deve ritenersi concernere proprio la materia penale, per la peculiare tutela del singolo rispetto all'efficacia retroattiva della legge. Pertanto, oltre alle perplessità derivanti da una modifica normativa che avesse esclusivo valore probatorio, in sostanziale violazione del principio del libero convincimento del giudice e del principio dell'assenza di prove legali nel processo penale, osta ad una tale interpretazione il limite posto alle norme di interpretazione autentica in materia penale, in ragione essenzialmente del divieto di retroattività della norma incriminatrice. L'interpolazione normativa, dunque, deve ritenersi innovativa della fattispecie legale, con un ampliamento della tipicità che, necessariamente, non può avere efficacia retroattiva».

2.

Con ordinanza n. 55486 del 23 novembre 2017 (dep. il 13 dicembre 2017) la terza Sezione penale della Suprema Corte ha rimesso alle Sezioni unite penali la risoluzione della seguente questione di diritto: «se, ai fini dell'accertamento del reato di cui all'articolo 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, nel testo anteriore all'entrata in vigore dell'articolo 7, comma 1, lett. b), d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, per integrare la prova dell'avvenuta consegna ai sostituti d'imposta delle certificazioni delle ritenute fiscali sia o meno sufficiente l'acquisizione della sola dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro».

L'ordinanza non condivide (e anzi critica apertamente) gli argomenti proposti dalle citate sentenze n. 10104 del 2016 e 10509 del 2017 e, facendo proprie le osservazioni della citata ordinanza n. 21629 del 2015, osserva che in realtà l'orientamento inaugurato dalla sentenza n. 10104 ha ravvisato «nel testo novellato dell'articolo 10 bis non solo una estensione di portata sostanziale, ma pure una norma probatoria, questa sì, a ben guardare, retroattiva: la inidoneità della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta a costituire una prova, neppure indiziaria, del rilascio della certificazione ai sostituiti per i reati commessi prima della estensione della fattispecie sostanziale. Ciò potendo comportare, tuttavia, seguendo un iter logico, che sovente prima della riforma gli imputati siano stati condannati per avere i giudici di merito operato non una semmai erronea valutazione del compendio probatorio per accertare il reato, bensì, alla luce di un espresso orientamento di questa Suprema Corte, una vera e propria interpretazione estensiva - e quindi illegittima - del contenuto della fattispecie penale dettata dall'articolo 10-bis. Il che, naturalmente, suscita notevoli perplessità in ordine alla soluzione adottata dalle sentenze in esame».

Inoltre, prosegue l'ordinanza, «è molto agevole, partendo dal presupposto apodittico che la norma estenda anziché chiarificare, far rientrare nella norma stessa una valenza, di fatto, anche di interpretazione autentica, e lo strumento è l'argomento a contrario: se quel che introduce il legislatore è un novum (ma il problema rimasto in questo caso, come si è visto, è la certezza che si tratti davvero di un novum) significa che prima la norma non lo copriva. E ciò esclude pure criticità rispetto all'articolo 2, comma 4, c.p.c. (rectius: c.p.p.) in relazione all'effetto retroattivo di tale valenza interpretativa (id est, criticità rispetto ai limiti che il legislatore ordinario deve rispettare nel fornire interpretazione autentica, così come evidenziati dalla Corte costituzionale), poiché la norma che succede nel tempo a quella precedente, essendo la più ampia, è la meno favorevole al reo: pertanto, invertendo il suo contenuto (questo è l'argomento a contrario) ai fini interpretativi l'interpretazione della norma precedente insita nella scelta di riformarla può ben essere retroattiva, perché disegna una norma più favorevole al reo […] le due sentenze che hanno dato luogo a quest'ultimo orientamento non spiegano la scelta, invece che di un intervento autenticamente interpretativa, di un intervento "riformante" come rappresentato dall'inserimento dell'inciso nell'articolo 10 bis, tale cioè da creare una fattispecie nuova, più estesa e quindi più severa».

Infine, non corrisponde a vero che l'intervento riformatore ha inteso estendere l'ambito applicativo della norma in un'ottica repressiva ispirata a maggior severità del tutto estranea alla filosofia dell'intero intervento riformatore.

Di qui la necessità di ricorrere all'interpretazione della volontà del legislatore, come desumibile dai lavori parlamentari e, in particolare, dalla relazione illustrativa del disegno di decreto legislativo delegato: «quest'ultima afferma che la modifica ha "chiarito" la portata del testo previgente: e lascia una qualche perplessità definire ciò equivoco visto il testo effettivo della norma. Se quest'ultimo fosse, invero, così evidente nel suo contenuto, non sarebbe mai stata posta in discussione la sua natura di norma di interpretazione autentica: eppure, l'orientamento in esame prende le mosse proprio da tale eventualità, pur giungendo a rifiutarla. Peraltro, non si può non rilevare che l'affermazione di una ratio di chiarimento, di per sé, ben difficilmente assume una funzione equivoca, poiché ciò che è chiaro è esattamente l'opposto di ciò che è equivoco. Si stenta, allora, a ritenere che il legislatore abbia nel caso in esame tenuto una condotta in toto intrinsecamente opposta: da un lato manifestando una intenzione di chiarire, dall'altro ponendo in essere un elemento equivoco».

Resta dunque il dubbio che la riforma abbia effettivamente inteso attribuire valenza probatoria (ma forse sarebbe meglio dire “strutturale”) alla dichiarazione di sostituto di imposta ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 10-bis, d.lgs. 74 del 2000, nel periodo antecedente alla riforma stessa. Tale dubbio, conclude l'ordinanza, non è stato sciolto dalla giurisprudenza successiva alla sua entrata in vigore.

3.

Il Primo Presidente della Corte Suprema di cassazione ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite penali, fissando per la trattazione l'udienza del 22 marzo 2018.

4.

Le Sezioni unite della Cassazione, chiamate a pronunciarsi sulla questione controversa «se, ai fini dell'accertamento del reato di cui all'art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, nel testo anteriore all'entrata in vigore dell'art. 7, comma 1, lett. b), d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, per integrare la prova dell'avvenuta consegna ai sostituiti delle certificazioni delle ritenute fiscali sia sufficiente la sola dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro» hanno dato risposta negativa.

5.

Il 1° giugno 2018 sono state depositate le motivazioni della sentenza.

Dopo aver sinteticamente illustrato la disciplina tributaria (e le ragioni) della sostituzione di imposta e delle incombenze che gravano sul sostituto di imposta, le Sezioni unite ripercorrono la storia del reato nei termini già ampiamente illustrati (supra, v. Questione controversa) che precede ed affrontano la questione devoluta affermando chiaramente che il contrasto interpretativo insorto in seno alla Sezione terza della S.C. riguarda non tanto l'esegesi della norma sul piano sostanziale quanto, piuttosto, la sufficienza della dichiarazione c.d. mod. 770 del sostituto a dimostrare l'avvenuto rilascio ai sostituiti delle certificazioni.

Nell'illustrare le ragioni del decisum, le Sezioni unite così argomentano:

1) non v'è dubbio che il Legislatore del 2004, nel reintrodurre l'illecito penale di omesso versamento delle ritenute abbia condizionato testualmente l'illecito alle sole ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti; in altri termini, solo le ritenute che risultino, ovvero siano attestate, dalle certificazioni predette sono idonee ad attingere il grado di disvalore penale considerato dal Legislatore;

2) nessuna delle sentenze appartenenti agli opposti indirizzi interpretativi ha mai affermato il contrario, considerato il chiaro significato della norma, insuscettibile, per il rispetto dovuto al principio di legalità, di interpretazioni in definitiva abrogatrici della locuzione risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti;

3) ne consegue che, ai fini della consumazione del reato in epoca precedente alle interpolazioni del 2015, è necessario il rilascio delle certificazioni, sia che venga ritenuto elemento costitutivo del reato, sia che venga ritenuto quale presupposto di esso;

4) entrambi gli indirizzi appaiono convenire sul fatto (o comunque appaiono implicitamente muovere dallo stesso, non essendovi affermazioni di segno contrario) che, ai fini di provare il rilascio delle certificazioni, non è necessaria l'acquisizione materiale delle certificazioni stesse, perché ben possono supplire prove documentali anche di altro genere o prove orali (tra cui, in primis, le dichiarazioni dello stesso sostituito), conclusione, questa, del tutto corretta e logicamente discendente, evidentemente, dal principio di atipicità delle prove penali insito nel disposto di cui all'art. 189 c.p.p., dovendo, dunque, anche qui ribadirsi l'incompatibilità, con l'assetto processuale penale, di un sistema di prove tipiche o legali;

5) non è in discussione il fatto che l'onere di tale prova incomba, ancora una volta non essendo determinante sul punto la classificazione formale dell'elemento in oggetto quale elemento costitutivo o, piuttosto, quale presupposto del reato, sul pubblico ministero;

6) il contrasto, dunque, verte, in realtà, su una valutazione di carattere probatorio: «semplificando, si potrebbe affermare che l'unico vero sostanziale effetto differentemente conseguente ai due orientamenti sarebbe quello di esonerare o meno il pubblico ministero dall'onere di ricercare, al fine del raggiungimento della prova richiesta sul punto già sottolineato, elementi ulteriori e diversi (orali, come ad esempio le dichiarazioni dei sostituiti, o documentali) rispetto alla sola dichiarazione modello 770 […] il pubblico ministero, vale ribadire, non è comunque esonerato da tale prova per il fatto che l'imputato non abbia allegato circostanze ed elementi in senso contrario, non essendo, nell'ordinamento processuale penale, previsto un onere probatorio a carico dell'imputato modellato sui principi propri del processo civile (Cass. pen., Sez. V, 19 maggio 2014, n. 32937, Stanciu). Infatti, sia norme sovraordinate di carattere generale internazionali (specificamente l'art. 6.2. della Convenzione Edu e l'art. 14 n. 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, entrambe espressamente indicanti la necessità che la colpevolezza dell'accusato sia provata secondo legge) e interne (art. 25 Cost. in ordine alla presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva), sia norme processuali (specificamente l'art. 533 c.p.p. ove si stabilisce che il giudice pronuncia sentenza di condanna solo là dove l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio) appaiono indicative della fissazione in senso "sostanziale", a carico di chi sostenga la tesi di accusa nel processo penale, di un preciso onere di prova (in tale ultimo senso, Cass. pen., Sez. III, n. 2393/2018, Vecchierelli, cit.). Escluso, dunque, che il contrasto segnalato riguardi l'esegesi della norma, in particolare con riguardo all'elemento oggettivo del reato contemplato, ciò su cui gli indirizzi già illustrati divergono viene, in definitiva, ad essere rappresentato dalla possibilità o meno di includere di per sé solo, tra gli elementi indicativi dell'avvenuto rilascio della certificazione unica attestante le ritenute effettuate, il "documento" rappresentato dal mod. 770»;

7) il quadro ST del modello 770, come ben posto in risalto dall'indirizzo maggioritario, non reca alcuna specifica indicazione in ordine al rilascio delle certificazioni avendo invece a oggetto unicamente i dati dell' importo versato e delle ritenute operate;

8) nessun valore probatorio potrebbe connettersi alle istruzioni per la compilazione del modello 770 semplificato nella parte in cui prescrivono che «detto modello contiene i dati relativi alle certificazioni rilasciate ai soggetti cui sono stati corrisposti [...] i redditi di lavoro dipendente» essendo chiara in tale dizione la volontà di riferirsi non già al fatto del rilascio ma a quello della necessità di indicazione, in dichiarazione, delle medesime ritenute di cui alla certificazione unica, ove rilasciata;

9) per superare un tale impasse, l'indirizzo più risalente è ricorso sostanzialmente a un ragionamento di carattere presuntivo, essendosi affermato che «non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e perciò stesso certificato» (testualmente, Cass. pen., Sez. III, n. 20778/2014, cit.). Sennonché, intesa tale affermazione come volta ad affermare che, secondo l'id quod plerumque accidit, ciò che si dichiara nel mod. 770 sarebbe allo stesso tempo anche ciò che si certifica (il riferimento alla "corresponsione" deve ritenersi improprio perché ciò di cui si tratta non sono gli emolumenti ma le ritenute, che non si corrispondono ma si effettuano), ed equiparati dunque l'indicazione nel modello 770 alla attestazione nelle certificazioni, resta tuttavia, anche in tale assioma, ancora una volta "scoperto", e non colmabile dal punto di vista logico, il dato del rilascio;

10) correttamente la sentenza Cass. pen., Sez. III, n. 40526/2014, cit., ha affermato che «se davvero la presentazione della dichiarazione di sostituto presupponesse, secondo il criterio dell'id quod plerumque accidit, sempre e comunque la formazione e consegna dei certificati ai sostituiti, il Legislatore ne avrebbe certamente tenuto conto ed avrebbe, con notevole semplificazione probatoria, punito unicamente il mancato versamento delle ritenute riportate nella dichiarazione modello 770. Se ciò non ha fatto, e ha anzi modificato la precedente normativa (che richiedeva soltanto l'omesso versamento delle ritenute), è proprio perché il Legislatore era ben consapevole delle differenze strutturali e della radicale autonomia dei due distinti documenti, sicché non era possibile desumere automaticamente dall'esistenza dell'uno la sussistenza dell'altro»;

11) la questione della natura da attribuire al modello 770, se cioè avente valore di confessione stragiudiziale, appare fondamentalmente irrilevante proprio perché il modello non contiene alcun riferimento al rilascio delle certificazioni sì che da esso potrebbe dunque eventualmente dedursi la "confessione" di avere operato le ritenute ma non certo quella di avere rilasciato le relative certificazioni;

12) anche il riferimento al modello DM 10 di versamento dei contributi previdenziali attestante le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e l'ammontare degli obblighi contributivi (la cui accertata presentazione da parte del datore di lavoro è valutabile, in assenza di elementi di segno contrario come prova della effettiva corresponsione degli emolumenti ai lavoratori) appare impropriamente evocato ove si tenga conto della diversità di contenuto della prova necessaria (corresponsione degli emolumenti da un lato, appunto, e rilascio delle certificazioni dall'altro);

13) di qui la conclusione secondo cui le indicazioni contenute nel modello 770 non sono da sole idonee a provare il fatto del rilascio delle certificazioni, essendo indizio che, se può essere sufficiente in sede cautelare reale a fronte del differente standard dimostrativo richiesto, non lo è però in giudizio a fronte del canone dell'accertamento al di là di ogni ragionevole dubbio cristallizzato dall'art. 533 c.p.p.; e ciò, sottolineano le Sezioni unite, a prescindere dalla attribuzione, alla circostanza del rilascio delle certificazioni, della veste di presupposto del reato ovvero di elemento costitutivo dello stesso;

14) il rilascio delle certificazioni, fisiologicamente anteriore alla scadenza del termine per il versamento (anche nella struttura della norma, che significativamente appare impiegare il participio passato "rilasciate"), appare più correttamente inquadrabile nella categoria del presupposto della condottasenza che ciò escluda la necessità che di tale circostanza, necessaria per integrare l'illecito penale anche soprattutto per differenziare quest'ultimo dall'illecito amministrativo, debba essere data prova;

15) la fondatezza di tali conclusioni non è contraddetta dalle modifiche dell'art. 10-bis cit., operate dall'art. 7 del d.lgs. 158/2015;

16) la relazione illustrativa allo schema del decreto legislativo delegato afferma di aver chiarito «la portata dell'omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti di cui all'articolo 10-bis (mediante l'aggiunta del riferimento alle ritenute dovute sulla base della dichiarazione)»;

17) orbene – spiegano le Sezioni unite – la necessità di chiarire il significato della norma non può che essere rapportata, logicamente, all'incertezza determinata dal dibattito giurisprudenziale circa le modalità con cui provare il rilascio della certificazione unica, essendo la disposizione stata ricostruita quanto al momento "attestativo" delle ritenute, non più confinato solo a quanto risultante dalla certificazione ma esteso anche a quanto dovuto sulla base del contenuto della dichiarazione modello 770 (che riporta l'indicazione delle ritenute operate): in tal modo si è reso non più indispensabile provare il previo rilascio della certificazione unica potendo guardarsi, per l'individuazione delle ritenute il cui omesso versamento deve essere sanzionato, anche al solo modello 770;

18) se questo è il significato della modifica, non può allora sussistere alcun dubbio sulla portata innovativa della norma che, prendendo atto del prevalente orientamento della Corte di cassazione, ha obiettivamente inciso sullo stesso oggetto materiale della condotta la cui omissione è sanzionata, la cui individuazione, dapprima limitata alle sole ritenute che risultavano dalla certificazione, è oggi estesa alle ritenute emergenti dalla dichiarazione modello 770;

19) non si può valorizzare in senso contrario la volontà di mero "chiarimento" che avrebbe animato il Legislatore nell'effettuare la modifica in questione: se il chiarimento si è tradotto, come pare indubitabile, nella individuazione di un oggetto dell'omesso versamento alternativo a quello in origine contenuto nella norma e in precedenza in alcun modo ricavabile dal testo (il riferimento alla dichiarazione compare solo nella nuova versione), appare non corretto discorrere di norma di interpretazione autentica; e ciò, tanto più ove si consideri quanto già evidenziato dalla sentenza 40526 del 2014 in ordine alle differenze e alle diverse finalità di certificazione unica da una parte e dichiarazione del sostituto d'imposta dall'altra;

20) in disparte la diversa funzione cui assolvono la certificazione unica e la dichiarazione di sostituto di imposta, lo stesso Legislatore ha chiarito che l'integrazione della rubrica del novellato art. 10-bis è stata imposta dalle «modifiche introdotte e, in particolare dall'estensione del comportamento omissivo non più alle sole ritenute "certificate" ma anche a quelle "dovute" sulla base della dichiarazione annuale del sostituto d'imposta», una tale precisazione finendo quanto meno per neutralizzare la possibile portata del riferimento all'esigenza di "chiarimento" nel senso della natura mera interpretativa del nuovo testo;

21) del resto, ricordano le Sezioni unite, l'essenza di una norma interpretativa deve essere quella di imporre per legge una scelta nell'interpretazione di una norma che «rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore» (Corte cost. n. 525 del 2000). La Corte costituzionale ha ulteriormente spiegato che «va riconosciuto il carattere interpretativo ad una legge, la quale, fermo restando il testo della norma interpretata, ne chiarisca il significato normativo e privilegi una delle tante interpretazioni possibili, di guisa che il contenuto precettivo sia espresso dalla coesistenza di due norme, quella precedente e quella successiva, che ne esplica il significato e che rimangono entrambe in vigore» (Corte cost. n. 455 del 1992) e, in altra decisione, ha chiarito essere necessario che «la scelta ermeneutica imposta dalla legge interpretativa rientri fra una delle possibili varianti di senso del testo interpretato, cioè stabilisca un significato che ragionevolmente poteva essere ascritto alla legge anteriore» (Corte cost. n. 480 del 1992);

22) la diversità strutturale e funzionale dei due documenti (certificazione unica e dichiarazione di sostituto di imposta) impedisce che, nel testo anteriore della norma, possa rinvenirsi il significato oggetto del "chiarimento" attuato con la nuova formulazione;

23) la modifica legislativa ha dunque potata innovativa e di indiretta "conferma" dell'indirizzo maggioritario della Corte, con conseguente esclusione di qualunque possibilità di sua applicazione retroattiva in ossequio agli artt. 2 cod. pen. e 25 Cost., così che il contrasto devoluto alle Sezioni unite, riguardante un'omissione realizzata nell'anno 2011, deve essere sciolto unicamente sulla base del dato previgente;

24) si è dubitato, in dottrina, della conformità dell'art. 7 del d.lgs. 158 del 2015, cit. (modificativo appunto dell'art. 10-bis cit.) ai criteri direttivi della legge delega con conseguente possibile attrito rispetto all'art. 76 Cost. posto che l'art. 8 della legge 11 marzo 2014, n. 23 (di delega di riforma del sistema tributario), con riferimento alle fattispecie meno gravi (cui viene ricondotta l'omissione in questione), prevedeva solo ed esclusivamente di ridurre le sanzioni o di applicare sanzioni amministrative e non autorizzava il Governo in alcun modo ad estendere la portata dell'incriminazione attraverso la previsione di una condotta in precedenza penalmente irrilevante;

25) si è altresì ritenuto che l'incriminazione dell'omesso versamento delle ritenute dovute in base alla dichiarazione comportasse una violazione del divieto di bis in idem; si è posto in rilievo – affermano le Sezioni unite – come, venendo ora sanzionato penalmente l'omesso versamento di ritenute anche solo risultanti dalla dichiarazione, la distinzione in oggetto rischi di venire quanto meno offuscata se non vanificata con conseguente sovrapposizione tra loro delle fattispecie penale ed amministrativa;

tali obiezioni, rafforzano, sul piano ermeneutico, l'opzione interpretativa dell'art. 10-bis, d.lgs. 74/2000 nella sua formulazione pre-vigente e sono perciò irrilevanti ai fini della specifica regiudicanda (le Sezioni unite, sul punto, sembrano adombrare più di un dubbio sulla tenuta costituzionale della nuova norma anche considerando il fatto che le ritenute risultanti dalla certificazione potrebbero, nella variegata realtà dei casi, non coincidere con quelle riportate in dichiarazione, sì che l'interprete, a fronte della equipollenza, oggi posta dalla norma, dell'una e dell'altra documentazione, resterebbe libero di propendere per la prima ovvero per la seconda pur in presenza della possibile differenza di importi tanto più rilevante considerata la previsione di una soglia di punibilità).

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